Il pacifismo del Papa-Il digiuno cristiano
Tornare al digiuno, contro la voracità dei consumi

Non si può vivere la quaresima senza vivere il digiuno. Anzi, la quaresima - come testimoniano ancora i testi liturgici che i cristiani continuano a pregare in questi quaranta giorni, senza rendersi conto della schizofrenia tra il loro dire e il loro fare - è il tempo del digiuno per eccellenza.
Ma sappiamo tutti che, purtroppo, il digiuno ha perso significato per i cristiani d'occidente - a differenza di quanto avviene ancora oggi per le chiese ortodosse e orientali - e che ormai quasi nessuno crede che il rapporto con il cibo sia un luogo di esperienza spirituale.
Il digiuno, dunque, appare come un'osservanza dei tempi passati, quando l'ascesi era ritenuta necessaria per andare in Paradiso e quando, paradossalmente, la fame era esperienza possibile per la maggioranza della gente.Tuttavia, ed è un altro paradosso, oggi il digiuno è sovente al centro dell'attenzione e si tenta di praticarlo per ragioni dietetiche, per motivi estetici o sportivi.
Qualche volte poi appare come mezzo di lotta e di protesta, con il nome più politico di "sciopero della fame": digiuno ostentato che deve "apparire", essere assolutamente notato e messo in risalto dai mass media, pena il fallimento dello scopo prefissato; una forma di digiuno, questa, che è l'esatto contrario del digiuno cristiano che, secondo il comando di Gesù, dovrebbe avvenire nel segreto (cf. Mt 6,16), senza che nessuno se ne accorga.
La mia generazione - che ha ancora praticato il digiuno dalla mezzanotte prima della celebrazione eucaristica, il digiuno alla vigilia delle feste e quello, seppur già attenuato, della quaresima - si è adattata in modo acritico e senza resistenza a questa perdita di uno strumento assolutamente necessario per una vita cristiana matura. È troppo tardi oggi per riprendere questa prassi così profetica, così capace di resistenza nei confronti del consumismo e dell'egoismo? Convinti che il luogo intrascendibile di decisioni e atteggiamenti rimane la coscienza, il cuore del cristiano, crediamo allora necessario riproporre il digiuno.
Conosciamo bene questa atmosfera regnante in occidente, dove risuonano messaggi ossessivi che chiedono "di tutto, di più e subito", dove i modelli sono tesi a quella voracità che chiamiamo consumismo e dove regnano "novelli dèi e signori" che impongono comportamenti philautistici e narcisisti, maschere di un egoismo che non riconosce l'altro né, tantomeno, tra gli altri, gli ultimi e i bisognosi.
Diciamo la verità: quelle rare volte che oggi si chiede il digiuno ai cristiani lo si fa nella forma, minacciata di ipocrisia, di una cena sacrificata a favore degli affamati, oppure come impegno per la pace.
Troppo poco, e comunque il digiuno cristiano, quello "comandato" - sì, comandato! - da Gesù e dalla chiesa primitiva è altra cosa e, tra l'altro, non va neppure confuso con il digiuno praticato dai musulmani durante il mese di ramadan.
Perché, dunque, il digiuno cristiano? Va detto che occorre praticarlo per capirlo e coglierne le motivazioni profonde.

Innanzitutto, digiunare significa imprimere una disciplina all'oralità. I monaci, in particolare, hanno avuto la consapevolezza che il cibo trascina con sé una dimensione affettiva straordinariamente potente: anoressia e bulimia sono gli indici di turbamenti affettivi che si ripercuotono nell'alimentazione.Ecco perché il comportamento alimentare nell'uomo riceve un "surplus" di senso: non dipende solo da bisogni fisiologici, ma appartiene al registro dell'affettività e del desiderio.

