SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Un futuro di pace. O di guerra?


La società aperta dovrà fare i conti con un contesto di politica internazionale tutt’altro che roseo, caratterizzato, tra l’altro, da una forte corrente di de-occidentalizzazione del mondo.
E con, sullo sfondo, l’accesa partita sul controllo delle risorse


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Il mondo globalizzato, senza più barriere e ricco di nuove opportunità, sembra il terreno ideale per far germogliare il concetto di società aperta. Eppure, le relazioni internazionali continuano a patire di quei freni che sempre le hanno contraddistinte, come le disuguaglianze di potere, il proliferare dei conflitti, incentivati anzi in un mondo interconnesso, e la spiccata eterogeneità politica e istituzionale dei protagonisti.

In controtendenza rispetto all’idea di società aperta, inoltre, con la fine dell’era comunista le democrazie liberali sembrano aver marcato ancora di più la differenza tra la loro visione del mondo e quella “degli altri”. Sottolineando così la superiorità del modello occidentale, ma liberando al contempo una corrente di de-occidentalizzazione del mondo.

In questo contenso, chi ha dunque il diritto di esprimere la volontà della società internazionale “aperta”?
Tutti gli stati o solo quelli democratici?
E’ più pericolosa una società più esigente, ma meno inclusiva, che non lascia spazio agli “stati canaglia” ma che li spinge ancor più fuori dalle regole, oppure una società più inclusiva, che rischia di indebolire i propri principi fondamentali?

Inoltre, società aperta vuol dire buon funzionamento dei mercati e virtù della concorrenza economica. Ma se a competere sono gli stati nazionali, allora il rischio è che la gara allo sviluppo produca conflitti, anche per quanto concerne l’accesso alle risorse.
Quali stanno diventando le risorse strategiche dell’attuale contesto internazionale?
Quali sono i protagonisti della partita per il loro controllo?

1-Guerra e pace hanno cambiato volto

Perché non funziona la lotta globale al terrore lanciata dagli americani
di Alessandro Colombo, professore di relazioni internazionali all’ università degli studi di Milano

Se non subentrerà qualche altro evento catastrofico, i prossimi mesi potrebbero assistere al lento ma irresistibile declino della cosiddetta guerra globale al terrore, cioè dell’interpretazione che gli Stati Uniti hanno offerto del contesto internazionale successivo all’11 settembre 2001 e in base alla quale hanno concepito e legittimato tutte le proprie scelte successive. A condannare la formula della guerra globale è prima di tutto l’insuccesso di queste scelte, simboleggiato dal disastro iracheno ma completato dallo stallo diplomatico al quale gli Stati Uniti si sono condannati a mano a mano che hanno allungato la lista dei soggetti indesiderabili e inammissibili al negoziato. E tuttavia, anche prima di questi risultati, la formula della “guerra globale contro il terrore” conteneva già dentro di sé le ragioni della propria inefficacia: tanto che, delle tre parole di cui è composta, non ce n’è una sola che abbia presa sulla realtà delle relazioni internazionali contemporanee.

Non la parola “guerra”, per cominciare. Nella Quadrennial Defense Review del febbraio 2006, lo stesso Dipartimento della Difesa statunitense ha dovuto riconoscere che “la distinzione tradizionale, visibile tra guerra e pace è meno chiara all’inizio del ventunesimo secolo”. E proprio questo è il problema: mentre gli Stati Uniti continuano a ribadire di sentirsi in guerra, anzi “in quella che sarà una lunga guerra”, la maggior parte degli altri paesi (compresi buona parte di quelli europei) continua a sentirsi in pace o, più precisamente, in un dopoguerra – il dopoguerra fredda, secondo la definizione a noi più consueta dell’attuale scenario internazionale. Quali che fossero le loro ragioni, gli Stati Uniti non sono riusciti a convincere gli altri che l’11 settembre del 2001 sia stato davvero una nuova Pearl Harbour. Mentre, divisa sulla pace e sulla guerra, la comunità internazionale non ha potuto neppure concordare sulla legittimità degli strumenti impiegati dagli Americani negli anni successivi: dagli omicidi mirati alle extraordinary renditions fino alla dottrina stessa della guerra preveniva – in un caso, passaggio discrezionale dalla pace alla guerra; nell’altro, semplice colpo sferrato in anticipo all’interno di una guerra già in atto.

Lo stesso vale, quasi a maggior ragione, per l’aggettivo “globale”. Pur sforzandosi di procurare un sostituto strategico e ideologico all’ubiquità e alla chiarezza della guerra fredda, la presunta globalità della guerra contro il terrore si è infranta proprio contro la progressiva diversificazione (geopolitica e culturale) del contesto internazionale che avrebbe dovuto contenere. Anche dove singoli attori e interi conflitti sono stati trascinati sotto l’etichetta della “guerra al terrore” – dalla Cecenia alla Palestina al Libano allo stesso Iraq – le vicende storiche e politiche di ciascuno di essi hanno continuato a restare separate, mentre la pretesa di gestirle (diplomaticamente e militarmente) secondo una logica comune ha avuto come unico effetto quello di ingessare la politica estera americana, in paradossale contraddizione con l’enfasi sulla libertà d’azione propria dell’amministrazione Bush.

