Il “Credo” della diocesi di Roma


Nella sua prefazione a “Ho creduto per questo ho parlato”, il cardinale Ruini spiega che l’idea del volumetto gli è venuta dalla “missione cittadina” che negli anni scorsi egli ha promosso nella diocesi di Roma. Ci si è resi conto, scrive, che “non riusciamo ad esprimere con coerenza l’originalità che il cristianesimo possiede”. E quindi “ciò che si vuole proporre con questo testo è dare alcune ragioni per cui la fede in Gesù Cristo merita di essere accolta, scelta e vissuta. Essa non si pone accanto ad altre manifestazioni religiose, come fosse una delle tradizioni con le quali ci si viene a incontrare in un mondo ormai globalizzato. [...] Comunicare la fede nel mondo contemporaneo richiede l’impegno primario di conoscere ciò in cui si crede e di saperlo vedere nella sua verità e originalità, senza sincretismi di sorta”.

E ancora:

“Il dialogo, che particolarmente in questi anni impegna i cristiani con quanti non condividono la loro stessa fede, non è un impedimento, ma una provocazione a verificare più da vicino la peculiarità del cristianesimo e quindi a toccare con mano le differenze che lo contraddistinguono dalle altre religioni. Il rispetto nei confronti di quanti non condividono la nostra fede non equivale a una generica forma di tolleranza di cui spesso si sentono i richiami. Il rispetto è molto più profondo e impegnativo della tolleranza, perché conosce l’obiettivo finale: non un appiattimento generale delle religioni, ma la ricerca della verità, che può essere una sola e che va ricercata in piena libertà. Le forme diverse e le differenze non oppongono, ma provocano a verificare dove la verità abita e, una volta trovata, a diventare suoi familiari”.

Il fatto che nella capitale del cattolicesimo convivano oggi molte religioni diverse, scrive Ruini, non è una novità né dev’essere un freno:

“Roma è sempre stata una ‘patria communis’. Quando i primi cristiani arrivarono tra le sue mura trovarono la religione romana, quella ebraica e altre espressioni religiose che provenivano dalla regioni conquistate da Roma. Nessun cristiano si assimilò a una di queste religioni ma sentì, piuttosto, il dovere di comunicare la sua fede in Gesù Cristo, perché in lui tutto portava i segni del compimento e della definitività del senso della vita. Non ostacolarono le altre religioni, semmai si verificò il contrario. Ciò che fecero fu di vivere la fede nella maniera più coerente, per manifestare con il loro stile di vita il raggiungimento della verità. [...] I nostri giorni riportano con forza la presenza di tanti che vicino a noi professano un’altra religione. La nostra storia e il nostro stile di vita non cambia. Siamo chiamati a vivere la fede con la stessa intensità dei primi cristiani, con la stessa convinzione e con la stessa certezza che la pienezza della verità si trova solo in Gesù Cristo”.

Nel libro, “la superiorità della rivelazione cristiana sulle altre forme religiose” è affermata più volte senza timidezze. Anche le somiglianze sono smentite. Ad esempio:

“Il cristianesimo, a differenza della religione ebraica e dell’islam, non potrà mai essere definito come la ‘religione del libro’. La rivelazione di Gesù va ben oltre la codificazione di un testo. [...] L’annuncio che Gesù compie non è separato dal suo rendersi presente e mostrare il suo volto: un’unità incomparabile che la storia non aveva mai conosciuto in precedenza e che non troverà mai più riscontro successivamente”.

Un’altra somiglianza contraddetta dal libro è quella tra i martiri cristiani e musulmani:

“La fede è il caso serio della vita. E c’è una parola che permette di cogliere il senso globale della fede: il martire. Il martirio è il segno del più grande amore perché, per la fede, dà la testimonianza suprema, quella che sceglie liberamente la morte inflitta per la certezza di essere nella verità e di avere la vita”. [...] Anche “lo shahid ha un grande valore per l’islam sia sunnita che sciita: chi dà prova di aver rinunciato alla vita terrena per la gloria di Allah, si impegna nella jihad e per essa muore, guadagna il paradiso. [...] Ma lo shahid crea la morte di altre persone, crea una situazione di violenza e di morte senza fare distinzione alcuna se tra le sue vittime vi siano degli innocenti. Ciò che muove il suo intento è una volontà di imposizione del suo progetto di vita. [...] Riteniamo, pertanto, che non si addica a questo caso la definizione di martire; di fatto, ciò che viene offerto non è una testimonianza, ma un’esibizione che si pone soggettivamente a servizio di un’ideologia di violenza che non può essere paragonata né confusa con ogni altra espressione di dedizione, solidarietà e amore”.