L'oralità, allora, richiede una disciplina per passare dal bisogno al desiderio, dal consumo all'atteggiamento eucaristico del ringraziamento, dal necessità individuale alla comunione.
E qui l'eucaristia mostra il suo magistero come esercizio ed esperienza di comunione, di condivisione. Ecco la ragione del digiuno prima dell'eucaristia: non una mortificazione per essere degni, non una penitenza meritoria, ma una dialettica digiuno-eucaristia, una disciplina del desiderio per discernere ciò che è veramente necessario per vivere, oltre il pane.Con il digiuno si tratta di dominare il vettore del consumo per promuovere il vettore della comunione.

• Ma il digiuno è necessario anche per conoscere da cosa siamo abitati: chi prova a digiunare sa che, a partire dal secondo o terzo giorno, vede sorgere in lui collera, cattivo umore, bisogni prepotenti... Tutte occasioni per porsi domande essenziali: Chi sono io, in realtà? Quali sono i miei desideri più profondi? Da cosa sono interiormente toccato? Quando sono insoddisfatto e quando, invece, nella pace? Sì, il digiuno aiuta a scavare in profondità, a conoscersi nella propria intimità, nel segreto dove Dio vede e dove è trovato (cf. Mt 6,6). Certo, il digiuno sarà anche opera di penitenza, pratica di solidarietà e di condivisione, ma sarà soprattutto questo provare se stessi nel rapporto con il cibo per discernere la nostra vera fame e il nostro autentico rapportarci a Dio e ai fratelli.
Nel digiuno, infatti, la nostra preghiera si fa corporale, si incarna in ciascuno di noi e il nostro rapporto intellettuale con la realtà si completa in questo confessare con le fibre del nostro corpo che noi cerchiamo Dio, che desideriamo la sua presenza per vivere, che oltre al pane abbiamo bisogno della sua parola (cf. Mt 4,4).

Il digiuno non è un fine in sé, rimane uno strumento privilegiato della vita spirituale, teso anch'esso all'unico fine della vita cristiana: la comunione con Dio e con gli uomini.
[Enzo Bianchi priore della comunità di Bose]

