Teologia e cultura: terre di confine
di Camillo Ruini
1. Le radici storiche
Il rapporto tra teologia e cultura è stato fondamentale nel passato,
sia per la teologia, e più ampiamente per il cristianesimo e
la sua espansione missionaria, sia per la cultura, o meglio per le varie
culture e civiltà nelle quali il cristianesimo si è inserito
e che ha esso stesso in larga misura plasmato o anche generato.
Ciò è avvenuto già nell’epoca neotestamentaria,
quando la fede in Gesù Cristo è nata nel mondo culturale
giudaico e subito dopo è entrata in quello ellenistico-romano,
iniziando a trasformare entrambe queste culture, che del resto non erano
rigidamente separate ma già tra loro assai intrecciate.
Poi questo processo ha caratterizzato tutta l’epoca patristica,
attraverso un confronto serrato della teologia dei Padri (non solo gli
Apologeti) con la filosofia e gli stili di vita allora dominanti. Ciò è andato
di pari passo con l’affermarsi della missione cristiana e ne ha
anzi costituito una dimensione essenziale. Al termine di questo itinerario
la fede cristiana era diventata il fattore più influente e determinante
di quella cultura, che pure manteneva i suoi tratti propri e specifici
e naturalmente il suo dinamismo di evoluzione storica.
A lungo – e attraverso complesse fasi successive che hanno a che
fare con le grandi migrazioni di popoli avvenute al passaggio tra l’Antichità e
il Medioevo e con le ulteriori fasi di espansione missionaria del cristianesimo
tra i popoli germanici e slavi – è perdurato e si è per
vari aspetti esteso e anche istituzionalizzato questo ruolo centrale
del cristianesimo nella cultura. Una formulazione classica ed esemplare
di tale centralità si può vedere nella prima questione
della "Summa Theologiae" di San Tommaso d’Aquino, dedicata
alla "Sacra doctrina", dove si afferma non solo che questa
dottrina è scienza, in un senso superiore, e sapienza, ma che,
essendo una in se stessa, essa si estende a tutto ciò che appartiene
alle diverse scienze filosofiche, speculative e pratiche, e al contempo
ha rispetto ad esse una dignità che le trascende e un radicale
primato, e tuttavia deve avvalersi di loro, secondo il principio che
la grazia non toglie ma perfeziona la natura.
Sappiamo bene come non solo questo primato ma il rapporto stesso tra
cristianesimo e cultura, teologia e cultura, sia progressivamente entrato
in crisi fin dai primi inizi dell’epoca moderna, a partire da quella
che è stata chiamata la “svolta antropologica”, che
ha posto l’uomo al centro, oltre che dalla nascita della scienza
detta “galileiana” e dalle guerre di religione europee, che
hanno reso in qualche modo necessario concepire e gestire la sfera pubblica "etsi
Deus non daretur", come se Dio non ci fosse.
Non è il caso di soffermarsi qui su queste ben note problematiche.
Vorrei piuttosto ricordare che all’interno della teologia medievale,
e in forma eminente con San Tommaso, la distinzione e nella distinzione
il rapporto reciproco tra ragione e fede, filosofia e teologia, sono
stati oggetto di approfondimento sistematico. Come ha mostrato magistralmente É.
Gilson in uno studio pubblicato già nel 1927 sui motivi per i
quali San Tommaso ha criticato Sant’Agostino ("Pourquoi saint
Thomas a critiqué saint Augustin", in AHDLM, 1, pp. 5-127),
la base teoretica di questo approfondimento è da ritrovarsi nella
gnoseologia ed ontologia di matrice aristotelica, che ha consentito appunto
una distinzione più chiara e sistematica tra le capacità conoscitive
intrinseche all’uomo e la luce che egli riceve dalla presenza divina
in lui.
Una tesi storico-teologica largamente diffusa, e sviluppata soprattutto
da un autore della portata di H. de Lubac, sulle orme di M. Blondel,
ritiene che l’insistenza unilaterale su questa distinzione, affermatasi
nella “seconda scolastica”, cioè appunto ai primi
inizi dell’età moderna, abbia contribuito all’emarginazione
del cristianesimo e della teologia dagli sviluppi della cultura, rappresentandone
involontariamente una legittimazione teologica.
