RELIGIONI E CIVILTA'

di Bruno di Mauro

Esiste una strana e strabica forma di "political correctness" negli ambienti intellettuali laici, quando si parla del rapporto tra religione e cultura, religione e società, religione e politica.

Da un lato, si è estremamente critici contro le istituzioni religiose europee e contro ogni loro ingerenza nella vita civile, si è sempre pronti a riesumare i fantasmi delle Crociate e dell'Inquisizione, ci si appronta a un nuovo Kulturkampf per difendere i valori laici e liberali nella bioetica e nei campi connessi; gli esempi sono recentissimi e clamorosi, dal caso Buttiglione all'appello di Veronesi, per citare solo querelles degli ultimi giorni. Dall'altro, quando si discute sull'Islam, vengono fuori il relativismo, il multiculturalismo, il rispetto delle tradizioni e delle suscettibilità altrui, la negazione unilaterale dello "scontro di civiltà", e si accettano senza batter ciglio ideologie e comportamenti enormemente più intollerabili di quelli contro cui laici, libertari e femministe hanno appena finito di combattere, anzi, non hanno ancora finito.

Inoltre, nello sforzo di favorire l'avvicinamento e la comprensione unilaterali, ci si scaglia contro la propria identità storica e la propria tradizione culturale, o la si utilizza solo al negativo, per trovare, ad ogni elemento inaccettabile dell'Islam, un corrispettivo nel nostro passato (non importa se lontano secoli o millenni) che metta le cose in pari e che esima "loro" dal cambiamento che altrimenti sarebbe ragionevole chiedere. In questo modo, tra l'altro, si lascia ogni atteggiamento critico in esclusiva a minoranze becere e razziste, e proprio per differenziarsi da esse si accentuano ancor più gli atteggiamenti masochistici contro la propria civiltà, disconosciuta o deprecata.

Vorrei, per questo, proporre sull'argomento alcuni elementi di conoscenza e alcune considerazioni, con l'obiettivo di riequilibrare, per quanto possibile, la bilancia, mostrare perché la cultura laica, liberale, progressista può essere orgogliosa di tutte le proprie radici, incluse e in primo luogo quelle religiose, e, sull'altro versante, indicare ciò che la religione e la cultura islamica hanno di specifico, di diverso, di non conciliabile, di non riconducibile a una comune esperienza, di problematico, al di là delle banalità ireniste di moda e di prammatica (quando parlano le Istituzioni).

Per fare ciò, prendo le mosse dalle famose "radici giudaico-cristiane", pudicamente espunte dalle Tavole ufficiali della nostra identità europea. Non è stata una vittoria della laicità: tutt'altro. Innanzitutto, se l'intenzione fosse stata questa, i beneamati Costituenti non avrebbero dimenticato di nominare nel Preambolo la laicità dello Stato, la separazione tra Stato e confessioni religiose, che invece brillano per la loro assenza a vantaggio di un disordinato pastrocchio di altri valori generici, attribuibili a tutti e a buon mercato, oggi e (ahimé) domani, in vista di altre possibili adesioni. Qualche esempio? "Libertà" (assolutamente indeterminata); "rispetto della Ragione" (che significa? Forse "Distinti ossequi, signora Ragione!"? Perché non "spirito critico", "libertà di ricerca scientifica e razionale"?); "rispetto del diritto" (come sopra; perché non "Stato di diritto", o "primato della Legge"?); "civiltà" (quale???); "progresso e prosperità" (sì, le "magnifiche sorti e progressive"!!! Che cosa c'entra con una Costituzione, anzi con i suoi princìpi fondamentali? C'è mai stato un ordinamento politico che prevedesse il "regresso" o la "miseria"?); "cultura" (di nuovo: quale???); "progresso sociale" (si vede che la parola "progresso" piace; qui sarebbe stato più adatto il termine "giustizia"); e poi "democrazia" ( non "metodo democratico", "rappresentanza parlamentare", "separazione dei poteri", "controlli, garanzie e contrappesi"), "trasparenza", "pace", "giustizia", "solidarietà" (ognuno come gli va).

Ma soprattutto, non è stata una vittoria laica perché la tradizione giudaico-cristiana è, essa stessa, premessa e garanzia di ciò che intendiamo per "laicità".

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Che cosa significa "LAICITA'"?

Non certo, banalmente, anticlericalismo o ateismo. Lasciando da parte, in questa sede, etimologia e storia del termine, "laicità" indica semplicemente l'opposto di DOGMATISMO : indica cioè la volontà di non accettare imposizioni intellettuali, verità indimostrate, certezze atemporali e immutabili. Il dogmatico crede di portare in tasca la verità, e che tutti debbano seguirlo; il laico pensa che la verità sia un cammino, una ricerca, una dialettica, una conquista, che può svilupparsi solo nell'autonomia e nella libertà, ed è pronto a rimettere in discussione ogni punto d'arrivo di fronte a elementi nuovi. Il dogmatico accumula affermazioni e precetti; il laico si sforza di approntare strumenti e metodi, e di verificarli nel confronto con la realtà e con se stesso.

