Dibattito
dopo la lectio di Benedetto 16° a Ratisbona
tra Alessandro Marinetti , cattolico
e
Aref Ali Nayed, musulmano

tratto da www.chiesa.espressonline.it -di Sandro Magister

Il testo della lectio del papa all'università di Ratisbona

Aula Magna dell’Università di Regensburg Martedì, 12 settembre 2006
Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni.

Illustri Signori, gentili Signore! È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.

Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le "tre Leggi": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.
Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura del dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema. Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād (guerra santa). Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava". L'imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (σὺν λόγω) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…". L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.

Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso?

L'ellenizzazione del cristianesimo

Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.

In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.

Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano è λογικὴ λατρεία – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).

Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.

La dis-ellenizzazione del cristianesimo

Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra. La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento. Non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico o cartesiano.

Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione.
Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità.
Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione.
Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale.
È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.

Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.

Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati.
L’ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.

Il dialogo fra culture e religioni

Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture.
E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia.
Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere.
Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".
L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza
– è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione (con il logos) è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori.
Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.

 

Chiesa e islam. A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo

Dopo la bufera, dal mondo musulmano vengono anche segnali di discussione “secondo ragione”. Un dotto botta e risposta tra il cattolico Martinetti e il teologo musulmano Aref Ali Nayed. E il cardinale Bertone scrive...

di Sandro Magister -www.chiesa.espressonline.it


ROMA, 30 ottobre 2006 – L’effetto Ratisbona ha ogni giorno nuovi sviluppi. Dopo la bufera seguita alla “lectio” di Benedetto XVI del 12 settembre si moltiplicano dentro il mondo musulmano le risposte pacate e ragionate agli argomenti del papa. La “lettera aperta” al papa di 38 leader e studiosi musulmani è stato sin qui il segnale più rilevante di questa nuova attenzione da parte del mondo islamico.
Ma prima e dopo questa lettera vi sono stati altri interventi di rilievo.
La prima è stata l' approfondita analisi da parte di un filosofo e teologo musulmano della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona . [ la trovi qui]
Ma il commento di Aref Ali Nayed, successivamente ripubblicato in forma integrale in un sito islamico inglese, ha avuto un seguito.
Ad alcuni passaggi dell’esposizione di Aref Ali Nayed ha replicato uno studioso cattolico italiano esperto in filosofia e teologia medievale, Alessandro Martinetti, di Ghemme in provincia di Novara.
Martinetti ha insistito in particolare sul rapporto tra Dio e la ragione, e sulla radicale diversità di questo rapporto nell’islam e nella dottrina cattolica.


Arbitrio o Logos? Il Dio dell’islam e quello cristiano
di Alessandro Martinetti

Il commento di Aref Ali Nayed alla “lectio” di Benedetto XVI a Ratisbona stimola alcune riflessioni, in particolare a proposito del rapporto tra Dio e ragione.

Scrive Nayed:

“La ragione è un dono di Dio che non può essere al di sopra di Dio. Questo è il punto centrale di Ibn Hazm; un punto che è stato parafrasato in forma mutilata dalle dotte fonti di Benedetto XVI. Ibn Hazm, come i teologi Ashariti con i quali spesso polemizzava, insisteva sull’assoluta libertà dell’agire di Dio. In ogni caso Ibn Hazm riconosceva, come molti altri teologi musulmani, che Dio sceglie liberamente, nella sua compassione verso le sue creature, di agire ragionevolmente in coerenza con se stesso, così che noi possiamo usare la nostra ragione per allineare noi stessi alla guida e agli ordini di Dio. "

“Ibn Hazm, come molti altri teologi musulmani, teneva fermo che Dio non è esternamente vincolato da niente, nemmeno dalla ragione. Comunque, in nessun punto Ibn Hazm sostiene che Dio non impegna se stesso liberamente e non onora questo suo impegno. Questo divino libero autoimpegnarsi è detto nel Corano ‘kataba rabukum ala nafsihi al-Rahma’ (il tuo Dio ha impegnato se stesso alla compassione). La ragione non deve essere al di sopra di Dio, né essere esternamente normativa per lui. Può essere normativa solo per grazia di Dio, a motivo del libero impegnarsi di Dio stesso ad agire in coerenza con sé. "

“Per credere in quest’ultima proposizione non c’è bisogno di essere irrazionali o irragionevoli, con un Dio irrazionale o bizzarro! Il contrasto tra cristianesimo e islam su questa base non solo è ingiusto, ma anche equivoco.