Personalmente posso concordare con questa valutazione, a patto di non
esagerare il suo concreto peso storico. Mi preme sottolineare però che
essa non deve portare a un giudizio negativo sulla validità intrinseca – e
anche sulla necessità e fecondità storica – di quella
distinzione sistematica.
Essa infatti nasce in ultima analisi dal riconoscimento del carattere
divino e trascendente della rivelazione cristiana, anzitutto nel suo
centro che è Gesù Cristo ma anche per quanto riguarda la
vocazione dell’umanità a partecipare gratuitamente, nello
Spirito Santo, al rapporto filiale che Cristo ha con il Padre.
Dall’altra parte essa scaturisce dal riconoscimento della consistenza
interna delle creature, proprio perché esse sono opera di Dio
(cfr "Gaudium et spes", 36).
Soltanto sulla base di questa distinzione, inoltre, è possibile
un rapporto con la ragione moderna e contemporanea e con la rivendicazione
di libertà che pervade la nostra cultura, rispettando e valorizzando
quei loro dinamismi che hanno consentito di conseguire, negli ultimi
secoli, risultati straordinari
2. L’età moderna
Nella crisi dei rapporti tra cristianesimo e cultura occidentale è comunque
importante distinguere almeno due principali fasi storiche.
La prima riconosce ancora il valore e l’importanza della fede cristiana
e a suo modo cerca di salvarne anche la verità. Ancora in Hegel
si riscontra in qualche modo questo atteggiamento, sebbene in lui appaia
particolarmente chiaro che la verità e validità del cristianesimo è subordinata
al primato della filosofia e comporta in realtà uno svuotamento
dall’interno del cristianesimo stesso, ossia il suo “trascendimento” filosofico.
Già prima di Hegel però l’illuminismo, soprattutto
in Francia, aveva visto l’emergere di una critica radicale alla
Chiesa e alla fede cristiana. Questa critica, che si conclude nella negazione
della divinità di Cristo e dell’esistenza stessa di Dio,
con la riconduzione dell’uomo a un semplice essere del mondo, ha
però il suo sviluppo culturalmente più significativo
in Germania, nella parabola storica che va da Hegel a Nietzsche e che è stata
descritta da K. Löwith con rara profondità ("Da Hegel
a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX",
ed. Einaudi).
Il secolo XIX è anche il tempo nel quale il cristianesimo occidentale
ha preso piena coscienza della radicalità di questa minaccia ed
ha cercato di reagirvi, secondo due grandi direttrici che, semplificando,
possono ricondursi l’una principalmente al protestantesimo e l’altra
soprattutto al cattolicesimo.
La prima è caratterizzata dal tentativo di riformulare il cristianesimo,
in modo da renderlo accettabile al nuovo contesto culturale ed idoneo
non solo a sopravvivere in esso ma a porsi come la sua dimensione più alta: è la
linea del protestantesimo liberale, da Schleiermacher ad Harnack, che
ha avuto certamente notevole influsso anche in ambito cattolico, soprattutto
nella vicenda del modernismo. Questa linea ha comportato in realtà uno
svuotamento del centro vitale del cristianesimo, cioè del suo
contenuto di fede, di quello che possiamo chiamare il “cristianesimo
credente”. Dal punto di vista storico essa si è conclusa,
in realtà provvisoriamente, con la prima guerra mondiale e con
la forte affermazione della fede promossa soprattutto da K. Barth.
L’altra direttrice, che ha trovato la sua espressione più significativa
ed autorevole nel Concilio Vaticano I, particolarmente nella costituzione
dogmatica "Dei Filius" sulla fede cattolica, è consistita
invece nel riproporre quelle verità fondamentali del cristianesimo
che apparivano negate o messe in dubbio dalle forme di pensiero allora
prevalenti. L’approccio a tali forme di pensiero fu pertanto fortemente
dialettico, improntato alla contestazione e alla critica assai più che
all’impegno di valorizzare gli aspetti positivi che possono esservi
presenti. Un impegno di questo genere certamente non è mancato
nel cattolicesimo del secolo XIX, basti ricordare la scuola teologica
cattolica di Tubinga, o due pensatori come J. H. Newman ed Antonio Rosmini,
ma la linea prevalente è stata diversa. Vorrei evitare però le
caricature e le semplificazioni sommarie: in realtà il lavoro
teologico e filosofico sotteso al Concilio Vaticano I e continuato poi
con l’affermarsi del neotomismo ha avuto una grande vivacità culturale,
esplicatasi per un verso nel mettere a nudo limiti e contraddizioni presenti
nel pensiero moderno, per l’altro nel ricuperare e ripensare la
grande eredità della teologia medievale, in dialogo con le problematiche
del nostro tempo.