Ebbene, se c'è una esperienza intellettuale che va in questa direzione, ben prima del `400 (Umanesimo), del `500 (Rinascimento), del `600 (secolo della Scienza) e del `700 (secolo dei Lumi), e che risulta pienamente compatibile e complementare rispetto al razionalismo greco, essa è proprio quella della tradizione giudaica, e, soprattutto, cristiana.

Basta saper leggere. Nei primissimi capitoli della Genesi, Dio fa l'uomo "a sua immagine": non certo un'immagine fisica, visto che Dio è Spirito; né, certo, l'uomo viene dotato di onnipotenza, o di uno solo tra i "superpoteri" del Padreterno. No, "a sua immagine" significa dotato di autonomia, di dignità, di capacità di scelta, di LIBERTA', e del suo corollario, la responsabilità. E l'uomo può, fin dall'inizio, imporre nomi alla Natura (cioè, imporre sulla natura le sue categorie mentali, diventarne legislatore, come avrebbero detto, un po' più tardi, Galileo e Kant); ne è "amministratore fiduciario", Dio fa un passo indietro rispetto a lui. L'uomo, cioè l'uomo e la donna, insieme e con la stessa dignità ("Non è bene che l'uomo sia solo. Gli darò un aiuto che sia UGUALE A LUI"). E ora c'è qualcosa di sconvolgente. "L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne". E' il superamento della cultura patriarcale: incredibile, se pensiamo al tempo e al contesto, se pensiamo che gli Ebrei erano un popolo di pastori nomadi, che conducevano vita comunitaria all'interno di grandi strutture familiari/tribali, in cui diverse generazioni erano sottoposte all'autorità permanente di un patriarca, (maschio), con la pratica corrente della poligamia e degli "amori ancillari", mille miglia lontano dalla "famiglia nucleare" moderna. Nonostante ciò, già qui all'inizio della Genesi la donna ha un suo ruolo "superiorem non recognoscens": non si aggiunge, in posizione subordinata, a un clan, non si pone come membro periferico in una struttura preesistente e verticistica; la nuova coppia potrà anche, concretamente, continuare a vivere nella tribù, con tutti i legami di interdipendenza e con il sacro rispetto per i genitori, ma spiritualmente l'uomo e la donna, con la loro unione, aprono un mondo nuovo, appartengono solo a se stessi, rinnovano il momento della Creazione.

E il culmine della libertà e della dignità individuali è lo scontro con il Male, la battaglia che l'uomo deve intraprendere contro la tentazione, cioè contro un altro aspetto di se stesso. Perde; ma è il prezzo da pagare per non essere un pupazzo teleguidato su una via già fatalisticamente tracciata.

Passiamo rapidissimamente (questa non è una trattazione, è solo un'esemplificazione) al Nuovo Testamento. In esso, l'argomento forse più ricorrente è quello ("laico") della polemica contro i Farisei, contro i formalisti dogmatici, contro i puntigliosi esecutori di prescrizioni che avevano dimenticato il senso dell'umanità, che cercavano la sicurezza nell'osservanza letterale perché si ponevano di fronte al Testo ma non di fronte alla propria coscienza. E pare proprio che, nel Vangelo, Gesù non faccia altro che spiazzarli, disorientarli, confondere le loro certezze, proporre loro un mondo alternativo: quello della Libertà, quello in cui la verità morale non è data una volta per tutte ma va ricercata "laicamente", reinventata ogni volta.

Ed ecco come. Egli ridimensiona in un colpo solo, paradossalmente, tutte le prescrizioni di quel Libro che pure dichiara di non contestare neppure in una virgola: "Ama Dio e ama il tuo prossimo. In queste parole ci sono tutta la Legge e tutti i Profeti". Fa capire che non si può giudicare in astratto, obbedendo alla lettera della legge, senza capire simpateticamente la realtà della condizione umana: salva l'adultera (pur senza glorificare l'adulterio) richiamando i suoi persecutori alla coscienza. Parla con la Samaritana e con l'emorroissa (impura!), propone come esempi il centurione romano, il Samaritano, il "buon ladrone", si accompagna con prostitute, con pubblicani, con bambini; tutte categorie "out", da tenere alla larga, per la morale ufficiale del tempo. Invita persino a non tener conto del Sabato, se è in gioco la vita, non di un uomo, ma di un animale! Mostra, con il Buon Pastore, con la parabola della vigna, con l'unguento sparso sui suoi piedi da Maddalena, che le scelte morali non si fanno attraverso un banale schema aritmetico o economico, attraverso una casistica da consultare meccanicamente. Si avvicina al paralitico, che, pur Ebreo, era andato al tempio di Esculapio [ accanto alla "piscina probatica" della quale soltanto, pudicamente, parla l'evangelista: dati archeologici incontestabili ] , perché non si scandalizza se l'uomo, nella disperazione, si allontana da Dio; entra nel tempio pagano, riporta l'uomo alla Grazia ("Ti sono perdonati i tuoi peccati"), e poi, solo dopo, di fronte all'incredulità e allo scandalo degli altri, dà una prova che quanto ha detto è vero, e dice "Alzati e cammina". E infine, di fronte alla realtà dell'ingiustizia, del dolore, del Male, non dice agli uomini "eseguite questi ordini e non preoccupatevi d'altro": dà l'esempio di come si può essere sconfitti, di come si soffre e si muore, di come ciascuno debba affrontare la sua croce (le sue responsabilità), con tutti i dubbi e le angosce che ciò può comportare, nell'orto degli Ulivi o altrove.

