Messianismi paralleli: gli ebrei Lubavitcher e i neocatecumenali

Si intensificano le amicizie tra ebrei ortodossi e cattolici “rinati”, nel nome della fede nel Messia. Ma in campo ebraico c’è chi grida al pericolo. Un’intervista del Custode della Terra Santa

ROMA, 16 febbraio 2005 –

In un’ampia intervista sul primo numero di “Oasis”, la nuova rivista internazionale del patriarcato di Venezia, il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa, parla degli “ebrei israeliani che hanno incontrato il Cristo e ricevuto il battesimo”.

In Israele – dice – sono “diverse centinaia di persone”. E prevede che resteranno pochi: “L’ebraismo non ammette la conversione. Certo, lo stato non vieta di fare scelte diverse. Però ci sono incomprensioni, tensioni”. Per questo motivo gli ebrei cristiani mantengono “una certa discrezione” e “non mettono in eccessiva evidenza la loro appartenenza al cristianesimo; non provocano e non costringono l’ambiente circostante a occuparsi troppo di loro”.

Ma questi sono gli ebrei che si sono integrati nella Chiesa cattolica, con un vescovo espressamente per loro. Perché ve ne sono anche altri, più numerosi, che non hanno un rapporto con la Chiesa. Semplicemente credono che il Gesù del Nuovo Testamento è il Messia che tornerà alla fine dei tempi. Sono gli “ebrei messianici” e padre Pizzaballa li valuta in “migliaia”. Sia i primi che i secondi provengono in prevalenza dall’ebraismo religioso, quello generalmente chiamato “ortodosso”.

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Il messianismo è tornato prepotentemente in primo piano, nell’ebraismo. E lo stesso è avvenuto nel cristianesimo, specie in quei suoi settori “evangelical” e pentecostali oggi in forte espansione in tutto il mondo. Questi ultimi fenomeni sono per lo più esterni al cattolicesimo, ma anche la Chiesa romana ne è segnata.

Ebbene, un elemento che caratterizza queste nuove correnti cristiane è proprio l’amicizia con Israele, in controtendenza rispetto alle Chiese storiche protestanti, in genere ostili. Nel periodo più nero dell’ultima intifada, quando i viaggi in Terra Santa si erano quasi azzerati, le Chiese “evangelical” non hanno mai cessato di portarvi i loro pellegrini. E lo stesso hanno fatto, nella Chiesa cattolica, le comunità del Cammino Neocatecumenale, sicuramente il più filoisraeliano di tutti i movimenti di rinascita cattolica dell’ultimo mezzo secolo.

La riscoperta del messianismo avvicina idealmente i neocatecumenali soprattutto a una corrente dell’ebraismo ortodosso: i Lubavitcher.

Lo scorso 22 gennaio, su un’intera pagina del quotidiano italiano “il Foglio” è apparsa una dotta ed entusiastica presentazione del messianismo dei Lubavitcher. L’autore del saggio era Giuseppe Gennarini, uno dei fondatori del Cammino Neocatecumenale in Italia.

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I Lubavitcher prendono nome dalla città bielorussa di Lubavitch, loro centro d’origine. Nacquero nella seconda metà del XVIII secolo da una costola dell’ebraismo hassidico. Rispetto a questa vasta corrente di rinascita religiosa si distinguono per l’attenzione più marcata allo studio dei testi talmudici e cabalistici, sia pubblici che segreti, e per la fortissima spinta missionaria tra i fratelli di fede.

Nel 1944 il loro rabbino supremo Joseph Isaac si trasferì negli Stati Uniti, a Brooklyn, dove tutt’ora i Lubavitcher hanno la loro sinagoga centrale, al numero 770 di Eastern Parkway. Quella migrazione nell’America infedele, con i suoi tanti ebrei secolarizzati, fu vissuta come una discesa nel mondo delle tenebre, preludio voluto da Dio alla manifestazione salvifica del Messia. Che infatti essi videro arrivare nella persona del genero e successore di Joseph Isaac, il nuovo “rebbe” Menachem Mendel Schneerson (nella foto). Questi morì a 92 anni, veneratissimo, nel 1994, dopo una dolorosa malattia. Non designò nessuno a succedergli. I suoi seguaci credono che egli risorgerà da morte e ritornerà a inaugurare il definitivo regno messianico.

I Lubavitcher costituiscono una porzione rilevante e dinamica dell’ebraismo religioso hassidico. Sono attivi in molti paesi con oltre duemilaseicento loro istituti. Circa tremilasettecento loro famiglie sono partite in missione. In Italia sono presenti a Milano e Venezia, e controllano la più importante macelleria rituale di Roma. Centocinquanta rabbini di tutto il mondo hanno sottoscritto un riconoscimento della messianità del “rebbe” Schneerson.

Ma proprio questo loro messianismo ha attirato sui Lubavitcher gli strali di altre componenti del mondo ebraico. David Berger, un famoso rabbino ortodosso, ma legato ad ambienti “liberal”, ha pubblicato nel 2002 negli Stati Uniti un libro molto veemente contro di loro: “The Rebbe, the Messiah, and the Scandal of the Orthodox Indifference”. Berger li definisce eretici e idolatri. Vuole che siano messi al bando. Perché a suo giudizio il loro messianismo sconvolge la dottrina ebraica classica e mette a rischio la stessa sopravvivenza dell’ebraismo nel mondo.