3. Concilio e dopo-Concilio
Nel periodo tra le due guerre mondiali il cristianesimo occidentale,
sia cattolico che protestante, ha conosciuto un periodo complessivamente
più favorevole, come interna vitalità religiosa e come
accoglienza nel contesto generale della cultura. Proprio in questo periodo
sono avvenute quella svolta all’interno della teologia e filosofia
neotomista e contestualmente quell’opera di riappropriazione e
valorizzazione delle grandi ricchezze bibliche, patristiche e liturgiche,
che hanno costituito la piattaforma di base del decisivo e per molti
versi inatteso sviluppo costituito dal Concilio Vaticano II.
Con esso è cambiato profondamente l’approccio alla cultura
del nostro tempo, passando da un atteggiamento prevalentemente critico
alla ricerca di un terreno di incontro, attraverso un dialogo improntato
alla simpatia e all’apprezzamento, che non ha significato però un’accettazione
unilaterale e acritica. Ciò riguardo alla centralità dell’uomo,
cardine della svolta antropologica dell’epoca moderna, all’autonomia
delle realtà terrene, alla libertà religiosa e alla valutazione
favorevole della democrazia e dello Stato di diritto. La forza del Vaticano
II è consistita nell’aver operato quest’apertura proprio
a partire dal centro vitale del cristianesimo, ripensato nella sua straordinaria
fecondità anche umana e culturale.
Subito dopo la conclusione del Vaticano II, e non senza rapporto con
quel fenomeno storico e culturale che viene indicato facendo riferimento
all’anno 1968, si è posto acutamente il problema dell’interpretazione
del Concilio stesso, con l’affermarsi di linee divergenti che hanno
diviso la teologia cattolica e fortemente influenzato la vita stessa
della Chiesa.
Così, mentre vi erano coloro che sostanzialmente, o anche apertamente
e frontalmente, rifiutavano il Concilio come una rottura della tradizione
cattolica, altri, assai più numerosi ed influenti, ritenevano
che la novità portata dal Vaticano II dovesse condurre ad un’apertura
radicale verso la cultura del nostro tempo, come anche al superamento
ad ogni costo delle differenze tra le diverse confessioni cristiane,
fino a quella che a mio avviso avrebbe rappresentato una rottura della “forma
cattolica” del cristianesimo. Viene spontaneo ricordare in proposito
il libro "Infallibile? Una domanda" di H. Küng, uscito
nel 1970, ma è indicativo anche ciò che scriveva un teologo
come O. H. Pesch nel nono volume del "Mysterium Salutis", pubblicato
in tedesco nel 1973 e in italiano nel 1975: “Rispetto al concetto
corrente di ortodossia si deve dire oggi che nessuno può più ignorare
la quantità di eresia, non solo materiale ma anche ‘formale’,
che esiste oggi nella Chiesa” (pp. 388-389 dell’edizione
italiana). Si tratta per lui di una situazione positiva, che consente
in particolare di affermare finalmente, anche all’interno della
Chiesa cattolica, il primato della fede personale che salva rispetto
ad ogni norma o condizione ecclesiale.
In effetti è iniziata e si è diffusa rapidamente subito
dopo il Concilio la prassi di un’interpretazione assai disinvolta,
riduttiva e anche elusiva delle stesse verità essenziali della
fede. Si è verificata così, inevitabilmente, una frattura
tra quei teologi che più avevano contribuito a far maturare le
premesse del Concilio, oltre che al suo svolgimento.
Nei decenni più recenti questa situazione si sta, sia pure faticosamente,
ricomponendo: per il suo pieno e positivo superamento, che non significa
affatto la soppressione della giusta e indispensabile libertà di
ricerca e di un sano pluralismo teologico, è assai importante
quella linea di ermeneutica del Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto
nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 e che egli stesso
ha qualificato come “ermeneutica della riforma”.