E tuttavia niente, nella metafora della “guerra globale al terrore”, è tanto equivoco quanto il riferimento stesso al “terrore”. Per potere combattere una guerra e, quindi, per poterla vincere è necessario avere un nemico definito e il terrore, che lo si voglia o no, non potrà mai esserlo. Così come il terrorismo, esso è semplicemente un mezzo per condurre la guerra (o per ottenere e conservare la pace): un mezzo universalmente disponibile e, nell’esperienza storico-concreta, ripetutamente impiegato da una moltitudine di soggetti diversissimi tra loro per ispirazione ideologica, appartenenza culturale, forma organizzativa (singoli individui, gruppi rivoluzionari ma anche e, soprattutto, stati). Pensare, o fingere di farlo, che tra questi soggetti debba necessariamente esistere qualche forma di coerenza politica e culturale significa non soltanto mentire clamorosamente sulla storia dell’ultimo secolo, ma prepararsi il terreno per il disastro. Come è accaduto agli Stati Uniti, appunto, quando hanno preteso di disconoscere che quelle di Saddam Hussein e del radicalismo islamico non erano la stessa minaccia, ma due minacce diverse e, quindi, che contenere o eliminare la prima non avrebbe indebolito automaticamente anche l’altra, ma avrebbe potuto persino rafforzarla.

2-Il terrorismo e il mercato della violenza

L’industria della sicurezza vale più di 100 miliardi di dollari, ha una crescita annua dell’8% ed è alimentata soprattutto dal terrorismo. Eppure di quest’ultimo alcuni aspetti devono ancora essere chiariti
di Fabio Armao, professore di relazioni internazionali all’università degli studi di Torino

A partire dalla fine del sistema bipolare, alcuni gruppi organizzati quali le reti terroristiche, le mafie e le corporation militari hanno conosciuto uno straordinario successo, dimostrando di poter contribuire in maniera significativa a determinare la distribuzione delle risorse (materiali e immateriali) tra attori in competizione tra loro. Ciò si spiega con il fatto che la caduta del muro di Berlino e la conseguente fine delle ideologie hanno contribuito ad alimentare il cosiddetto fenomeno della privatizzazione della politica e l’illusione che il sistema economico fosse effettivamente in grado di autoregolamentarsi: se la politica si riduce a mercato, anche la sicurezza e la protezione si riducono a industria; un’industria nella quale trovano modo di affermarsi sempre nuovi “marchi”. Le mafie riproducono incessantemente l’accumulazione originaria (e violenta) delle risorse a livello locale, investendo poi i propri profitti sul mercato globale, dove assumono il ruolo di commercianti sulla lunga distanza, in grado di far circolare merci (per lo più illecite) e denaro. Le private military company offrono uomini armati a chiunque sia disposto a pagarne il soldo; producono reddito per sé e, ogni qual volta la difesa di interessi privati si tramuta in pratiche di vero e proprio sfruttamento, per i propri clienti.

I terroristi, con le loro azioni indiscriminate e imprevedibili, contribuiscono enormemente ad alimentare il “mercato della sicurezza” – un mercato che, secondo un recente rapporto dell’Oecd, ruota attorno ai 100-120 miliardi di dollari, con una crescita annua stimata attorno al 7-8%. La loro funzione consiste nel vendere a gruppi marginalizzati l’illusione di un futuro accesso all’arena politica ottenendone in cambio un sacrificio immediato, se necessario anche in termini di vite umane (si pensi al fenomeno dei terroristi-suicidi). Per far questo, in forma più esplicita rispetto agli altri gruppi detentori di risorse private di violenza, fanno appello ad argomenti di tipo politico e/o religioso.

Ben più che nel caso dei mafiosi e dei mercenari, lo stato sembra costituire un ostacolo concettualmente insormontabile nell’affrontare il discorso sul terrorismo. Da un lato, chi assume una posizione normativa non potrà che vantare la radicale diversità tra lo stato e il terrorista a partire dal presupposto che soltanto il primo sia legittimato a impiegare la violenza e, in quanto tale, autorizzato a definire l’altro come criminale. Il potere statale non è frazionabile, e l’esercizio della violenza è un gioco a somma zero in cui chi vince prende tutto: l’unica chance, per il terrorista, è riuscire a farsi stato. Dall’altro, chi rifiuta questa posizione e adotta una prospettiva di tipo puramente descrittivo non può evitare di constatare che anche lo stato è capace di atti terroristici e ne deduce in modo inequivocabile che il terrorismo ha a che fare con i mezzi impiegati, non con l’identità dell’attore. In questo caso, rasentando la tautologia, terrorista sarà chiunque faccia un uso terroristico della violenza: attore privato o stato. A quel punto, tuttavia, bisognerà saper tracciare il confine che separa la violenza terroristica da quella non terroristica.