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Tutto ciò non solo serve a fondare la più umanistica delle religioni, ma apre la via a una storia successiva di incoraggiamento alla libertà di pensiero (sia pure attraverso una strada non rettilinea). Anche perché, fin dall'inizio, il Vangelo si è trovato a fare i conti con il razionalismo della filosofia classica, oltre che con la mentalità giuridica romana e le istituzioni dell'Impero; non è stato quindi stravolto in senso integralista, ha dovuto accettare il confronto e la sfida, ha usato gli strumenti intellettuali di Platone e Aristotele, ha posto al centro la Fede ma ha cercato di dare alla ragione umana tutto lo spazio possibile e un po' di più; la teologia medievale avrà anche disputato, talora, sul sesso degli angeli, ma la sua missione è stata quella di dimostrare la intelligibilità, la razionalità, la concordanza del messaggio divino con le leggi della natura e della logica. Il punto più alto di questa aspirazione è forse il canto XXXIII del Paradiso di Dante, lo sforzo titanico del Poeta che non si accontenta di dire "ho visto Dio, ma è top secret, ho già raccontato abbastanza, arrivederci e grazie", ma tende il suo ingegno fino allo spasimo per dare una rappresentazione fisica, geometrica, dinamica e coloristica (quindi intelligibile) dei supremi misteri, Trinità e Incarnazione; e vede in qualche modo, nel cuore "geometrico" della Trinità, l'immagine umana [mi piace pensare all'"uomo vitruviano" di Leonardo, quello sulla moneta da 1 euro]: come se Dio, dopo l'esperienza dell'incarnazione, ne portasse per sempre il segno. Più "umanesimo" di così!

E non è finita, perché anche in seguito, fino ad oggi, è proseguita la dialettica fede/ragione ; chi era dalla parte della Fede ha sempre, fino all'ultima enciclica papale sull'argomento, cercato di mostrare l'attendibilità della Fede alla luce della Ragione, la mancanza di contraddizioni, il minimo scarto necessario per completare con la fede un panorama razionale di per sé convincente e valido. Persino nel processo a Galileo i suoi giudici non si accontentarono di opporgli la Scrittura, ma si arrabattarono anche in dispute strettamente astronomiche (con buoni argomenti, tra l'altro); e le opposizioni cristiane a Darwin e a Freud sono ormai ampiamente superate, tranne che per pochi fondamentalisti. La ripartizione dei campi tra religione e politica, religione e scienza, religione e Stato è ormai un dato acquisito, ed è uno dei valori fondanti e caratterizzanti della nostra civiltà. La Chiesa ha attraversato fasi di oscurantismo e di reazione, è stata condotta attraverso la Storia da uomini immersi nella Storia, con tutti i condizionamenti e i limiti che ciò comporta, porta ancora il peso di gravissime responsabilità che hanno indotto il suo Capo a chiedere perdono; ma i suoi apporti alla civiltà e alla coscienza occidentale sono determinanti, ineliminabili e ancora fecondi. Per questo, come affermava il tanto citato ma non altrettanto compreso Benedetto Croce, noi occidentali, anche se personalmente atei, "non possiamo non dirci cristiani".

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Ma se, dopo queste premesse, rivolgiamo lo sguardo all'Islam, ci rendiamo conto di quali siano le distanze. Non uno dei valori su indicati (e degli altri valori elaborati e sviluppati dall'Illuminismo in poi) può essere classificato come proprio dell'Islam, anzi è vero esattamente l'opposto. E ciò vale sia per i concetti specificamente religiosi, sia per quelli culturali, sia per le concezioni giuridiche e politiche che nell'Islam fanno tutt'uno con la religione. Sarebbe possibile, ma troppo lungo, e sproporzionato ai fini del presente discorso, affrontare una disamina approfondita su ciascuno dei punti; accontentiamoci di passarli in rassegna con qualche riferimento e commento/flash.

Umanesimo: zero, l'uomo è incommensurabilmente distante da Dio, e gli si richiede solo la sottomissione incondizionata (evidenziata anche dalla postura nella preghiera, che i Greci chiamavano proskunhsiV).