Come ha detto molto nettamente il papa in quel discorso, il grande programma
del Concilio di un “sì” fondamentale, anche se non
acritico, all’età moderna non è assolutamente da
abbandonare, anzi è da sviluppare e concretizzare nei suoi diversi
versanti, da quello dei rapporti con le scienze empiriche e con le scienze
storiche a quello delle relazioni tra la Chiesa e le istituzioni politiche.
Su questi versanti Benedetto XVI rileva che non mancano positivi sviluppi,
come la maggiore consapevolezza acquisita dalle scienze empiriche dei
limiti intrinseci ai loro metodi o come la percezione diffusa che escludere
il contributo della religione dalla vita sociale e pubblica risulta dannoso
per la società stessa e alla fine anacronistico.
4. Per un discernimento del tempo che stiamo vivendo
Per procedere su questa strada occorre tentare un discernimento, sempre
difficile e azzardato, del tempo in cui stiamo vivendo. L’allora
Prof. W. Kasper, nel libro "Introduzione alla fede" uscito
nel 1972 (pp. 27-31), parlava del nostro tempo come di “un secondo
illuminismo”, cioè di uno “svelamento dell’illuminismo
a se stesso”, di una “metacritica” della critica illuministica,
che si esercita riguardo ad entrambe le grandi rivendicazioni dell’illuminismo,
la ragione e la libertà, in quanto la critica stessa ha mostrato
come ambedue siano largamente condizionate e gravate da molteplici presupposti,
alla fine dunque altamente problematiche.
Così ci siamo resi di nuovo consapevoli della fondamentale finitezza
dell’uomo, della storicità e fatticità irriducibile
della realtà in cui viviamo e della provvisorietà dei nostri
schemi di pensiero e progetti di vita, personale e pubblica. In una tale
situazione, a giudizio di Kasper si aprono davanti all’umanità occidentale
due strade possibili.
Una è quella di attestarsi dentro ai propri limiti, accontentandosi
per così dire di essi e ritenendoli invalicabili; rifiutando pertanto
come prive di senso le problematiche religiose come quelle metafisiche.
L’altra riconosce la propria limitatezza, anzi miseria profonda,
ma resta anche aperta agli interrogativi e alle aspirazioni che l’uomo
continua a portare dentro di sé, in ultima analisi al bisogno
di salvezza, all’esigenza di cercare un’esistenza felice
e compiuta e una risposta alle domande sul senso della propria vita e
sull’origine della realtà.
A mio parere questa diagnosi di W. Kasper, a suo tempo anticipatrice – basti
pensare a quanto diffusa fosse allora la convinzione del primato culturale
del marxismo –, a distanza di 35 anni rimane ancora in buona parte
valida.
Nel frattempo sono intervenute però novità importanti,
non solo negli atteggiamenti dello spirito ma nei fatti della storia.
Mi riferisco all’emergere della nuova “questione antropologica” e
delle connesse problematiche di “etica pubblica”, a seguito
di quegli sviluppi delle scienze e delle biotecnologie che hanno reso
possibili interventi diretti sulla realtà fisica e biologica del
nostro essere, come anche ai grandi mutamenti degli scenari mondiali,
che hanno una loro data emblematica nell’11 settembre 2001 ma che
riguardano assai più ampiamente il rapido affermarsi di grandi
nazioni e civiltà sempre meno disposte ad accettare il predominio
dell’Occidente.
Quanto agli atteggiamenti dello spirito, nei decenni successivi a quella
diagnosi di W. Kasper sono diventate più evidenti la pretesa del
relativismo di porsi come criterio insuperabile, e paradossalmente “assoluto”,
sia della verità sia del bene morale e al contempo la sua parentela
con il fenomeno, forse ancora più ampio e più profondo,
del nichilismo, che sembra quasi inverare storicamente la tesi di Nietzsche
e Heidegger secondo la quale esso costituirebbe il destino del nostro
tempo, intimamente connesso con la “morte di Dio”. Un esempio
recentissimo dell’influsso pervasivo del nichilismo in un ambito
come quello del diritto è rappresentato dal libro di N. Irti "Il
salvagente della forma" (ed. Laterza) e dal dialogo dello stesso
Irti con Claudio Magris pubblicato sul "Corriere della Sera" del
6 aprile scorso.