Il primo fattore che caratterizzerebbe la violenza terroristica è l’inumanità, il carattere eccessivo ed estremistico dell’atto. In questo caso, a ben vedere, non si tratterebbe soltanto di contare le vittime, ma anche di dar loro un peso, un valore specifico. Il fatto è che tra gli spettatori le reazioni potranno essere diverse: a seconda che l’evento si svolga nel proprio paese o altrove, che coinvolga propri concittadini o meno, e così via. E molto dipenderà anche dalla plausibilità che ciascuno attribuisce alla causa per la quale il terrorista afferma di voler combattere. I terroristi sfruttano queste ambiguità di sentimenti; strumentalizzano le cause, non le inventano. E strumentalizzano cause che per qualcuno, o per molti, sono giuste: il militante islamico, non diversamente da quello dell’Ira, o delle Brigate rosse o del Ku Klux Klan, gioca con le idee e i sentimenti degli altri, con le loro frustrazioni e le loro passioni. In questo senso è, letteralmente, un parassita.

Il secondo fattore che identificherebbe la violenza come terroristica è il suo carattere indiscriminato: la scelta delle vittime sarebbe del tutto casuale; anzi, cadrebbe preferibilmente sulle più innocenti. L’apoteosi dell’azione terroristica sarebbe, in questa prospettiva, la strage; e il suo strumento privilegiato, la bomba. Bisognerebbe chiedersi però, a questo punto, quanto questa strategia d’azione corrisponda alla realtà storica e quanto, invece, sia il frutto di un immaginario collettivo anche artificialmente alimentato; ad esempio, dall’insistenza con la quale autorità di governo e mezzi di comunicazione accreditano l’idea che gruppi eversivi possano oggi entrare in possesso di armi di distruzione di massa, in particolare chimiche o biologiche. Molti gruppi terroristici, infatti, hanno adottato la strategia opposta di selezionare con accuratezza i propri bersagli proprio per marcare la loro differenza dagli stragisti e ritenendo, razionalmente, che questa fosse la scelta migliore anche in termini di marketing, il modo per ampliare le basi del proprio consenso.

Nella ricerca sul terrorismo è finora di gran lunga prevalsa la tendenza a concentrare l’attenzione sui due estremi dell’esercizio della violenza: il momento pregresso – i requisiti di legittimità, ma anche le possibili cause immediate e le ideologie che la alimentano – e gli effetti – in relazione alla selettività nella scelta delle vittime, ma anche al valore funzionale o simbolico del bersaglio. Troppo poco, invece, si continua a sapere sulla vita del terrorista: sul reclutamento, sull’addestramento e su tutti quegli altri aspetti organizzativi che permettono ai gruppi terroristici (come anche a quelli mafiosi e mercenari) di ottenere dai propri uomini un’obbedienza pari, se non superiore, a quella che lo stato pretende dai propri soldati; arrivando, se necessario, a convincere i propri militanti a superare l’inibizione a uccidere se stessi oltre che gli altri.

3-Il terrorismo e il mercato della violenza

L’industria della sicurezza vale più di 100 miliardi di dollari, ha una crescita annua dell’8% ed è alimentata soprattutto dal terrorismo. Eppure di quest’ultimo alcuni aspetti devono ancora essere chiariti
di Fabio Armao, professore di relazioni internazionali all’università degli studi di Torino

A partire dalla fine del sistema bipolare, alcuni gruppi organizzati quali le reti terroristiche, le mafie e le corporation militari hanno conosciuto uno straordinario successo, dimostrando di poter contribuire in maniera significativa a determinare la distribuzione delle risorse (materiali e immateriali) tra attori in competizione tra loro. Ciò si spiega con il fatto che la caduta del muro di Berlino e la conseguente fine delle ideologie hanno contribuito ad alimentare il cosiddetto fenomeno della privatizzazione della politica e l’illusione che il sistema economico fosse effettivamente in grado di autoregolamentarsi: se la politica si riduce a mercato, anche la sicurezza e la protezione si riducono a industria; un’industria nella quale trovano modo di affermarsi sempre nuovi “marchi”. Le mafie riproducono incessantemente l’accumulazione originaria (e violenta) delle risorse a livello locale, investendo poi i propri profitti sul mercato globale, dove assumono il ruolo di commercianti sulla lunga distanza, in grado di far circolare merci (per lo più illecite) e denaro. Le private military company offrono uomini armati a chiunque sia disposto a pagarne il soldo; producono reddito per sé e, ogni qual volta la difesa di interessi privati si tramuta in pratiche di vero e proprio sfruttamento, per i propri clienti.