Spirito critico: zero, il dogmatismo è assoluto, il Corano va appreso "verbatim", parola per parola, in arabo, a memoria.

Laicità della società e dei costumi: zero, la religione islamica è totalitaria per definizione e convinzione, occupa tutti gli spazi intellettuali, morali, politici, economici, sessuali, ecc. della vita.

Laicità dello Stato: zero, anzi, lo Stato non dovrebbe neanche esistere, l'unica istituzione dovrebbe essere il Califfato religioso universale.

Parità uomo/donna: meno che zero, le donne forse non hanno nemmeno l'anima (Maometto lasciò la questione in sospeso ma inclinando verso il no perché non parlò mai di un Paradiso femminile), in Arabia Saudita le donne non possono guidare l'auto perché, udite udite, "una COSA non può guidare un'altra cosa", e Mohammed Atta, il capo dei terroristi dell'11 settembre, lasciò scritto nel testamento che alle cerimonie per festeggiare la sua morte non avrebbe voluto nessun essere impuro, né un cane né una donna.

Democrazia: zero, è blasfemo che gli uomini vogliano fare le leggi da sé, in un Parlamento, quando è già tutto previsto e preconfezionato nel Corano.

Individualismo e diritti dell'uomo: zero, l'individuo non conta nulla, deve fondersi nella Umma dei credenti e agire solo in quanto suo membro, ubbidendo "perinde ac cadaver" a un qualunque mullah o imam ispirato da Dio che ordina di andare ad assassinare qualcuno; le scelte personali sono limitatissime, il destino è scritto, e l'individualismo è visto come una delle caratteristiche diaboliche dell'Occidente.

Pluralismo: zero, la Verità è una sola, le opinioni divergenti sono apostasia e vanno perseguite (molto, molto severamente).

Pace: zero, il mondo è diviso tra la Casa dell'Islam e la Casa della guerra, la pace ci sarà solo quando tutto il pianeta sarà Casa dell'Islam, nel frattempo c'è posto solo per eventuali tregue tattiche, per ingannare il nemico (e per i wahabiti, cioè per i sauditi e per gli allievi delle loro infinite madrasse nel mondo, la guerra va portata non solo contro gli idolatri, cioè animisti, induisti, confuciani ecc., ma anche contro le "religioni del Libro", Ebraismo e Cristianesimo, ai cui seguaci Maometto aveva riservato uno status di cittadini di serie B, ma tollerati).

Libertà di parola, di opinione, di stampa ecc.: zero. Dalla condanna a morte decretata (e mai ritirata) contro Salman Rushdie all'assassinio, eseguito in questi giorni, del regista olandese Van Gogh, c'è un filo coerente. Una parola che a loro non garbi, e subito i signori "si offendono". Delle nostre libertà di espressione, di ricerca, di polemica, di satira, di confronto, non vogliono sapere nulla; insultano tranquillamente, con i termini più ingiuriosi, gli "infedeli", e quando poi uno di essi sfiora un argomento sgradito, o pronuncia un giudizio (fondato) sul loro conto, ecco che scatta il precetto dell'assassinio, comandato dal primo che apre bocca, eseguibile da chiunque, nel modo più vile, con l'approvazione imperturbata di un miliardo di persone ("Ma aveva offeso l'Islam!").

Rispetto della vita umana: zero, cominciando dai bambini anti-mine di Khomeini e arrivando ai cosiddetti kamikaze e agli sgozzatori il cui operato è approvato al 94% nel mondo arabo (fonte: Al Jazeera). C'è una vera e propria "cultura della morte", specialmente nel mondo sciita ma anche, e abbondantemente, in quello sunnita.

Arte: potenzialmente zero, non solo per il discorso sulla censura e sull'intolleranza, ma nel senso che anche ciò che è concesso, dallo spettacolo musicale, teatrale, cinematografico e televisivo alle arti visive in genere, è sotto la spada di Damocle dell'integralismo e potrebbe essere revocato da un momento all'altro, come sotto i Talibani ( i Buddha distrutti a cannonate e i musei devastati restano un monito severo).

Progresso: zero, perché, a parte l'uso delle Mercedes e dei kalashnikov inventati e realizzati da altri, non c'è impulso verso la ricerca, non vale la pena di impegnarsi in questo mondo per cose diverse dalla guerra santa (e infatti il bilancio della produttività scientifica nel mondo islamico è desolante, anche a livello di conoscenze, traduzioni, divulgazione, ed è paragonabile solo a quello dell'Africa nera). E si potrebbe proseguire.

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A tutto ciò, per marcare conoscitivamente le distanze e inquadrare correttamente la situazione, bisogna aggiungere tre considerazioni:
sull'avversione, l'odio e i propositi di sopraffazione nei confronti del mondo "occidentale";
sul perché di questo mix tra arretratezza e violenza;
sulla mancanza di un Papa e di una gerarchia religiosa ufficiale.

