Un entusiasta cardinale Ruini detta ai suoi preti una lezione sul “cuore” dell’insegnamento di Ratzinger. di Sandro Magister- www.chiesa.espressonline.it E dice loro perché il papa
ha voluto scrivere un libro proprio su Gesù . _______________________________________________________________________________________________ Vediamo ora, più rapidamente, quali siano i cambiamenti intervenuti nel cristianesimo stesso che hanno contribuito al divorzio consumatosi tra esso e la ragione nella nostra epoca. Nel discorso di Regensburg Benedetto XVI mette l’accento in particolare sul tema della “de-ellenizzazione” del cristianesimo, che emerge una prima volta già nel XVI secolo con la Riforma protestante: l’intento era ritornare alla pura fede biblica, liberandola dal condizionamento della filosofia greca, ossia della metafisica. Un’intenzione simile si ritrova anche in Kant, sia pure in forma assai diversa. La seconda ondata del programma di deellenizzazione nasce dalla teologia protestante liberale del secolo XIX e XX ma ha interessato fortemente anche la teologia cattolica. Nel pensiero dei suoi rappresentanti più radicali, come Harnack, si tratta di ritornare al Gesù soltanto uomo, che sarebbe il Gesù della storia, e al suo semplice messaggio morale, che costituirebbe il culmine dello sviluppo religioso dell’umanità, liberandolo dai successivi sviluppi filosofici e teologici, a cominciare dalla stessa divinità di Cristo. Alla base c’è l’autolimitazione moderna della ragione a ciò che è verificabile. La terza ondata della deellenizzazione sta diffondendosi attualmente, in rapporto con il problema dell’incontro del cristianesimo con le molteplici culture del mondo: la sintesi con l’ellenismo compiutasi nella Chiesa antica sarebbe una prima inculturazione, da cui occorrerebbe liberarsi, ritornando al semplice messaggio del Nuovo Testamento per inculturarlo di nuovo nei diversi contesti socio-culturali. Il risultato è inevitabilmente quello di relativizzare il legame tra fede e ragione instauratosi fin dall’inizio del cristianesimo, ritenendo che esso sia soltanto contingente e quindi superabile. Un altro e ancor più rilevante cambiamento è stato quello per il quale, con il passare dei secoli, il cristianesimo era purtroppo diventato in larga misura tradizione umana e religione di stato, contrariamente alla propria natura (cfr le parole di Tertulliano: “Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine”). Nonostante la ricerca di razionalità e di libertà sia sempre stata presente nel cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. È stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto, spesso in polemica con la Chiesa, questi valori originari del cristianesimo e aver ridato alla ragione e alla libertà la loro propria voce. Il significato storico del Concilio Vaticano II sta nell’aver nuovamente evidenziato, specialmente nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e nella dichiarazione sulla libertà religiosa, questa profonda corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, puntando ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti (“L’Europa”, pp. 57-59; cfr anche il discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005). 4. Per un nuovo accordo della ragione e della libertà con il cristianesimo Giungiamo così al vero obiettivo di tutte le precedenti riflessioni: cercare le vie di un nuovo accordo della ragione e della libertà con il cristianesimo, ossia, come è scritto nel titolo di questa relazione, “proporre la verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo”. La risposta che J. Ratzinger – Benedetto XVI dà a questo interrogativo è anzitutto quella di “allargare gli spazi della razionalità”. La limitazione della ragione a ciò che è sperimentabile e controllabile è infatti utile, esatta e necessaria nell’ambito specifico delle scienze naturali e costituisce la chiave dei loro incessanti sviluppi. Se però viene universalizzata e ritenuta assoluta e autosufficiente, una tale limitazione diventa insostenibile, disumana e alla fine contraddittoria. In forza di essa infatti l’uomo non potrebbe più interrogarsi razionalmente sulle realtà essenziali della sua vita, sulla sua origine e sul suo fine, sul dovere morale, sulla vita e sulla morte, ma dovrebbe lasciare questi problemi decisivi a un sentimento staccato dalla ragione. Così però la ragione viene mutilata e l’uomo viene diviso in se stesso e quasi disintegrato, provocando la patologia tanto della religione – che, staccata dalla razionalità, facilmente degenera nella superstizione, nel fanatismo e nel fondamentalismo – quanto della scienza, che si rivolge facilmente contro l’uomo quando si distacca dall’etica e in concreto dal riconoscimento del soggetto umano come colui che non può mai essere ridotto a strumento (cfr “Fede”, pp. 99 e 164-166). Proprio la pretesa che l’unica realtà sia quella che è sperimentabile e calcolabile porta del resto fatalmente a ridurre il soggetto umano a un prodotto della natura, come tale non libero e suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione dell’uomo e della sua libertà. Analogamente, sul piano pratico, quando la liberta individuale che non discrimina, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico, essa