I terroristi, con le loro azioni indiscriminate e imprevedibili, contribuiscono enormemente ad alimentare il “mercato della sicurezza” – un mercato che, secondo un recente rapporto dell’Oecd, ruota attorno ai 100-120 miliardi di dollari, con una crescita annua stimata attorno al 7-8%. La loro funzione consiste nel vendere a gruppi marginalizzati l’illusione di un futuro accesso all’arena politica ottenendone in cambio un sacrificio immediato, se necessario anche in termini di vite umane (si pensi al fenomeno dei terroristi-suicidi). Per far questo, in forma più esplicita rispetto agli altri gruppi detentori di risorse private di violenza, fanno appello ad argomenti di tipo politico e/o religioso.

Ben più che nel caso dei mafiosi e dei mercenari, lo stato sembra costituire un ostacolo concettualmente insormontabile nell’affrontare il discorso sul terrorismo. Da un lato, chi assume una posizione normativa non potrà che vantare la radicale diversità tra lo stato e il terrorista a partire dal presupposto che soltanto il primo sia legittimato a impiegare la violenza e, in quanto tale, autorizzato a definire l’altro come criminale. Il potere statale non è frazionabile, e l’esercizio della violenza è un gioco a somma zero in cui chi vince prende tutto: l’unica chance, per il terrorista, è riuscire a farsi stato. Dall’altro, chi rifiuta questa posizione e adotta una prospettiva di tipo puramente descrittivo non può evitare di constatare che anche lo stato è capace di atti terroristici e ne deduce in modo inequivocabile che il terrorismo ha a che fare con i mezzi impiegati, non con l’identità dell’attore. In questo caso, rasentando la tautologia, terrorista sarà chiunque faccia un uso terroristico della violenza: attore privato o stato. A quel punto, tuttavia, bisognerà saper tracciare il confine che separa la violenza terroristica da quella non terroristica.

Il primo fattore che caratterizzerebbe la violenza terroristica è l’inumanità, il carattere eccessivo ed estremistico dell’atto. In questo caso, a ben vedere, non si tratterebbe soltanto di contare le vittime, ma anche di dar loro un peso, un valore specifico. Il fatto è che tra gli spettatori le reazioni potranno essere diverse: a seconda che l’evento si svolga nel proprio paese o altrove, che coinvolga propri concittadini o meno, e così via. E molto dipenderà anche dalla plausibilità che ciascuno attribuisce alla causa per la quale il terrorista afferma di voler combattere. I terroristi sfruttano queste ambiguità di sentimenti; strumentalizzano le cause, non le inventano. E strumentalizzano cause che per qualcuno, o per molti, sono giuste: il militante islamico, non diversamente da quello dell’Ira, o delle Brigate rosse o del Ku Klux Klan, gioca con le idee e i sentimenti degli altri, con le loro frustrazioni e le loro passioni. In questo senso è, letteralmente, un parassita.

Il secondo fattore che identificherebbe la violenza come terroristica è il suo carattere indiscriminato: la scelta delle vittime sarebbe del tutto casuale; anzi, cadrebbe preferibilmente sulle più innocenti. L’apoteosi dell’azione terroristica sarebbe, in questa prospettiva, la strage; e il suo strumento privilegiato, la bomba. Bisognerebbe chiedersi però, a questo punto, quanto questa strategia d’azione corrisponda alla realtà storica e quanto, invece, sia il frutto di un immaginario collettivo anche artificialmente alimentato; ad esempio, dall’insistenza con la quale autorità di governo e mezzi di comunicazione accreditano l’idea che gruppi eversivi possano oggi entrare in possesso di armi di distruzione di massa, in particolare chimiche o biologiche. Molti gruppi terroristici, infatti, hanno adottato la strategia opposta di selezionare con accuratezza i propri bersagli proprio per marcare la loro differenza dagli stragisti e ritenendo, razionalmente, che questa fosse la scelta migliore anche in termini di marketing, il modo per ampliare le basi del proprio consenso.

Nella ricerca sul terrorismo è finora di gran lunga prevalsa la tendenza a concentrare l’attenzione sui due estremi dell’esercizio della violenza: il momento pregresso – i requisiti di legittimità, ma anche le possibili cause immediate e le ideologie che la alimentano – e gli effetti – in relazione alla selettività nella scelta delle vittime, ma anche al valore funzionale o simbolico del bersaglio. Troppo poco, invece, si continua a sapere sulla vita del terrorista: sul reclutamento, sull’addestramento e su tutti quegli altri aspetti organizzativi che permettono ai gruppi terroristici (come anche a quelli mafiosi e mercenari) di ottenere dai propri uomini un’obbedienza pari, se non superiore, a quella che lo stato pretende dai propri soldati; arrivando, se necessario, a convincere i propri militanti a superare l’inibizione a uccidere se stessi oltre che gli altri.