Per quanto riguarda l'avversione, essa è stata spiegata da molti studiosi (B. Lewis, per fare un nome fra tanti) con la frustrazione conseguente al fatto che la civiltà occidentale, pur essendo agli antipodi di quella islamica e quindi del volere di Dio, ha surclassato in tutti i campi il mondo musulmano. Quei Paesi che hanno tentato una loro via alla modernizzazione, nazionalista o panarabista o socialista o liberista, hanno fallito, anche perché travolti da un incremento demografico esponenziale e volutamente incontrollato, anzi incoraggiato. Resta quindi solo il rancore contro l'Occidente, l'odio sordo e viscerale, rafforzato dalla [inconfessata] appetibilità dei modelli di vita da esso proposti, dalla persuasione (spontanea e indotta) che la povertà e i fallimenti dipendono dal colonialismo e da Israele, dalla oggettiva inconciliabilità religiosa e ideologica.

Una parte non trascurabile delle cause dell'avversione, però, specialmente per le imponenti comunità ormai insediate in Europa, viene anche dal giustificazionismo di varie parti politiche europee, che chiudono gli occhi e le orecchie così di fronte ai progetti planetari del fondamentalismo aggressivo come di fronte all'atrocità dei "metodi", non vogliono leggere i nudi dati numerici che indicano l'adesione di massa al terrorismo (intorno al 50%, e l'altro 50% risulta passivo e silenzioso), e trovano argomenti per minimizzare le minacce, ribaltare le colpe e aggredire masochisticamente il mondo in cui vivono così bene (vorrei vedere come si troverebbero "là": anzi, la storia l'ha già fatto vedere). E' come se, tre quarti di secolo fa, gli europei avessero detto [e lo dissero, purtroppo…] "Ma sì, questo Osadolf Bin Hitladen è solo un pazzo isolato, i suoi seguaci sono pochi, lui non rappresenta certo i Tedeschi, che sono brava gente, hanno solo intenzione di lavorare e basta; e poi, tutto sommato, se qualcuno di loro è un po' vivacetto è colpa nostra, li abbiamo umiliati a Versailles, abbiamo tolto loro porzioni di territorio, li abbiamo ridotti in condizioni economiche precarie nonostante il loro sia un Paese potenzialmente ricco, li teniamo sotto stretto controllo militare impedendo al loro esercito di dotarsi delle armi più potenti e aggiornate… In fondo, se permettessimo loro di soddisfare alcune "piccole" rivendicazioni, poi si calmerebbero e sarebbe tutto OK".

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Seconda considerazione, molto personale stavolta, sul perché di questo particolare legame tra l`arretratezza e la violenza, vista, quest'ultima, come unico mezzo di autorealizzazione individuale e collettiva.

Ebbene, a mio parere una delle spiegazioni, e non la meno valida, sta nell'avvilimento della donna nella cultura e nella società musulmana; avvilimento che non sto ora a illustrare in dettaglio, ma che può essere negato solo da chi è in mala fede o da chi dà alle parole un altro significato. La conseguenza non è solo quella di esaltare, per contrasto, le qualità "virili" e quindi, sostanzialmente, belliche o comunque violente. Anche ai tempi della Cavalleria feudale europea i ruoli tra i due sessi erano molto distinti e i valori militari, per gli uomini, erano esaltati. Ma c'è una differenza essenziale. All'interno della Cavalleria fu elaborata l'ideologia dell'"amor cortese", un elegante gioco di società in cui la "dama" veniva posta su un piedistallo, il cavaliere si inginocchiava davanti a lei, trasferiva su di lei il rispetto feudale per il suo superiore gerarchico più una forma di venerazione semi-religiosa, cercava di corteggiarla ma con assoluto rispetto, proclamando di aspirare al rapporto più platonico, a un sorriso, a uno sguardo, le dedicava i pensieri, la vita, le imprese, gli avversari vinti. Era un gioco di società, di "corte", appunto, o di letteratura; nessuna rivoluzione effettiva nella struttura sociale e nella sovrastruttura giuridico-istituzionale; ma c'era una conseguenza importantissima, l'"ingentilimento"dei costumi. Il cavaliere che aspirava al gradimento da parte della Dama cercava di esserne degno, di farsi apprezzare, e non tanto per i muscoli e l'abilità nei tornei; era indotto a sviluppare abilità e qualità diverse, ad arricchirsi culturalmente e spiritualmente, a diventare sensibile, galante, elegante, corretto, pronto e attento ai desideri della Dama, conoscitore di poesia, musica, ballo, magari anche stoffe e moda, buon conversatore e intrattenitore, diplomatico, spiritoso, intelligente, all'occorrenza saggio e un po' filosofo, e poi fedele, virtuoso, sincero, leale, disposto al sacrificio personale, buon cristiano, esperto di araldica, di regole cavalleresche, di "galateo" ante litteram, ecc. ecc…. Insomma, quello che poi sarebbe diventato il modello del Cortegiano di Castiglione o quello che avrebbe voluto essere Don Chisciotte.