DIGIUNO E PREGHIERA PER UNA QUARESIMA DI PACE

Inizia la Quaresima, tempo di deserto e di prova. Lo è anche per l'intera umanità, in apprensione per la pace nel mondo, per quella pace che, in terra, non è mai patrimonio definitivo e stabile e, pertanto, costituisce un bene ancor più desiderato e ricercato.
Sono tanti i focolai di guerra, di violenza, di oppressione - non pochi fratelli cristiani vi sono perseguitati e uccisi -, e c'è la continua minaccia del terrorismo, che ha gettato tutto il mondo nell'angoscia. L'11 settembre 2001 restammo affranti e sbigottiti di fronte all'immane tragedia di New York.
Siamo oggi turbati e inquieti di fronte al rischio di un intervento armato in Irak, che, ancor prima di stabilire vinti e vincitori, direbbe quanto l'umanità sia lontana dall'aver sostituito le armi della guerra con quelle della pace, del dialogo, della responsabilità delle istituzioni internazionali. Il Santo Padre e con lui tutta la Chiesa sentono come costitutiva della loro missione il compito di promuovere la pace. Le riflessioni e le esortazioni del beato Giovanni XXIII, contenute nella Pacem in terris, risuonano in questo contesto di impressionante attualità. Questo testo del lontano 1963 - ci ha detto Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata mondiale della pace di quest'anno - va ripreso in mano, meditato, assimilato, usato come mappa per costruire itinerari di pace, orientandoci secondo i quattro punti cardinali da cui dipende l'ordinata convivenza tra gli uomini.Tale ordine, che è di natura morale,
• «si fonda sulla verità;
• va attuato secondo la giustizia;
• domanda di essere vivificato e integrato dall'amore;
• esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani»
(pacem in terris, 20).
Non può gridare "no" alla guerra chi non grida con altrettanta forza "no" alla violazione dei diritti dell'uomo, dall'inizio alla fine della vita, in ogni sua condizione minacciata.
Pensare che ciò possa essere frutto di un progetto solo umano è illusorio. L'azione diplomatica è determinante; l'opera educativa - come ricordavano i vescovi italiani nel 1998 con il documento Educare alla pace - è la sola che darà frutti duraturi. Ma i cristiani sanno che la pace, alla fine, è un dono, perché frutto della sconfitta di un demonio, quello della violenza, che da soli non riusciamo a scacciare. Dice però Gesù: «Se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
Sulla forza della fede, che si esprime nel digiuno e nella preghiera, in particolare nel Rosario, il Santo Padre ha invitato a investire le nostre energie, soprattutto in questo tempo di Quaresima.
Occorre intendere bene il senso di questo digiuno. Non si digiuna per fare pressione sugli altri, quasi a dimostrare che si è disposti a tutto per far vincere il proprio desiderio, sia esso anche un buon desiderio di pace. Si digiuna invece per purificarci dai desideri e dai bisogni, anche i più elementari, per fare spazio dentro di noi alla rivelazione del cuore di Dio, di cui è tramite la preghiera, il dialogo con lui.
Può anche accadere - lo è stato per Gesù - che il digiuno renda più evidente non solo la nostra unica appartenenza a Dio, ma anche la natura e la forza della tentazione (Lc 4,1-13). Esso, in ogni caso, ci prepara a capire ciò che Dio vuole per i suoi figli e le strade di pace che suggerisce all'umanità.
Il digiuno e la preghiera accompagnano la Quaresima e nutrono il cammino di un "esodo" che intende farci accogliere con cuore purificato il mistero della Pasqua del Signore.
Allora, e solo allora, per la forza della croce di Cristo, potremo dire con verità la parola "pace", proclamando che solo lui, Cristo, «è la nostra pace» (Ef 2,14).In lui, infatti, ci viene rivelato che, quando l'odio e il rifiuto dell'altro lasciano il posto alla ricerca della comunione, c'è futuro per l'umanità: la morte è vinta dalla risurrezione.

[mons Giuseppe Betori-Famiglia cristiana]

Erasmo, padre dei pacifisti

«Mentre l'autore del "Principe" vedeva solo lo Stato forte, gli umanisti iniziarono quella che oggi si chiamerebbe una campagna pacifista»«I movimenti di pace producono progetti tra gli Stati ma sviluppano una tendenza a negare lo Stato. Il pensiero dell'autore dell'"Utopia" non ha vinto nella storia mentre ha dominato quello di Machiavelli» Vittorino Andreoli