4-Se vuoi la pace, prepara il dopoguerra

La guerra in Iraq ha smentito le previsioni più pessimistiche, ma i mesi successivi sono stati un vero disastro, non riuscendo a demarcare un prima fatto di terrore e morte e un dopo fatto di sicurezza e ordine
di Vittorio Emanuele Parsi, professore di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano

Dopo una preparazione durata sostanzialmente tutto l’inverno, il 20 marzo 2003 è partita l’offensiva angloamericana contro l’Iraq. Mentre i marines degli Stati Uniti puntavano sui giacimenti petroliferi di Rumalia nel sud del paese, per evitare che potessero essere distrutti dalla guardia repubblicana di Saddam, la 3a Divisione di fanteria si dirigeva verso Nord in direzione di Nassyria e le forze britanniche iniziavano la battaglia per conquistare Bassora. La guerra sarebbe durata più a lungo delle 72 ore da qualcuno incautamente pronosticate, ma si sarebbe conclusa comunque in soli 43 giorni, portando al rovesciamento del regime di Saddam Hussein e all’inizio di un’occupazione militare dell’Iraq a tempo indeterminato da parte di un corpo di spedizione di circa 160.000 soldati americani. Proprio l’esiguità delle forze militari coinvolte sarà una delle critiche più dure mosse contro il segretario alla Difesa Rumsfeld. Il corpo di spedizione angloamericano verrà integrato da alcune migliaia di truppe di altri Paesi (italiani, polacchi, spagnoli, olandesi, tra gli altri) subito dopo la conclusione ufficiale delle ostilità. Ma anche così, le forze di occupazione saranno insufficienti a mantenere l’ordine e a favorire la ripresa di un minimo di organizzazione civile, e il caos che ne seguirà fornirà dapprima un alibi e poi un vero alimento a terroristi e ribelli. Tra il marzo 2001 e il giugno 2004 ben 31 delle 33 brigate combattenti dell’Us Army sono andate sulla linea del fuoco, riducendo all’osso permessi e riposo, ed esasperando i riservisti e i membri della Guardia Nazionale, massicciamente impiegati in prima linea, dotati di equipaggiamenti insufficienti e persino malamente nutriti, grazie alla privatizzazione selvaggia impostata da Donald Rumsfeld.

Dal giugno del 2004 in poi il numero dei riservisti e dei membri della Guardia Nazionale impegnati in Iraq è sempre oscillato intorno ai 50-55.000, a fronte dei circa 80.000 soldati in servizio attivo.
La Terza guerra del Golfo ha smentito tutte le previsioni, non solo quelle avventatamente ottimistiche, ma anche quelle apocalittiche sui due milioni di profughi (sono stati solo centomila), le centinaia di migliaia di morti civili (che variano secondo le stime tra i 3.000 e i 7.000), le catastrofi ambientali e quant’altro. Ma il dopoguerra è stato un vero disastro. Anche in seguito alla folle privatizzazione dei servizi di rifornimento e della logistica delle Forze armate americane, sono stati letteralmente buttati al vento i primi 15-20 giorni successivi alla caduta del tiranno, quelli in cui sarebbe stato fondamentale, probabilmente vincente, dimostrare concretamente la differenza tra un prima – fatto di terrore, morte, distruzione, penuria e assenza di qualunque regola – e un dopo – fatto di sicurezza, pace, legge e ordine, ma anche cibo e latte in polvere per i bambini, acqua potabile e carburante.

È stato osservato che non era possibile improvvisare tutto ciò in pochi giorni. E proprio qui sta il punto.
Contemporaneamente alla preparazione delle operazioni militari avrebbe dovuto essere pianificata l’assistenza alle popolazioni irachene liberate, per vincere la guerra a Saddam e ai terroristi innanzitutto nel cuore e nella mente delle popolazioni irachene e arabe. Tedeschi, italiani e giapponesi sono passati attraverso l’esperienza di perdere una guerra contro gli Stati Uniti. Di tutto ciò non sembra esista traccia tra i piani elaborati dal Pentagono per la liberazione dell’Iraq. Nonostante certo revanscismo nazionalpopulista, dove confluiscono umori e capziosità intellettualizzanti, torni a negare, quella sconfitta ha rappresentato una benedizione per questi paesi. Pensando a che cosa sarebbe stato il destino di italiani, tedeschi e giapponesi se le potenze dell’Asse avessero vinto, occorre dire che fu una fortuna per loro perdere una guerra contro l’America. Nel conquistare alla causa delle libertà e dell’alleanza con gli Stati Uniti popolazioni nemiche – che, fino al giorno prima, avevano pagato un durissimo prezzo in termini di vite umane, distruzioni materiali e identità politica – un contributo decisivo fu fornito dal legame evidente tra fuoriuscita dall’incubo della guerra e della fame e occupazione americana. Il primo propulsore della ripresa di una parvenza di economia, sia pure nella forma del mercato nero, arrivò attraverso la macchina logistica americana, la vera chiave di volta della vittoria statunitense nel conflitto mondiale. Come è possibile che questa lezione sia stata ignorata? Come è ipotizzabile che qualcuno potesse non essersi posto davvero il dubbio se la democrazia potesse essere esportata prima della sicurezza? Che la libertà politica potesse attecchire prima ancora che la libertà dal bisogno (almeno da quello della sopravvivenza) venisse garantito?