Questo modello, dall'aristocrazia, si estese per imitazione anche alle classi medie (basti pensare alla civiltà comunale e al Dolce Stil Novo); e col tempo, abbassando gli standards esteriori ma arricchendosi, in cambio, di sostanza, contribuì a formare l'uomo moderno occidentale, che vuole realizzarsi nella vita anche per rendersi più desiderabile agli occhi di una donna, della sua Dama. Non la tratta quindi come un animale da cortile, perché avvilirebbe anche se stesso, e per poterle offrire il massimo cerca il successo nella vita civile, al di fuori della violenza e delle armi, che restano il mestiere degli specialisti o la necessità di momenti estremi; sa bene che, quale che sia la sua attività, il suo comportamento sarà giudicato da occhi di donna, le sue parole saranno ascoltate da orecchie di donna. E' uno stimolo formidabile, che non può certo determinare una vocazione ma dilata, potenzia, finalizza le ambizioni e le attività. Mi viene in mente la bellissima battuta di Susan Sarandon in un film appena uscito, "Shall we Dance?": "Ci si sposa per avere un testimone. Sì, per avere un testimone, perché ogni atto della propria vita non sia insignificante, ma abbia valore agli occhi dell'altro". E' una affermazione del più vero e grande Umanesimo.

Ma una civiltà duramente e rozzamente maschilista non può avere questi sviluppi, rimane imprigionata negli stereotipi tribali e patriarcali, non ha la curiosità e lo stimolo del nuovo, della sfida a se stessi, finisce con il ripiegare e col perdere terreno nell'economia, nella tecnologia, nelle scienze umane, in tutti i campi; e allora restano solo la frustrazione, l'odio, il rancore, l'appello a versare il sangue altrui e proprio.

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Troppo soggettivo? Può darsi. Passiamo allora a qualcosa di più fondato e sostanzioso: la mancanza nell'Islam (in particolare in quello sunnita) di un "papa" e di una gerarchia "consacrata", cioè, etimologicamente, "separata" dal corpus dei fedeli.

Certo, un "papa" e un clero qualitativamente diverso dal laicato mancano anche nelle confessioni cristiane protestanti; ma la loro mancanza è origine di conseguenze e problemi ben più gravi nell'Islam, in combinazione con la sua natura e caratterizzazione totalitaria, pervasiva di ogni aspetto della vita individuale e sociale, e per di più fortemente legata al rito, alla prescrizione, all'apprendimento mnemonico, all'obbedienza letterale e acritica.

Provo a spiegare il perché. Nel Protestantesimo, la fede religiosa si è orientata fin dall'inizio in un senso che potremmo definire, a posteriori, "kantiano": pochi grandi princìpi, pochissimi dogmi, pochissime regole, e, per il resto, per le scelte concrete di vita, di morale, di politica, ci si affida al foro interiore, alla voce della coscienza, al messaggio evangelico, alla propria libertà e responsabilità; il pastore può essere un consulente, una guida, ma non il fornitore autorizzato ed esclusivo della Verità e della Grazia. Il Cattolicesimo prevedeva e prevede, invece, una Autorità teologica e normativa, per disciplinare fede e morale; ma negli ultimi secoli e decenni ha intrapreso un graduale cammino di sganciamento dagli aspetti più rigidi del dogma e della prescrizione, e lo ha potuto fare perché una gerarchia colta e responsabile si è resa conto che, dopo l'Illuminismo, il Romanticismo, la rivoluzione industriale, la sfida marxista, occorreva un cambiamento. Basti pensare al concilio Vaticano II, al dibattito Fede – Ragione (con il riconoscimento dei diritti di quest'ultima) nell'enciclica papale, al fatto che anche nei dibattiti su bioetica, famiglia, scuola e altri punti sensibili, i cattolici ricorrono ad argomentazioni razionali e non all'"ipse dixit" per sostenere i loro valori e le loro proposte; basti pensare alla nascita, in Italia, Germania, Belgio e altrove, di partiti politici dichiaratamente cattolici ma perfettamente compatibili con lo Stato laico, anche quando assumono il potere; basti pensare alla varietà degli atteggiamenti culturali, dottrinali, pastorali e anche politici tra il clero; e tutto questo, ripeto, con l'avallo di una gerarchia che, pur con la tradizionale prudenza e con gravi ritardi, ha legittimato agli occhi delle masse il cambiamento. Molto resta ancora da fare e da cambiare, ma la speranza c'è, ed è fondata.