Le forme nelle quali la “morte di Dio” si fa strada nella
cultura occidentale di oggi sono però tra loro diverse.
Una è quella dell’affermazione dell’ateismo che viene
motivata soprattutto sulla base di un’assolutizzazione dell’interpretazione
evoluzionistica dell’universo, come se essa fosse, ben più di
una teoria scientifica, “una teoria universale di tutto il reale,
al di là della quale le ulteriori domande sull’origine e
la natura delle cose non siano più lecite né necessarie” (J.
Ratzinger, "Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e
le religioni del mondo", ed. Cantagalli, pp. 189-190).
L’affermazione dell’ateismo viene però ritenuta da
molti troppo impegnativa rispetto ai limiti delle nostre conoscenze.
Ben più diffuse sono quindi posizioni agnostiche, che si riconducono
a quell’idea, o a quell’atteggiamento dello spirito, secondo
cui "latet omne verum", ogni verità è nascosta
(ivi, pp. 184-186).
Si potrebbe dire che il nichilismo prende così un volto relativistico,
apparentemente più benigno e tollerante e alla fine forse più coerente
con la sua natura profonda. In ogni caso però ci allontaniamo
radicalmente dal contenuto essenziale e dall’orizzonte stesso del
cristianesimo, perché un Dio del quale non si può sapere
nulla non è certamente il Dio che parla a noi ed entra nella nostra
storia.
Nei decenni più recenti vi sono stati tuttavia anche sviluppi
di segno molto diverso, con un forte ricupero del senso religioso e con
il declino dell’idea che la secolarizzazione sia un processo irreversibile,
destinato a portare, se non alla scomparsa, all’irrilevanza della
religione, almeno in Occidente e a livello pubblico. La ragione intrinseca
di tale declino sta anzitutto nell’incapacità di rispondere,
da parte di una cultura secolaristica, alle domande fondamentali e concretamente
ineludibili sul senso e la direzione della nostra esistenza.
Soprattutto a partire dall’11 settembre 2001 si è aggiunta
un’altra motivazione, legata alla percezione diffusa della minaccia
che sembra provenire dalla deriva fondamentalista dell’islamismo:
questa percezione ha orientato il risveglio del senso religioso ad assumere
un più preciso profilo identitario cristiano e, in un Paese come
l’Italia, cattolico. Si tratta di un fenomeno ampiamente presente
e fortemente sentito nelle popolazioni, ma che sta assumendo grande rilievo
anche sul piano della cultura pubblica.
Tra il risveglio religioso e le tendenze relativistiche e nichilistiche
esiste obiettivamente un profondo contrasto: è questa la ragione
sostanziale per la quale, in Italia come in moltissimi altri Paesi, quello
della religione, e in particolare del cristianesimo – e per altri
versi dell’Islam – è diventato ormai, nella cultura
e nella società, uno dei più rilevanti terreni di confronto
e anche di polemica, reso ancora più concreto e coinvolgente dall’emergere
della nuova questione antropologica, con le sue implicazioni nell’etica
pubblica.
5. Tentativi di risposta teologica
In una situazione di questo genere è assai grande lo spazio,
anzi il bisogno dell’apporto della teologia. Per delineare la fisionomia
che esso potrebbe assumere sembra utile richiamare anzitutto i limiti
di alcuni tentativi già attuati e, almeno in parte, ancora in
atto.
Uno di essi, ormai desueto a motivo dei limiti emersi nei processi di
secolarizzazione, è quella che è stata chiamata “teologia
della secolarizzazione”, di matrice soprattutto protestante ma
penetrata anche in ambito cattolico. Essa ratificava, come il risultato
della dinamica interna del cristianesimo, la separazione crescente tra
fede e cultura e affidava la mediazione tra di esse soltanto alla rivendicazione
dell’origine cristiana di tale processo. Così però rimane
aperta la strada all’emarginazione progressiva del cristianesimo,
man mano che i processi di secolarizzazione si sviluppano e si allontanano
dalla propria origine, come normalmente avviene nella storia.