In un altro passaggio il libro mette in evidenza la superiorità del cristianesimo non soltanto sull’islam ma anche sulle grandi religioni asiatiche:

“L’atto [cristiano] di fede si pone dinanzi alla verità di Dio e dell’uomo in maniera così coerente ed equilibrata che non trova riscontro in altre religioni. All’uomo non viene chiesto di umiliarsi oltre misura, annientando se stesso davanti a Dio. A Dio non viene imposto di immettersi in tutte le cose confondendosi con la sua stessa creazione”.

Quanto al “problema della salvezza di quanti sono nelle altre religioni”, il libro mette in guardia da una “trappola sottile” che descrive così:

“Se ci si salva in ogni religione, [...] ognuno deve permanere nella sua religione senza bisogno di conversione alcuna. E questo da una parte smorza l’esigenza della missione, dall’altra impedisce di analizzare se le religioni, in quanto tali, possiedano esse stesse una tensione verso il loro compimento e verso l’unica verità che si rende presente nell’unico vero Dio. Il tutto, insomma, sembra risolversi oggi in una conoscenza storica e fenomenologica delle altre religioni, senza entrare nel merito del confronto e del giudizio che deve essere dato”.

Da qui un giudizio critico sul moderno scetticismo e sul suo divulgatore più famoso, Umberto Eco:

“Alla base di questa teoria giace una profonda sfiducia nei confronti della verità. Il relativismo mostra qui il suo volto più simpatico e convicente, ma non per questo meno pericoloso e sbagliato. È sufficiente un’innocua espressione come quella di U. Eco nel suo ‘Il nome della rosa’ per verificare l’intenzione e l’ideologia che si nasconde dietro questo modo di pensare: ‘L’unica verità significa: liberarsi dalla morbosa passione per la verità’. Come si nota, alla base vi è una forma di idiosincrasia per la verità, perché si vuole sostenere che non esiste la verità, ma solo una personale verità che merita di essere vissuta senza essere offerta a nessun altro”. Mentre invece “il tema della verità per ogni religione è essenziale. Senza di essa si arriverebbe a un’equivoco rapporto con la divinità, senza mai avere la certezza della sua esistenza e dell’efficacia della preghiera”.

I capitoli centrali del libro hanno come titoli “Dio è Padre” e “Gesù il Rivelatore”. Esemplare il finale del primo di questi capitoli:

“Gesù ha certamente usato la parola ‘abbà’ per rivolgersi a Dio; la storicità di questo uso è ormai assodata e scientificamente provata. [...] ‘Abbà’ esprime amore, confidenza, intimità e sottomissione; questa gamma di sentimenti sono racchiusi nell’uso che Gesù fa del termine. Questo rivela la sua esperienza primordiale di Dio, la sua consapevolezza di appartenere a lui in modo unico. Per questo egli si differenzia dai discepoli quando parla del Padre [...]: tutti gli altri potranno chiamare Dio ‘Padre nostro’ solo dopo che lui ha rivelato e pronunciato il ‘Padre mio’. [...] Mai, nell’Antico Testamento né nella letteratura extrabiblica, si ha da parte di un uomo un rapporto simile nei confronti di Dio. Un ebreo mai avrebbe osato rivolgersi a Jhwh invocandolo in questo modo. [...] In questa espressione troviamo un’ulteriore conferma dell’originalità della fede cristiana. [...] Lo si è visto nei confronti della religione ebraica, ma anche il musulmano non potrebbe mai rivolgersi ad Allah invocandolo come ‘padre’: tra i 99 nomi che il Corano gli attribuisce manca quello di ‘padre’. [...] Né la peculiarità della relazione filiale del cristianesimo va confusa o identificata con una generica relazione di paternità fondata sulla creazione. Fin dai tempi antichi Dio viene chiamato ‘padre di tutte le cose’ e, in questo senso, il termine fa riferimento alla sua opera creatrice. Dire – come spesso si sente – che siamo tutti fratelli ha una verità che si fonda proprio in riferimento alla creazione. In quanto uomini e donne di questo mondo, siamo tutti fratelli e sorelle perché facciamo riferimento a un unico Creatore che è all’origine di tutto e che per questo viene chiamato ‘padre’. [...] Ma in più i cristiani sono fratelli e sorelle perché credono in Cristo che è il Figlio di Dio e in lui possono rivolgersi a Dio chiamandolo Padre. La relazione di figliolanza, pertanto, va oltre la sfera generica della creazione e si inserisce in quella specifica della fede che sostiene di avere Dio per Padre perché nell’acqua del battesimo si è ricevuta la sua vita, caparra fin d’ora di quanto sarà offerto nella vita eterna. Nel Figlio, dunque, siamo veri figli, e per la fede in lui possiamo dire con piena fiducia la preghiera che ci ha insegnato come suoi discepoli: ‘Padre nostro’”.