Da L’alleanza inevitabile (Università Bocconi editore)

5-La globalizzazione deve estendere i suoi confini

Nella partita delle relazioni internazionali lo scacchiere mediorientale è di fondamentale importanza. Nella ricerca di interlocutori, secondo il senatore dell’Ulivo Antonio Polito, bisogna però distinguere tra stati sovrani e soggetti comandati da milizie.
di Irene Consigliere

La società aperta crede nella globalizzazione delle economie, ma in questo modo nei confronti dei paesi arabi ha avuto per ora un effetto opposto, di emarginazione. E’ necessario dunque che diventi più ricettiva anche nei confronti di queste realtà e di tutte le religioni. Questa la raccomandazione di Antonio Polito, senatore dell’Ulivo.

Alla luce di una società che sta diventando sempre più globale, quali soggetti conviene considerare come interlocutori accettabili: solo chi, dall’inizio, muove da principi e regole più o meno comuni (come per esempio Abu Mazen in Palestina, Siniora in Libano ecc.) oppure anche chi non lo fa (come Hamas, Hezbollah, Siria e Iran), purché stia almeno alle regole del negoziato?
E’ fondamentale fare una distinzione tra stati sovrani e soggetti non statuali comandati da milizie come per esempio Hamas o Hezbollah o Al Qaeda. Il grande tema dell’instabilità globale è appunto la nascita sulla scena internazionale di questi soggetti e di una miriade di movimenti indipendentisti come nell’India del Nord che però non hanno un impatto negativo sull’equilibrio mondiale. Credo che la comunità internazionale debba trattare per esempio con Hamas perché governa la Palestina, ma non in quanto movimento terroristico che invece deve essere condannato e al quale deve essere applicata una sanzione. Apprezzo per esempio come l’Onu abbia deciso di trattare il tema del Libano. La difficoltà con queste realtà sta appunto nel fatto che da un lato è possibile trattare con il governo, ma dall’altro non con il movimento terrorista che lavora a favore del conflitto.

Come giudica per esempio il recente tentativo di Fassino di invitare al tavolo dei negoziati di pace con l’Afghanistan i talebani?
Ritengo che sia irrealizzabile una trattativa con i talebani, e che sia invece opportuno avere rapporti diretti con il governo di Karzai che è stato eletto democraticamente ma che ha bisogno dell’aiuto della Nato per restaurare la propria autorità. Far sedere al tavolo di una conferenza internazionale un movimento terroristico è insensato. Abbiamo visto ad esempio come si sono comportati i talebani nella trattativa di liberazione del giornalista di Repubblica. Un processo di pacificazione deve coinvolgere tutte le etnie e deve essere affidato al governo.

Quale è il rischio peggiore: una società internazionale più esigente e meno inclusiva, che non lascia spazio ai gruppi e agli stati “canaglia” ma, proprio per questo, tende a spingerli definitivamente fuori delle regole? Oppure una società meno esigente ma più inclusiva che, per evitare questa deriva, rischia in compenso di indebolire i propri principi fondamentali?
Esistono due concezioni del mondo: che sia più pacifico quando c’è più democrazia o che sia più democratico quando è più pacifico. Da un lato ci sono gli Stati Uniti che sono convinti che il mondo avrà più pace quando sarà costituito da democrazie. L’Europa invece è dell’idea che prima viene la pace e poi la democrazia. E’ comunque indispensabile che continui a esserci un’unità transatlantica che garantisca un equilibrio internazionale. Ed è fondamentale che lo Stato di diritto abbia rispetto per le minoranze religiose.

Quale ruolo svolge la competizione per le risorse nei conflitti dell’ultimo decennio? E chi sono, infine, i protagonisti principali della partita per il controllo di queste risorse?
Il tema del controllo delle risorse energetiche è cruciale perché non sono infinite. La diplomazia russa è di tipo energetico. Se l’Europa non inizia a diversificare, diventerà sempre più dipendente dalla Russia, anche perché il petrolio è destinato a esaurirsi. L’area mediorientale rimane comunque ancora fondamentale per l’Occidente. La guerra in Iraq, giustificata dall’ambizione di controllare i giacimenti di petrolio, è costata molto di più di quanto gli Usa siano riusciti a realizzare. Un’altra fonte primaria da non trascurare è l’acqua, altro elemento di tensione nel conflitto arabo-israeliano.

E’ maggiore il rischio che l’economia internazionale venga deteriorata da un continuo stato di guerre e da scontri politici e ideologici o quello che la lotta per la supremazia economica impedisca una globalizzazione politica aperta e pacifica?
La globalizzazione non ha subito un arresto a causa delle guerre. E’ piuttosto la stabilità del mondo che ha subito uno shock a causa della globalizzazione. L’arrivo delle tv satellitari ha portato un’improvvisa ventata di modernità anche tra le popolazioni mediorientali. Ma da parte del mondo arabo c’è un forte timore di una perdita di identità, e che l’Occidente si faccia mondo.