Un altro approccio teologico, oggi ancora abbastanza presente, sebbene
colpito alla radice dagli eventi dell’anno 1989, che hanno messo
in evidenza l’insostenibilità non solo politica ed economica
ma antropologica ed etica dei modelli di vita associata che si richiamano
al marxismo, è quello delle teologie della liberazione e anche
delle teologie politiche. Alla loro base vi è l’intenzione,
ampiamente condivisibile, di ricuperare, in vista del futuro, il ruolo
storico del cristianesimo. Il loro limite sostanziale consiste però nell’affidare
questo ruolo principalmente alla prassi politica, mettendo così a
carico della politica il problema stesso della salvezza dell’uomo
e del senso dell’esistenza, ciò che comporta fatalmente
un’assolutizzazione falsa e distruttiva della politica stessa.
La profonda disillusione prodotta nell’ambito delle teologie della
liberazione dai fatti del 1989 ha spinto vari loro esponenti verso posizioni
improntate al relativismo. Essi sono confluiti così, insieme a
non pochi altri teologi, in quell’orientamento, che prende vari
nomi tra cui quello di teologia delle religioni, secondo il quale fondamentalmente
non solo il cristianesimo ma anche le altre molteplici religioni del
mondo, con i popoli e le culture che ad esse si riferiscono – e
che spesso sarebbero stati oggetto da parte dei cristiani di un imperialismo
e colonialismo non solo politico ma anche religioso –, costituirebbero
in realtà, accanto al cristianesimo storico, autonome e legittime
vie di salvezza.
Viene abbandonata così quella fondamentale e davvero originaria
verità della fede, evidentissima nel Nuovo Testamento e fonte
primaria del dinamismo missionario della Chiesa dei primi secoli, secondo
la quale Gesù Cristo, nella sua concretezza di Figlio di Dio che
si è fatto uomo ed ha vissuto nella storia, è l’unico
Salvatore dell’intero genere umano, anzi di tutto l’universo.
La dichiarazione "Dominus Iesus" della congregazione per la
dottrina della fede, riaffermando con forza questa verità, non
ha fatto che dare voce alla missione essenziale della Chiesa. Il libro
che ho già citato dell’allora cardinale Ratzinger mette
in luce come in determinate forme di teologia delle religioni sia all’opera
quel principio del "latet omne verum" che accomuna per certi
aspetti il relativismo attualmente diffuso in Occidente con l’approccio
al divino delle grandi religioni orientali, e anche del pensiero tardo-antico
che proprio in questi termini si opponeva al cristianesimo. In vari teologi
questa svolta relativistica si accompagna con la rivendicazione, non
abbandonata, del primato della prassi: dove cioè la conoscenza
non può arrivare potrebbe invece giungere la prassi; essa sola
sarebbe decisiva per la salvezza e il dialogo, anzi l’unità tra
le religioni dovrebbe risolversi in essa.
6. Contributi da valorizzare ulteriormente
Naturalmente in ciascuna di queste tre impostazioni teologiche sono presenti
istanze che non possono essere lasciate cadere, dalla volontà di
superare una visione “catastrofale” della modernità al
rapporto che la fede cristiana non può non avere con l’umanizzazione
del mondo, fino alla necessità di una prospettiva davvero universale
che faccia spazio concreto, in seno al cristianesimo, alla pluralità delle
culture e delle civiltà.
Da quest’ultimo punto di vista l’allora cardinale Ratzinger
ha avanzato (op. cit., pp. 57-82) una proposta assai innovativa rispetto
alle ipotesi teologiche oggi più diffuse, e per me davvero convincente:
abbandonare l’idea dell’inculturazione di una fede di per
sé culturalmente spoglia, che si trasporrebbe in diverse culture
religiosamente indifferenti, e riferirsi invece all’incontro delle
culture (o “interculturalità”), che si basa su due
punti di forza.
Da una parte l’incontro delle culture è possibile e avviene
continuamente perché, nonostante tutte le loro differenze, gli
uomini che le producono hanno in comune la stessa natura e la medesima
apertura della ragione alla verità.
Dall’altra parte la fede cristiana, che nasce dal rivelarsi della
verità stessa, produce quella che possiamo chiamare la “cultura
della fede”, la cui caratteristica è di non appartenere
a un popolo singolo e determinato, ma di poter sussistere in ogni popolo
o soggetto culturale, entrando in relazione con la sua cultura propria
ed incontrandosi e compenetrandosi con essa. Questa è in concreto
l’unità e insieme la molteplicità e l’universalità culturale
del cristianesimo.