L'Islam, in un ipotetico confronto intellettuale (prescindendo cioè, per un momento, dal dato storico e cronologico), poteva scegliere tra due impostazioni: o dotarsi di una struttura dottrinale dogmatica, prescrittiva, dettagliata nell'elencare ordini e divieti e rigida nel pretenderne l'osservanza, ma affidandosi in questo caso a una gerarchia salda, autorevole, autorizzata e "specializzata" che potesse interpretare i testi e adeguare la pratica religiosa all'evoluzione culturale e sociale; oppure, poteva fare a meno della gerarchia, ma in questo caso limitandosi ad affermare la fede in un Dio unico, spirituale, creatore, provvidente, a proclamare i valori morali fondamentali (un Decalogo e poco più), lasciando poi all'intelligenza e alla responsabilità del credente l'adattamento di credenze e valori alle situazioni storiche concrete.

La scelta di Maometto (ammesso e non concesso che si sia mai posto il problema in questi termini) è stata invece quella di fondare una religione rigida, vincolante, minuziosa nel definire le pratiche esteriori, gli obblighi e i divieti, in modo da privare il singolo credente di ogni autonomia (Islam, come è noto, vuol dire "sottomissione integrale"); ma la responsabilità sottratta al credente non è stata attribuita a un organismo, a una struttura, a una persona, a una gerarchia. Chi comanda, chi giudica, chi decide, è il Libro: scritto una volta per tutte, con quelle parole, quella lingua, quei caratteri grafici, indiscutibile e immodificabile. La convinzione di essere nel giusto è inversamente proporzionale alla distanza dalla lettera del Corano: chi cerca di esplorare nuove possibilità di intendere il testo sarà subito ridotto al silenzio (in più di un senso) da chi gli opporrà la nuda e cruda citazione, senza ragionare.

In tutto il mondo islamico, quindi, non c'è nessuno che possa prendere l'iniziativa di un cambiamento o legittimarlo: chi ci provasse, ripeto, sarebbe identificato come apostata e trattato di conseguenza . L'iniziativa di Kemal Ataturk si è sviluppata in circostanze eccezionali, ha eretto confini e limiti all'invadenza religiosa nella società più che riformare la religione, non ha avuto imitatori , ed è apparsa, più di una volta, a rischio. Ci sono stati "movimenti" dottrinali, salafiti, wahabiti, fratelli musulmani (senza contare la secessione sciita, originata però da motivazioni dinastiche); ma in una sola direzione, l'unica possibile, all'indietro. Se per caso si determinava un allentamento di fatto della disciplina, un relativo e parziale adeguamento alle esigenze di una nuova realtà e dei rapporti con altri popoli, esso avveniva in modo empirico, quasi alla chetichella, approfittando della "distrazione" di chi si autonominava guardiano dell'ortodossia. Appena la "distrazione" veniva meno, qualche infiammato tribuno saltava su gridando alla corruzione, al tradimento, all'apostasia, o, nel migliore dei casi, allo scadimento dell'obbedienza e dell'identità islamica: ragion per cui, dietro front, torniamo alla Lettera. Tutto qui. Niente di paragonabile all'evoluzione teo – LOGICA del Cristianesimo, dai Vangeli ai Concili, dalla Riforma protestante a Maritain o a Ratzinger; niente di paragonabile alla dialettica tra Grazia e Libertà, Provvidenza e responsabilità umana, Eternità e Storia, Legge e coscienza; niente di paragonabile con l'approccio ebraico, che, pur nella fedeltà alla Legge e ai Profeti, ha saputo accettare la modernità, di cui anzi gli Ebrei sono diventati grandissimi protagonisti.

Tutto questo spiega anche perché l'elenco degli "zeri", cioè dei giudizi negativi sulla cultura islamica presentato poco sopra, risulti purtroppo realistico e non esagerato, nonostante la sua drasticità. E' vero che esso sembra redatto assumendo come termini di riferimento le posizioni più arretrate ed estreme tra quelle riscontrabili nel mondo islamico; ma è altrettanto vero che, in assenza di una forte e credibile autorità riformatrice, legittimata dal punto di vista religioso a interpretare il Corano e a intervenire sulla dottrina, sulla morale, sui costumi, queste posizioni non possono evolversi; il cammino in avanti è sempre precario e rischioso, la ricaduta all'indietro sempre pronta e vincente, in ogni momento e situazione. L'intellettuale musulmano potrà anche, personalmente, seguire un "credo" più liberale, ma di fronte al mullah o all'imam che urla parole di fanatismo irriducibile alla ragione, di odio, di istigazione all'assassinio, rimane silenzioso (a meno che non si chiami Magdi Allam: ma è un esempio isolato, e paga il suo coraggio con la necessità della scorta). E forse, di fronte al mullah o all'imam di cui sopra, l'intellettuale che non si chiami Magdi Allam sente persino un senso d'inferiorità, pensa "lui è più musulmano di me, più sottomesso ad Allah, più credente, più coerente". Chissà. Quello che è certo è che preferisce rivolgersi agli occidentali, disapprovando il fanatismo e le atrocità in modo estremamente garbato, sfumato, circospetto e frettoloso, e cercando di spostare il discorso, di relativizzare, di minimizzare, di giustificare, di difendere (Tarik Ramadan e Tahar Ben Jelloun, tanto per non far nomi). Se l'intellettuale avesse una "sponda" ufficiale, riconosciuta, obbedita nel mondo religioso, la situazione potrebbe aprirsi a sviluppi positivi; ma non è così.