6-Il nuovo ordine sociale si cambia anche dall’interno

Nel mondo globalizzato dalle tecnologie, le istituzioni tradizionali fanno fatica a inquadrare i nuovi attori della violenza e propongono spesso soluzioni dall’ “alto verso il basso”.
di Alyson JK Bailes, direttore del Sipri, Stockholm international peace research institute

Una società “aperta” può evocare sia immagini di forza che di vulnerabilità. Quello che si apre a nuove impressioni, ispirazioni e collaborazioni proficue si apre anche all’infiltrazione e all’attacco. La stessa sicurezza che consente a uno stato o a un’entità civile di “aprirsi” e mostrarsi può essere intesa da altri come un segno di arroganza che invita esplicitamente a una reazione violenta e “asimmetrica” concepita per punire, umiliare e scalzare detto stato o entità. Inoltre, può essere giudicata un’ipocrisia se la parte “aperta” del mondo è anche quella più potente (militarmente ed economicamente) e se si apre solo alle cose convenienti e piacevoli e si chiude a quelle (immigrati inclusi) meno gradevoli. Le leggi stesse che governano “l’apertura” di una società, nel senso della regolamentazione degli aspetti della coesistenza globale moderna, sono state create dagli stati e dagli individui più influenti del ventesimo secolo e non sono state sviluppate attraverso l’equivalente globale di un consenso di base.

Questo quadro della società internazionale di oggi può bastare a spiegare le tensioni, i conflitti e il generale “cattivo comportamento” che si osservano in diverse parti dell’emisfero settentrionale e tra certi elementi del Nord e del Sud del mondo. Non ci dice però se la storia mondiale supererà quest’impasse retrocedendo verso condizioni di separazione più marcata o avanzando verso una sorta di negativa multipolarità in cui ogni superpotenza regionale o individuale sarà il nemico di tutte le altre o spingendosi verso qualcosa di più positivo. Le visioni più fiduciose sono varie. Alcune di esse vedono la salvezza del mondo negli strenui sforzi (dopo così tante battute di arresto) per riformare le strutture della legge internazionale e del governo istituzionale. Altre attribuiscono più fiducia all’effetto “livellatore” della crescita economica e nell’innovazione tecnologica combinate all’interdipendenza. Altre, infine, nutrono la speranza che l’umanità vedrà la ragione di fronte a sfide esistenziali indisputabilmente universali come il surriscaldamento del pianeta e le pandemie.

Io non credo che il mondo regredirà né che la sua salvezza sarà garantita dalle sole leggi o istituzioni. Una ragione è da ricercarsi nei grandi cambiamenti irreversibili avvenuti negli ultimi cento anni nelle relazioni dello stato-nazione tradizionale, nel settore privato dell’economia, nella “società” come attore collettivo in contesti sia politici che economici, e nelle opportunità e i ruoli aperti all’individuo. Proprio come i mercati globali e la crescita delle imprese multinazionali hanno costantemente spinto lo stato ad abbandonare il proprio ruolo “mercantilista” di stimolare e controllare la crescita economica, le società in tutte le parti del mondo (anche se non ancora in tutti i paesi) hanno ottenuto maggiore influenza sia sui governi attraverso processi democratici, sia sulle strategie aziendali attraverso l’espansione dell’azionariato privato e la scelta dei consumatori. Il migliore livello di istruzione insieme a mezzi di informazione più aperti, a comunicazioni più moderne e a internet ha dato all’individuo la possibilità di diventare esso stesso “globale” anche senza ricorrere le maggiori possibilità odierne di spostarsi fisicamente. Una persona può votare in uno stato-nazione e possedere delle azioni in un secondo stato, avere delle proprietà in un terzo, condurre un movimento politico o sociale in un quarto, fare lobby nei corridoi collettivi della Ue e dell’Onu e scrivere su un blog letto, letteralmente, in tutto il mondo.