Un contributo tuttora assai rilevante all’adempimento dei compiti
che la teologia ha oggi davanti a sé può venire, a mio
giudizio, da quel grande moto di rinnovamento che ha percorso la teologia
stessa negli anni che hanno preceduto il Vaticano II, e anche dall’eredità della
teologia neotomista, nonostante i suoi limiti, che possono individuarsi
più precisamente da una parte nella sottovalutazione della distanza
storica che separa San Tommaso e tutta la grande scolastica dal nostro
tempo, e in concreto dei grandi sviluppi, teoretici e pratici, realizzatisi
attraverso i secoli; dall’altra parte nel tentativo di dimostrare
la verità delle premesse del cristianesimo (i "praeambula
fidei") mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede
stessa.
Questo tentativo è sostanzialmente fallito, come osservava il
cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp. 141-142), e appaiono
destinati a fallire altri eventuali tentativi analoghi, già per
il motivo che le grandi questioni dell’uomo e di Dio (ed ugualmente
la questione di Gesù Cristo), riguardando e coinvolgendo inevitabilmente
il senso e la direzione della nostra vita, mettono in gioco noi stessi
e quindi, pur richiedendo tutto il rigore e le capacità critiche
della nostra intelligenza, non possono esser decise indipendentemente
dalle scelte secondo le quali orientiamo la nostra stessa esistenza.
Reciprocamente però, e in sostanza per un motivo analogo, è fallito
anche il tentativo opposto di K. Barth di presentare la fede come un
puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale indipendenza
dalla ragione.
A questo proposito – non solo riguardo a Barth ma a tutto il pur
importantissimo filone della “teologia kérygmatica” – si
può osservare che è sì fondamentale e irrinunciabile,
ma non è sufficiente presentare l’enorme ricchezza e la
bellezza del mistero cristiano, quali emergono dalle fonti bibliche,
patristiche e liturgiche e quali si sono via via arricchite nel corso
della storia.
Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti
nel nostro tempo è necessario infatti che entrino in dialogo con
la ragione critica e con la ricerca di libertà che lo caratterizzano,
in modo da aprire questa ragione e questa libertà, per così dire “dall’interno”,
e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono.
7. Una teologia cristocentrica e pertanto davvero teologica e antropologica
Al centro e al cuore di un approccio teologico meglio adeguato agli interrogativi
del tempo che sta davanti a noi rimane, a mio parere, quella forma di
teologia radicalmente cristologica e cristocentrica, e proprio perciò altrettanto
radicalmente teologica e antropologica, che è implicitamente proposta
nel n. 22 della "Gaudium et spes": “Solamente nel mistero
del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Proprio
rivelando il mistero del Padre e del suo amore per noi [Cristo] svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione”.
Perciò l’attenzione del teologo deve concentrarsi anzitutto
su Gesù Cristo, cogliendo insieme la sua realtà storica
e la profondità del suo mistero. Con il suo libro "Gesù di
Nazaret" Benedetto XVI ci ha indicato una via e un metodo di lavoro
che possono rivelarsi molto fecondi per lo sviluppo della teologia, specialmente
su quella frontiera ineludibile che è rappresentata dalla saldatura
tra le esigenze della critica storica e quelle di un’ermeneutica
autenticamente teologica.
Nella luce della realtà e del mistero di Gesù Cristo si
possono affrontare i due poli essenziali del discorso teologico, Dio
e l’uomo, che sono poi, in maniera esplicita o implicita, i veri
nodi della cultura del nostro tempo.
Rispetto ad entrambi questi nodi l’attuale contesto culturale – nel
quale le scienze empiriche, con la loro forma di razionalità e
con la mentalità che esse generano, esercitano un ruolo trainante
e per certi versi egemone – impegna la teologia ad un confronto
con tali scienze ben più approfondito di quel che sia stato
realizzato fino adesso: confronto per altro che non può fare a
meno di un’autentica e non riduttiva dimensione filosofica.
Perciò, riguardo a Dio, assume particolare importanza quella riflessione
che si concentra sulla struttura e sui presupposti della conoscenza scientifica,
per mostrare che proprio a partire da essi si pone di nuovo la domanda
sull’intelligenza creatrice.