Occorre riappropriarsi del rifiuto morale della guerra, di uno strumento di morte per ottenere risultati utili e dunque raggiungere scopi politici. Occorre avere presenti non solo le guerre del passato, ma anche le attuali e fissare il volto macabro della distruzione umana che provocano. Espressione della violenza e della stupidità decorate di falso.
I cittadini non devono pensare che la democrazia sia soltanto il diritto ad un voto, che potrebbe anche giungere solo a legittimare una dittatura più o meno mascherata, ma una condizione per controllare attivamente il potere fino alla resistenza e all'opposizione quotidiana. Il voto ormai lo si compra con uno spot. Bisogna invece costruire dentro ciascuno un sistema di princìpi che è anche odio alla guerra e voglia di pace.
Storicamente viene alla memoria l'irenismo, nato nel sedicesimo secolo a seguito della violenza delle guerre dell'inizio di quel secolo e in Italia in particolare dopo la sanguinosa battaglia di Ravenna (1512). Si attivò un movimento a favore della pace con il quale gli umanisti tentarono di convincere i prìncipi degli inestimabili benefici della pace. Mentre Machiavelli vedeva solo lo Stato forte, gli umanisti iniziarono quella che con linguaggio d'oggi chiameremmo una vera campagna pacifista. Gli scritti di Erasmo da Rotterdam sono un eloquente esempio degli orrori e soprattutto dell'inutilità della guerra. Egli dà forza agli argomenti dell'amico Tommaso Moro, soprattutto nell'Elogio della follia. (È curioso che il capo del governo italiano si vanti di averne curato una edizione con ampia prefazione!)
Erasmo è il primo teorico del pacifismo. Ha scritto cinque saggi interamente indirizzati contro la guerra. Nel 1504 lo rivolge a Filippo il Bello, nel 1514 al vescovo di Cambrai e gli chiede «di volere come principe cristiano, in nome di Cristo, cercare la pace», nel 1515 fra gli Adagia pone il saggio Dulce bellum inexpertis, nel 1516 ammonisce il giovane imperato re Carlo V (Istruzioni ad un principe pio e cristiano) e infine nel 1517 pubblica il Lamento della pace respinta e schiacciata da tutte le nazioni in cui proclama che «Il mondo intero è una patria comune». Per giungere ad un'armonia tra gli uomini e evitare i contrasti è necessario abolire ogni violenza, particolarmente la guerra «naufragio di ogni buona cosa». Si oppone con passione alla litigiosità, alle discordie dei principi, nonostante si renda conto della vanità dei suoi tentativi: «siamo giunti - dice - al punto che è considerato bestiale, stolto e anticristiano aprire la bocca contro la guerra». Egli arriva
ad affermare con Cicerone: «una pace ingiusta è sempre migliore della guerra più giusta». Trova la causa della guerra in chi vuole trionfare e afferma invece l'ideale sommo del conciliare e armonizzare ogni divergenza contro il fanatismo.
Zweig, interprete del pensiero di Erasmo in termini moderni, scrive: «È stato il fanatismo, questo bastardo fra spirito e forza bruta, a voler imporre all'universo intero la dittatura di un pensiero, anzi del proprio pensiero, quale unica forma lecita di vita e di fede e a scindere così la comunità umana fra amici e nemici, fra seguaci e avversari, eroi e delinquenti, credenti e eretici. Il fanatismo, riconoscendo solo il proprio sistema, ammettendo solo la propria verità, è costretto a valersi della violenza per sopprimere, entro la molteplicità dei fenomeni voluta da Dio, ogni altro vero». (S. Zweig, Erasmo da Rotterdam, Milano,1937, p.137). E così gli uomini ciecamente non vogliono comprendere che la guerra significa sempre ingiustizia e che sempre i mali della guerra ricadono sul popolo che nulla guadagna e sugli innocenti. «Il peggio tocca a coloro che nulla hanno a che fare con la guerra e anche se tutto finisce nel modo migliore, la fortuna di una delle parti apporta i
l danno e la rovina dell'altra». Perciò il principe «mai.dovrebbe esser più prudente che nell'indursi alla guer ra , né dovrebbe insistere nel suo diritto, giacché chi non considera la propria come causa giusta?». E aggiunge: «una guerra sgorga dall'altra e da una ne nascono due». Opponendosi alla guerra, Erasmo propone la grande idea di Agostino della «pace cristiana nel mondo» e si scaglia contro la Chiesa che l'ha abbandonata. «Non si vergognano i teologi e i maestri di vita cristiana di essere stati eccitatori, suscitatori e promotori principali di una causa che Cristo ha tanto intensamente odiato?»; e più avanti: «Come possono ritrovarsi insieme il pastorale e la spada, la mitra e l'elmo, il Vangelo e lo scudo? Come si converrà di predicare insieme Cristo e la guerra, di chiamare con una sola tromba Dio e il demonio?».