Si tratta sicuramente di una nuova dimensione di apertura, libertà e scelta di cui ci si dovrebbe rallegrare specialmente perché le statistiche sulla penetrazione e uso delle It dimostrano che le società nell’emisfero meridionale del mondo sfruttano le nuove aperture con lo stesso, se non maggiore, vigore delle società più ricche. L’abilità di una persona adeguatamente qualificata di un paese in via di sviluppo di lavorare con colleghi dei paesi sviluppati in squadre virtuali o attraverso l’outsourcing, o di sviluppare forze economiche locali e competitività attraverso un uso intelligente della tecnologia per “saltare” gli stadi evolutivi, contribuisce a controbilanciare la potenziale tirannia economica dei paesi ricchi. In sempre più regioni, i parlamentari, le campagne delle organizzazioni non governative, l’esposizione dei media e i blog hanno migliori possibilità, rispetto al passato, di infliggere duri colpi ai prepotenti e agli arroganti. Perché, allora, sentiamo parlare sempre di più degli aspetti più negativi dell’individuo globalmente abilitato? Perché sentiamo parlare sempre di più del terrorista che usa internet per appropriarsi di tecnologie letali e per inviare messaggi di odio, del trafficante che riesce a scivolare attraverso controlli di confine inefficienti, dei ciber-sabotatori che con un click disattivano funzioni vitali dei governi e delle economie? Questo succede, in parte, perché le nostre istituzioni familiari e i quadri legislativi internazionali non sono ideati per cogliere e contenere attori di questo tipo e perfino dopo l’11 settembre il mondo ha fatto lenti e goffi tentativi di sviluppare soluzioni di governabilità nuove, cooperative e potenzialmente globali. Un’altra ragione è che molte delle soluzioni tentate hanno un approccio tradizionale, dall’“alto verso il basso”, secondo il quale la popolazione “di quelle zone” è costituita da lupi cattivi o da innocenti pecore che possono essere salvate solo grazie all’azione del governo. Mentre cerchiamo di capire le vulnerabilità e le contraddizioni e le trappole delle nuove forme sociali che si stanno inesorabilmente diffondendo oltre i più vecchi confini nazionali e settoriali, dovremmo riflettere su come le risorse delle società a livello dell’individuo, del gruppo e delle imprese possano essere meglio mobilizzate per rinforzare e curare il nuovo ordine sociale dall’interno.

7-Chi rischia davvero in guerra

La morte dei civili, nelle guerre che l’Occidente combatte lontano da casa, non è un evento accidentale, ma la conseguenza del modo in cui abbiamo deciso di combattere, secondo i dettami della guerra risk-transfer
di Martin Shaw, professore di relazioni internazionali alla University of Sussex

All’inizio del XXI secolo gran parte dei leader e dei pensatori politici occidentali crede ancora di poter impiegare la guerra come mezzo di azione politica con giustizia ed efficienza. A volte si trovano in disaccordo su decisioni particolari: parecchi hanno dissentito dall’invasione anglo-americana dell’Iraq del 2003. Ma sono rimasti d’accordo sul principio generale: colpire le persone, perché questo è ciò che significa la guerra ai giorni nostri, rimane una legittima, sebbene incresciosa, maniera per raggiungere obiettivi politici. Chiaramente le persone che s’intende colpire sono quelle che hanno preso le armi con intenzioni politiche ostili o disonorevoli. Non s’intende colpire civili o non-combattenti. Se succede, si tratta per definizione di un evento «accidentale». Ma nel colpire quanti più nemici e quanti meno civili è possibile, essi mirano soprattutto a evitare che vengano uccisi i propri soldati o i propri aviatori. In effetti, se diminuire i rischi per il personale militare vuol dire aumentare il rischio di uccidere o ferire civili, si tratta di un prezzo che i civili dovranno sfortunatamente pagare.

Ciò che ho appena descritto è l’aspetto centrale di come l’occidente combatte le sue guerre oggi. La chiamo guerra risk-transfer, perché si concentra sulla minimizzazione dei rischi per i militari, e quindi dei sostanziali rischi politici ed elettorali di chi li comanda, e li trasferisce non solo sui «nemici», ma anche su quelli che lo stesso occidente considera «innocenti». È un modo di combattere la guerra che si è venuto perfezionando negli ultimi venticinque anni, in risposta agli strascichi del disastroso conflitto americano in Vietnam, nelle guerre delle Falklands/Malvinas, del Golfo, del Kosovo e dell’Afghanistan, così come in altri «interventi» minori, fino a giungere alla recente campagna irachena.

I propugnatori del nuovo modo occidentale di fare la guerra ne enfatizzano l’armamento «di precisione» e i sofisticati sistemi computerizzati di comando e controllo.
I critici sottolineano quanto in realtà i media siano stati posti sotto controllo al fine di impedire ai cittadini occidentali di vedere chi in realtà venga colpito dai propri militari. Entrambi hanno parzialmente ragione, ma bisogna andare oltre queste percezioni iniziali.

All’inizio del XXI secolo, l’occidente si trova a un bivio riguardo al suo atteggiamento nei confronti della guerra. Il nuovo approccio alla guerra sviluppato negli ultimi venticinque anni – per sfuggire al vicolo cieco della strategia nucleare, e contemporaneamente alla guerra degenerata del Vietnam – è fallito. Abbiamo una scelta: possiamo continuare a ricorrere allo strumento della guerra, abbandonando la finzione di impiegare la forza militare in maniera nuova e diversa, e a impantanarci così in conflitti brutali che non possiamo vincere. Oppure possiamo seguire la logica del nostro impegno verso le istituzioni globali, la democrazia e i diritti umani, e rinnovare la nostra determinazione a evitare la guerra. Non possiamo avere sia l’una sia l’altra cosa.

Da L’Occidente alla guerra (Università Bocconi editore)

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