finisce per diventare un nuovo dogmatismo perché esclude ogni altra posizione, che può essere lecita soltanto finché rimane subordinata e non in contraddizione rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate le norme morali del cristianesimo e viene rifiutato in partenza ogni tentativo di mostrare che esse, o qualsiasi altre, hanno validità oggettiva perché si fondano sulla realtà stessa dell’uomo. Diventa pertanto inammissibile l’espressione pubblica di un autentico giudizio morale. Si è sviluppata così in Occidente una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce la contraddizione più radicale non solo del cristianesimo ma delle tradizioni religiose e morali dell’umanità (cfr “L’Europa”, pp. 34-55, e il discorso di Regensburg). Per mostrare come la limitazione della ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile sia non solo carica di conseguenze negative ma intrinsecamente contraddittoria, J. Ratzinger concentra l’attenzione sulla struttura stessa e sui presupposti della conoscenza scientifica e in particolare su quella posizione che vorrebbe fare della teoria dell’evoluzione la spiegazione almeno potenzialmente universale di tutta la realtà. Una caratteristica fondamentale della conoscenza scientifica è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, ossia tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: questa sinergia è la chiave dei risultati giganteschi e sempre crescenti che si ottengono attraverso le tecnologie, operando con la natura e mettendo al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è però una creazione della nostra intelligenza, il frutto puro e “astratto” della nostra razionalità. La corrispondenza che non può non esistere tra la matematica e le strutture reali dell’universo, perché in caso diverso le previsioni scientifiche e le tecnologie non funzionerebbero, pone dunque una grande domanda: implica cioè che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi a quale condizione una tale corrispondenza sia possibile e in concreto se non debba esservi un’intelligenza originaria, che sia la fonte comune della natura e della nostra razionalità. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Lógos creatore e viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, riconducendo ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà (cfr i discorsi di Verona e di Regensburg, oltre che “Fede”, pp. 188-192). Naturalmente una simile domanda e riflessione, pur partendo dall’esame della struttura e dei presupposti della conoscenza scientifica, va al di là di questa forma di conoscenza e si pone al livello dell’indagine filosofica: non si oppone dunque alla teoria dell’evoluzione, finché questa rimane nell’ambito scientifico. Anche sul piano filosofico, inoltre, il Lógos creatore non è l’oggetto di una dimostrazione apodittica ma rimane “l’ipotesi migliore”, un’ipotesi che esige da parte dell’uomo e della sua ragione “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”. In concreto, specialmente nell’attuale clima culturale, l’uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa “ipotesi migliore”: egli rimane infatti prigioniero di una “strana penombra” e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e dall’etica. Soltanto la rivelazione, l’iniziativa di Dio che in Cristo si manifesta all’uomo e lo chiama ad accostarsi a Lui, ci rende pienamente capaci di superare questa penombra (cfr “L’Europa”, pp. 115-124; 59-60, e il discorso di Regensburg). Proprio la percezione di una tale “strana penombra” fa sì che l’atteggiamento più diffuso tra i non credenti non sia oggi l’ateismo – avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio – ma l’agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che J. Ratzinger dà a questo problema ci riporta ulteriormente verso la realtà della vita: a suo giudizio infatti l’agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita. Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza. Ciò perché Dio, se esiste, non può essere un’appendice da togliere o aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l’origine, il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso. Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica. Se mi decido invece per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile (cfr “L’Europa”, pp. 103-114). È interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto questo profilo, tra questione dell’uomo e questione di Dio: entrambe, per la loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore e l’impegno della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre anche questioni eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le nostre concrete scelte di vita. A questo punto siamo in grado di comprendere meglio il tipo di approccio teologico, ma anche pastorale, di Benedetto XVI. Egli dedica grande attenzione al rapporto della fede con la ragione e alla rivendicazione di verità del cristianesimo. Fa questo però in un modo che non è affatto razionalistico. Al contrario, egli ritiene che sia fallito il tentativo della neoscolastica di voler dimostrare la verità delle premesse della fede (i “praeambula fidei”) mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede stessa e che siano destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi, come d’altra parte è fallito il tentativo opposto di K. Barth di presentare la fede come un puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale indipendenza dalla ragione (cfr “Fede”, pp. 141-142). In concreto, dunque, la via che conduce a Dio è Gesù Cristo, non solo perché soltanto in Lui possiamo conoscere il volto di Dio, il suo atteggiamento verso di noi e il mistero stesso della sua vita intima, cioè del Dio unico e assoluto che esiste in tre Persone totalmente “relative” a vicenda – di questo mistero non sono state ancora enucleate tutte le implicazioni sia per la nostra vita sia per la stessa conoscenza di Dio, dell’uomo e del mondo –, ma anche perché soltanto nella croce del Figlio, nella quale si mostra nella sua forma più radicale l’amore misericordioso e solidale di Dio per noi, può trovare una risposta, misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che da sempre – ma con forza nuova nella nostra epoca “umanistica” – è la fonte del dubbio più grave contro l’esistenza di Dio. Perciò la preghiera, l’adorazione che apre al dono dello Spirito e rende liberi il nostro cuore e la nostra intelligenza, è dimensione essenziale non solo della vita cristiana ma della conoscenza credente e del lavoro del teologo (cfr discorso di Verona; “Introduzione”, pp. 135-146; prolusione del 1959 all’Università di Bonn). Non per puro gusto personale, dunque, Benedetto XVI sta usando “tutti i momenti liberi” per portare avanti il suo libro “Gesù di Nazareth”, di cui pubblicherà tra breve la prima parte e ha già reso pubblici stralci della prefazione e dell’introduzione. La separazione tra il “Cristo della fede” e il reale “Gesù storico”, che l’esegesi basata sul metodo storico-critico sembra aver reso sempre più profonda, costituisce per la fede una situazione “drammatica”, perché “rende incerto il suo autentico punto di riferimento”. Perciò J. Ratzinger – Benedetto XVI si è dedicato a mostrare che il Gesù dei Vangeli e della fede della Chiesa è in realtà il vero “Gesù storico”, e fa questo impiegando il metodo storico-critico, di cui riconosce volentieri i molteplici risultati positivi, ma andando anche al di là di esso, per porsi in una prospettiva più ampia, che consenta un’interpretazione della Scrittura propriamente teologica, e che pertanto richiede la fede senza rinunciare per questo alla serietà storica (cfr gli stralci pubblicati della prefazione). Si tratta cioè, come per le scienze empiriche così per la critica storica, di “allargare gli spazi della razionalità”, non consentendo che esse si chiudano in se stesse e si pongano come autosufficienti (cfr “Fede”, pp. 136-142, e anche 194-203; “Introduzione”, pp. 149-180). Questo tipo di approccio a Gesù Cristo rimanda chiaramente al ruolo della Chiesa e della tradizione apostolica nella trasmissione della rivelazione. Al riguardo J. Ratzinger non solo sostiene l’origine della Chiesa da Gesù stesso e la sua intima unione con Lui, incentrata nell’ultima Cena e nell’Eucaristia (cfr “Il nuovo popolo di Dio”, edito in Italia dalla Queriniana, pp. 83-97), ma lega intrinsecamente la rivelazione con la Chiesa e la tradizione. Infatti la rivelazione è anzitutto l’atto con cui Dio si manifesta, non il risultato oggettivato (scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di rivelazione fa parte anche il soggetto che la riceve e la comprende – in concreto, la Chiesa –, dato che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato, nessuna rivelazione sarebbe avvenuta. Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica ad essa, è sempre più grande di essa. Non può quindi esistere un puro “sola Scriptura”: la Scrittura stessa è legata al soggetto che accoglie e comprende sia la rivelazione sia la Scrittura, ossia alla Chiesa. Con ciò è dato anche il significato essenziale della tradizione (cfr “La mia vita”, pp. 72; 88-93). Questo è anche il motivo profondo del carattere ecclesiale della fede, o meglio dell’intrecciarsi indissolubile dell’“io” e del “noi”, della dimensione personale ed ecclesiale, nell’atto del credere che si rapporta al “Tu” di Dio che si rivela a noi in Gesù Cristo (cfr “Introduzione”, pp. 53-64), oltre che dell’insufficienza di un’esegesi puramente storico-critica. La via proposta per rendere di nuovo convincente il cristianesimo rimane comunque, oggi come agli inizi e come lungo tutta la sua vicenda storica, quella “dell’unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo”. È questo il significato del “grande ‘sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza” e che attraverso la testimonianza dei cristiani deve essere reso visibile al mondo (discorso di Verona). In concreto, come allargando gli spazi della nostra razionalità e riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene diventa possibile “coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze” – sia naturali sia storiche – “nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia” (ibidem), così, a livello del vissuto e della prassi, nel contesto attuale è particolarmente necessario mettere in evidenza la forza liberatrice del cristianesimo, il legame che unisce fede cristiana e