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L'Islam, in conclusione, risponde a ogni sollecitazione positiva della storia e delle altre culture arroccandosi nel passato, in un passato che fonde e blocca in un abbraccio mortale la lettera del Corano e la società tribale, patriarcale, maschilista e sanguinaria nella quale esso è nato, mantenendo in modo incancellabile questa impronta arcaica e feroce sui comportamenti attuali. La sua apparente "democraticità", la mancanza di un Papa o di un concilio dei vescovi con autorità teologica e normativa, lo condanna di fatto a una perpetuazione acritica, letterale, mnemonica, prescrittiva del Testo, e ne impedisce ogni interpretazione filologica, storica, evolutiva, ogni adattamento ai nuovi valori elaborati dalla coscienza dell'umanità. La società è bloccata dalla religione; la religione è bloccata da se stessa.

Qualcuno si illude che una evoluzione, basata sulla separazione tra religione e istituzioni civili, possa venire dall'influsso delle comunità islamiche dei Paesi occidentali, abituate a vivere l'Islam in posizione minoritaria e quindi come fatto individuale, di coscienza; ma la speranza è infondata. I musulmani di casa nostra rafforzano la loro identità e il loro integralismo nel contatto con gli "infedeli", e si collocano come comunità in posizione non di dialogo ma di silenziosa attesa. Senza contare che, grazie all'attivismo e ai finanziamenti di Riad, la formazione religiosa è in mano ai wahabiti, che estendono così la loro influenza sugli immigrati da Paesi di altre e meno estreme tradizioni.

E' vero che in Europa vivono anche uomini di cultura i quali, a parte la prudenza con cui affrontano il terrorismo e altri punti "caldi", presentano la possibilità di una conciliazione tra Islam e razionalità, Islam e modernità, Islam e democrazia, Islam e Occidente. Ma i loro appelli sbagliano il destinatario, perché sono rivolti a noi occidentali, e soprattutto non affrontano il nocciolo duro della questione, cioè le inconciliabilità esistenti e le profonde riforme dottrinali necessarie affinché l'Islam possa costruirsi una sia pur limitata piattaforma di valori comuni con quelli occidentali; con la dissimulazione delle difficoltà, la superficiale cosmesi ideologica e l'irenismo non si va lontano, e questi intellettuali (v., ad es., i nove del libretto "Lumi dell'Islam", ed. Marsilio) finiscono con l'assomigliare ai "socialisti utopisti" derisi da Marx, che rimproverava loro di teorizzare un mondo nuovo senza aver capito il funzionamento del vecchio e senza aver pensato a una strategia plausibile per il suo superamento.

Cambieranno mai strada, il che richiederebbe loro anche la coraggiosa accettazione di gravi rischi personali? Vorranno provare a parlare, in arabo, ai correligionari, a organizzare movimenti culturali ma anche politici e sociali per quella riforma dell'Islam che per ora esiste solo nelle loro menti? Vorranno combattere contro il pregiudizio, l'oscurantismo, il vittimismo, il rancore, l'odio, le rivendicazioni assurde e antistoriche? Chissà. Chissà se si rendono conto che sarebbe l'unica via d'uscita, per quanto stretta, dal baratro cieco e folle dell'Islam radicale, e che questo compito storico spetta a loro, li interpella direttamente, uno per uno. Potrei dire, parafrasando da altra fonte: "Se non loro, chi? Se non ora, quando? Se non così, in quale altro modo?". Certo, non saranno aiutati né incoraggiati da chi, facendo parte dell'Occidente, si sgola e si sbraccia per solidarizzare con l'Islam attuale, così com'è, e per giustificarlo anche nelle "espressioni" più estreme e atroci; e, mentre si dimostra così sensibile, suscettibile e ombroso da denunciare con indignazione ogni sfumatura di reazione discriminatoria alle imprese dei terroristi, si impone e impone agli altri di avere pelle di rinoceronte, tappi nelle orecchie e fette di salame sugli occhi di fronte alla realtà scoperta e proclamata dei loro fini, dei loro programmi, del loro attuale e crescente radicamento nella coscienza e negli entusiasmi delle masse. Gli intellettuali musulmani dovrebbero sconfessare questi finti amici, farsi paladini delle verità più sgradevoli contro le menzogne interessate, seguire l'esempio morale, culturale e civile di Magdi Allam, demolire i miti rovinosi del fanatismo. Altrimenti, più tempo passerà in questa situazione, più salato sarà il prezzo da pagare. Per tutti.

Bruno di Mauro 06 / 11 / 2004.