Oggi questo pericolo non si nota, almeno a sentire il Pontefice, anche se deve essere chiaro che un premier o chiunque si dichiari cristiano e voglia la guerra, appare come un mistificatore, un venditore di maschere che puzzano tutte di potere.
Il pacifismo è difeso anche dai pittori del tempo di Erasmo, come Albrecht Durer nella celebre stampa "Il cavaliere e la morte". Un movimento che ebbe un effetto, anche se per lo più solo di facciata, nel Trattato tra Carlo V e Clemente VII (29 Giugno 1529) in cui si legge: «contrahentes ipsi ad pacem universalem tendent».
Un altro grande difensore della pace è Tommaso Campanella, che nel Monarchia Messiae scrive: «I mali che rattristano il mondo provengono dalla guerra». Campanella aveva combattuto Machiavelli per la sua idea dello Stato come pura forza.
L'irenismo non produce solo una propaganda affettiva contro la guerra, ma promuove anche la proposta di sistemi per una società degli Stati. Un indirizzo che tende a sconfinare con le Utopie che in questo periodo si moltiplicano nella voglia di sostituire appunto gli Stati della guerra: da quella di Bacone (La Nuova Atlantide) a quello dello stesso Campanella (La città del sole) a quella del tedesco Andrea (Rei publi cae Christianopolitanae descriptio).
Se da un lato l'orrore della guerra genera movimenti di pace che tendono a produrre progetti di pace tra gli Stati, dall'altro si sviluppa una tendenza a negare valore allo Stato e alla politica, in una direzione che va verso l'anarchia che, se non ancora nella forma propria e strutturata dell'Ottocento, già ha insito il disinteresse per gli affari dello Stato che vanifica l'idea di "civis", cioè dell'uomo un membro attivo della comunità politica.
Un vero tarlo che richiama il tempo presente. Questo movimento parte dall'idea di Guicciardini laddove nei Ricordi sostiene che l'uomo savio è quello che lascia al sovrano la cura illimitata della cosa pubblica e in tal modo «fugge il nome di ambizioso e non s'ingolfa tanto nello Stato». Insomma un'anarchia di fatto, prima come delega totale e disinteresse pieno e successivamente anarchia nella forma di negazione dello Stato e di ogni suo senso.
Uno scritto illuminante a qu esto proposito è l'ideale "Abbazia di Thelème", di Rabelais, descritta nel Gargantua (1532), che si regge in base a una sola e semplicissima legge: «Fais ce que vouldras». L'idea anarchica si trova in molte opere anche italiane del tempo.
Queste idee hanno una forte componente ascetica e contemplativa che attirano in un mondo che non ha nulla a che fare con la realtà degli Stati. E non a caso di questo stesso periodo sono gli anabattisti che vivono in comunità fuori dal mondo, simile per molti versi a quelle del Medio Evo. Si sostiene: «Noi abbiamo rinunciato al mondo. i nostri beni saranno comuni, noi formeremmo una sola comunità rigenerata, una sola fraternità nuova e divina».
È persino sconvolgente trovare in questo lontano periodo storico tutte le espressioni che si rilevano oggi nel tempo presente: da una parte un disimpegno della partecipazione allo Stato fino a non riconoscere nemmeno i limiti tra diritto e morale. La reazione a fuggirlo dentro un anarchismo d i fatto, se no n dottrinale, e vivere come se lo Stato non ci fosse, attaccati ad una libertà dello spirito che genera sètte di ogni tipo e elegge a divinità un qualche santone televisivo.

Purtroppo il pensiero di Erasmo non ha vinto nella storia, mentre ha dominato quello di Machiavelli. È probabile che anche oggi la stupidità della guerra vinca sul bisogno di pace e sulla logica della pace. È bene, comunque, che il Papa gridi anche senza ascolto e che persino un nulla come chi scrive continui a esprimere la voglia di pace e la follia di quei "sapienti" che mescolano parole per fare la guerra riducendo la loro dignità ad arroganza.
Occorre che il popolo abbia consapevolezza che se un uomo americano o europeo, rappresentando ciascuno di noi, può giungere a fare guerra anche in mio nome e in nome dei tanti Erasmo del nostro tempo, la democrazia si è squalificata. Mala tempora.» Avvenire Martedi 18 febbraio 2003