Analogamente, riguardo all’uomo è decisivo il confronto
sia con la teoria dell’evoluzione sia con le neuroscienze, per
mostrare, anzitutto alla luce delle sue capacità proprie ed esclusive
di produrre cultura, che l’uomo emerge dalla natura non nel senso
di una semplice provenienza ma di un autentico trascendimento. Solo su
questa base antropologica diventa possibile e coerente quella promozione
e difesa della dignità umana a cui la teologia è chiamata,
oggi particolarmente sul piano dell’etica pubblica.
È questo il senso di quel programma di “allargare gli spazi
della razionalità” che Benedetto XVI propone con insistenza
e che riguarda sia la ragione scientifica sia la ragione storica.
Questo programma implica il duplice convincimento che la rivelazione
di Dio in Gesù Cristo offre alla ragione un aiuto prezioso per
proseguire il suo cammino, sempre più articolato, complesso e
specialistico, senza perdere di vista il suo orizzonte globale e gli
interrogativi di fondo, e d’altra parte che proprio attraverso
il confronto con la ragione contemporanea la fede e la teologia sono
stimolate ad approfondire ulteriormente quella novità riguardo
al mistero di Dio e dell’uomo che ci è venuta incontro
in Gesù Cristo.
Nel contribuire a un simile programma la teologia non deve avere la pretesa
razionalistica di dimostrazioni cogenti, come già accennavo riguardo
ai "praeambula fidei", ma piuttosto essere consapevole dei
limiti del proprio discorso: così, a proposito del Lógos
creatore J. Ratzinger afferma che esso dal punto di vista razionale rimane “l’ipotesi
migliore”, un’ipotesi che richiede da parte dell’uomo
e della sua ragione di rinunciare a propria volta ad una posizione di
dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile ("L’Europa
di Benedetto nella crisi delle culture", ed. Cantagalli, pp. 115-124).
8. Rivelazione, Chiesa, teologia
In sostanza viene proposta così una grande e coraggiosa uscita
della teologia dai discorsi autoreferenziali, dai propri orti e recinti,
che possono inavvertitamente sussistere anche quando si assumono interlocutori “esterni” a
loro volta piuttosto estranei ai reali problemi di oggi.
Questa apertura coincide in realtà con la piena coerenza della
teologia cristiana e cattolica con se stessa e si alimenta di una tale
coerenza. Ne abbiamo avuto un grande esempio nella dinamica spirituale,
culturale e storica del pontificato di Giovanni Paolo II e ne abbiamo
ora un esempio altrettanto significativo e più direttamente
teologico nel pontificato di Benedetto XVI.
Concludo cercando di esplicitare il senso e il fondamento teologico di
tale coerenza, e così anche di indicare la via per superare dall’interno
quella frattura che si è verificata nella teologia cattolica
subito dopo il Concilio Vaticano II.
Lo faccio richiamandomi all’analisi della natura della divina rivelazione
che J. Ratzinger aveva elaborato nello studio su San Bonaventura con
cui intendeva conseguire l’abilitazione all’insegnamento
accademico e che è riproposta sinteticamente nel suo libro "La
mia vita" (ed. San Paolo, pp. 72 e 88-93). La rivelazione è cioè anzitutto
l’atto con cui Dio manifesta se stesso, non il risultato oggettivato
(scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di rivelazione
fa parte il soggetto che la riceve e la comprende – in concreto
il popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento –, dato
che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato,
nessuna rivelazione sarebbe avvenuta.
Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa,
ma non è semplicemente identica ad essa, e la Scrittura stessa è legata
al soggetto che accoglie e comprende sia la rivelazione sia la Scrittura,
ossia alla Chiesa. Concretamente la Scrittura nasce e vive all’interno
di questo soggetto.
Con ciò è dato il significato essenziale della tradizione
ed anche il motivo profondo del carattere ecclesiale della fede e della
teologia, oltre che il fondamento della validità di un approccio
alla Scrittura che sia al contempo storico e teologico.
È dunque con buona coscienza e consapevolezza critica che possiamo
accogliere, come teologi, quell’intima relazione della Scrittura
e della tradizione con tutta la Chiesa e con il suo magistero di cui
ci parla il n. 10 della costituzione conciliare "Dei Verbum".
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