Berger si occupa da anni dei rapporti tra ebrei e cristiani ed è convinto che il messianismo dei Lubavitcher faciliti l’espansione missionaria dei cristiani tra gli ebrei. Chiama dunque questi ultimi a reagire. Scrive: “Se trattiamo i messianisti come buoni ebrei, concediamo la vittoria al cristianesimo nei punti cruciali di una sfida millenaria”.

In effetti, dopo Gesù, le dottrine messianiche entrarono in ombra, nell’ebraismo. Divennero materia di trattazioni riservate a pochi. I Lubavitcher le hanno dissotterrate e hanno fatto leva proprio sui due passi biblici che nel Nuovo Testamento sono centrali nel riconoscimento di Gesù come Messia, applicandoli al loro “rebbe”. Il primo è di Zaccaria 12: “E guarderanno a colui che hanno trafitto”. Il secondo è di Isaia 53: “È stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità. [...] Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca. [...] Offrendo la sua vita in sacrificio per il peccato, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni”.

Non tutti, però, nell’ebraismo, hanno le stesse paure del rabbino Berger. David Singer, direttore di ricerca all’American Jewish Committee, ha pubblicato nel maggio 2003 sull’influente rivista cattolica “First Things”, diretta da padre Richard J. Neuhaus, un commento molto più positivo. Che termina così:

“Molto peggiore della sconvolgente presenza dei messianisti Lubavitcher, sulla scena attuale dell’ebraismo ortodosso, sarebbe la loro totale assenza. Un ebraismo ortodosso nel quale la speranza nel Messia rimanesse ridotta per sempre al livello di una pia affermazione, non sarebbe niente più che un corpo morto religioso. Chiamiamoli pazzi, chiamiamoli eretici, ma i messianisti Lubavitcher portano una potente, anche se strana, testimonianza della inesauribile vitalità della fede ebraica nel Messia”.

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In campo cattolico, il commento di Giuseppe Gennarini è molto simile al precedente. Questa è la conclusione della sua nota sui Lubavitcher:

“Questo dibattito getta una luce nuova sui rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, dimostrando che molti aspetti di Gesù e del cristianesimo, che secondo alcuni erano frutto di contaminazioni ellenizzanti o comunque estranee alla tradizione ebraica, sono invece profondamente radicati nella tradizione di Israele. Ma soprattutto, in un’epoca di ‘pensiero debole’ e in un mondo che vede nell’omologazione o nell’assimilazione l’ideale supremo, i Lubavitcher sono testimoni viventi che la fede nel Messia – venuto o venturo – è il centro della fede giudeo-cristiana”.

I neocatecumenali, di cui Gennarini fa parte, sono molto presenti e attivi in Israele. Sopra il monte di Korazym, in vista del Mare di Galilea, hanno costruito una cittadella per la formazione dei loro missionari, chiamata “Domus Galilaeae”, affrescata dal loro fondatore Kiko Argüello e inaugurata da Giovanni Paolo II nel 2000, tra gli applausi di molti rabbini compiaciuti per lo stile anticotestamentario della costruzione.

E al luogo scelto per la loro cittadella i neocatecumenali attribuiscono esplicite valenze messianiche. È la “Galilea dei pagani”, la “terra di Zabulon e di Neftali” annunciata da Isaia come il luogo della venuta del Messia. Ha scritto Gennarini in un altro suo intervento su “il Foglio” del 27 gennaio 2004:

“Gli ebrei cabalisti di Isaac Luria a Safed nel 1500, e ancora oggi gli ebrei osservanti, seguendo le profezie commentate nel Talmud e nello Zohar, aspettano la manifestazione del Messia nella ‘Galilea dei pagani’, immagine storico-geografica che annuncia una speranza quando l´uomo è arrivato al colmo della tristezza, dell´umiliazione e della disperazione”.

Inoltre, ogni sabato, una processione di insoliti visitatori anima la collina di Korazym. Sono ebrei ortodossi che bussano alla “Domus Galilaeae”. Accanto all´entrata trovano un "bimah", un pulpito, come nelle sinagoghe; a lato del chiostro il decalogo di Mosé scolpito in ebraico su marmo; al centro della biblioteca una Torah del XV secolo; dopo la visita vengono salutati con il canto dello “Shemah Israel”, e se ne vanno commossi.

Insomma, tra ebrei ortodossi e cristiani “rinati”, cattolici e non, le amicizie si moltiplicano. Per alcuni sono amicizie felici, per altri sospette, per altri decisamente temute. In Israele, oltre ai giudeocristiani e agli ebrei messianici, vi sono decine di migliaia di immigrati dalla Russia e dall’Europa dell’Est, di identità religiosa debole e incerta, sul confine tra ebraismo e cristianesimo. Potenziali convertiti per i missionari dell’uno o dell’altro Messia.