libertà, e nello stesso tempo far comprendere come la libertà sia intrinsecamente connessa all’amore e alla verità. L’uomo come tale, infatti, è certamente un essere “se stesso”, consapevole e libero, ma è altrettanto essenzialmente un essere “da”, “con” e “per”, necessariamente aperto e riferito agli altri: perciò la sua libertà è intrinsecamente legata al criterio della realtà – cioè alla verità – ed è libertà condivisa, libertà che si realizza nell’essere insieme di molte libertà, che si limitano ma anche si sostengono reciprocamente, libertà pertanto che si edifica nella carità (cfr “Fede”, pp. 260-264 e più in generale 245-275). La dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II ha rappresentato da questo punto di vista un decisivo passo in avanti, perché ha riconosciuto e fatto proprio un principio essenziale dello stato moderno, senza per questo cedere al relativismo, ma riscoprendo invece e attualizzando il patrimonio più profondo del cristianesimo (cfr discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005). Nella situazione attuale dell’Occidente la morale cristiana sembra comunque divisa in due parti. Una di esse riguarda i grandi temi della pace, della non violenza, della giustizia per tutti, della sollecitudine per i poveri del mondo e del rispetto del creato: questa parte gode di un grande apprezzamento pubblico, anche se rischia di essere inquinata da un moralismo di stampo politico. L’altra parte è quella che si riferisce alla vita umana, alla famiglia e al matrimonio: essa è assai meno accolta a livello pubblico, anzi, costituisce un ostacolo molto grave nel rapporto tra la Chiesa e la gente. Nostro compito, allora, è anzitutto far apparire il cristianesimo non come un semplice moralismo, ma come amore che ci è donato da Dio e che ci dà la forza per “perdere la propria vita”, e anche per accogliere e vivere quella legge di vita che è l’intero Decalogo. Così le due parti della morale cristiana potranno essere ricongiunte, rafforzandosi reciprocamente, e così i “no” della Chiesa a forme deboli e deviate di amore potranno essere compresi come dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stata creata da Dio (cfr discorso ai vescovi svizzeri del 9 novembre 2006; discorso di Verona; “L’Europa”, pp. 32-34). Il messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007 si muove proprio in questa direzione. L’intero approccio antropologico ed etico del cristianesimo, il suo modo di comprendere la vita, la gioia, il dolore e la morte, trova però la sua legittimità e la sua consistenza soltanto in quella prospettiva di salvezza storica ma soprattutto escatologica che è stata aperta dalla risurrezione di Cristo (cfr discorso di Verona). Sui temi della morte, della risurrezione e dell’immortalità, che non possiamo toccare qui, J. Ratzinger ha scritto il libro “Escatologia morte e vita eterna”, edito in Italia da Cittadella nel 1979. Fin qui la nostra attenzione si è concentrata sul rapporto tra la fede cristiana e la cultura secolarizzata dell’Occidente moderno e “post-moderno”, vittima di uno strano “odio di sé”, che va di pari passo con il suo allontanarsi dal cristianesimo. J. Ratzinger – Benedetto XVI però non perde assolutamente di vista un orizzonte assai più largo, quello dei rapporti con le altre culture e religioni del mondo, ai quali ha dedicato anzi buona parte della sua riflessione, specialmente negli anni recenti. Il concetto chiave a cui egli ricorre è quello di incontro delle culture, o “interculturalità”, differente sia dall’inculturazione, che sembra presupporre una fede culturalmente spoglia che si traspone in diverse culture religiosamente indifferenti, sia dalla multiculturalità, come semplice coesistenza – auspicabilmente pacifica – di culture tra loro diverse. L’interculturalità “appartiene alla forma originaria del cristianesimo” e implica sia un atteggiamento positivo verso le altre culture, e verso le religioni che ne costituiscono l’anima, sia quell’opera di purificazione e quel “taglio coraggioso” che sono indispensabili per ogni cultura, se vuole davvero incontrare Cristo, e che diventano per essa “maturazione e risanamento” (cfr “Fede”, pp. 66 e 89, il discorso di Verona e in particolare il dialogo del 19 gennaio 2004 tra J. Ratzinger e J. Habermas, pubblicato in “Etica, religione e stato liberale”, edito in Italia da Morcelliana 2005). Così proprio il cristianesimo può aiutare l’Occidente ad annodare i fili di quel nuovo e positivo incontro con le altre culture e religioni di cui oggi il mondo ha estremo bisogno, ma che non può costruirsi sulla base di un radicale secolarismo. Di fronte alla grandezza in qualche modo “eccessiva” di questi compiti, J. Ratzinger – Benedetto XVI non è certo la persona che tenda a farsi illusioni sull’attuale stato di salute della Chiesa cattolica e più in generale del cristianesimo. Egli è sicuro però che “chi crede non è mai solo”, come ha continuamente ripetuto nel suo viaggio in Baviera, e anche che la nostra fede ha sempre “una sua possibilità di successo”, perché essa “trova corrispondenza nella natura dell’uomo”, creato per incontrarsi con Dio (“Fede”, pp. 142-143). Questa certezza sostenga anche la nostra vita e la nostra fatica di ogni giorno. |