“Non c’è dubbio che il papa si sforzi di convincere una università laica che la teologia ha un posto in un contesto basato sulla ragione. Tuttavia, questo non dovrebbe arrivare fino al punto di assoggettare Dio a una ragione che lo vincoli dall’esterno. La maggior parte dei grandi teologi cristiani, compreso l’amante della ragione Tommaso d’Aquino, non hanno mai posto la ragione al di sopra di Dio."

A giudizio di Nayed, dunque, san Tommaso “non ha mai posto la ragione al di sopra di Dio”. Ma evitare di porre la ragione al di sopra di Dio non è ritenere, come invece Nayed fa, che questa mancata sovraordinazione della ragione a Dio autorizzi ad affermare che “Dio non è esternamente vincolato da niente, nemmeno dalla ragione” e che la ragione “può essere normativa solo per grazia di Dio, a motivo del libero impegnarsi di Dio stesso ad agire in coerenza con sé”.

San Tommaso non avrebbe mai sottoscritto queste affermazioni, anzi le contrastò vigorosamente. E con lui non le sottoscrive ma le contrasta il magistero cattolico. Il quale respinge pertanto la rappresentazione di un Dio che “sceglie liberamente, nella sua compassione verso le sue creature, di agire ragionevolmente in coerenza con se stesso, così che noi possiamo usare la nostra ragione per allineare noi stessi alla guida e agli ordini di Dio”.

Se affermare che la ragione non è normativa per Dio, e che Dio è coerente con sé stesso solo per scelta sovranamente libera e non esternamente vincolata alla ragione, equivale ad affermare – come mi pare Nayed faccia – che Dio potrebbe esistere ed agire in spregio alla ragione se solo lo volesse con atto di sovrana illimitata libertà, allora è opportuno precisare che Tommaso, e con lui il magistero cattolico, rigetta tale convinzione, scorgendovi un volontarismo irrazionalistico incompatibile con la retta ragione e con la fede cattolica, come il papa stesso rimarca nella “lectio” di Regensburg:

“Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la ‘voluntas ordinata’. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive.”

Qui sta parlando non il Ratzinger teologo impegnato – come molti hanno sostenuto – nell’illustrare sbrigliate e audaci posizioni teologiche autorevoli quanto si vuole ma pur sempre personali, bensì papa Benedetto XVI, il quale dottamente non fa che ribadire contenuti consolidati della dottrina cattolica, enunciati in termini identici da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et Ratio” del 1998. Nella quale si proclama il valore universale di alcuni principi razionalmente conoscibili e applicabili, tra cui il principio di non contraddizione: principio che è universale – trascendentale, direbbero i filosofi – appunto perché nemmeno Dio può derogarvi:

“In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell'essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio” (“Fides et Ratio”, 4).

Non meno limpido ed eloquente è questo passaggio della costituzione dogmatica sulla fede cattolica del Concilio Vaticano I “Dei Filius” (IV, DS 3017), citato con palese approvazione in “Fides et Ratio” al paragrafo 53:

“Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione; questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero”.

Il Magistero insegna dunque che Dio non può esercitare la propria libertà in modo contraddittorio, cioè totalmente sganciato dai principi della ragione: ai quali non si assoggetta per arbitrario decreto, ma perché egli stesso è fondamento non contraddittorio di tutto ciò che esiste. Un Dio che potesse violare il principio di non contraddizione come, quando e se vuole potrebbe indifferentemente essere amore e non amore, creatore misericordioso e carnefice sadico ed efferato, il quale impartisce un comando e poi può discrezionalmente castigare e dannare chi obbedisce al comando: una sfinge indecifrabile, volubile e potenzialmente nemica dell’uomo. Un pericoloso autocrate onnipotente che, come il papa ha evidenziato a Regensburg, “non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola”, poiché “niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria”.

Il Dio annunciato dalla Chiesa cattolica è invece – e non può che essere – sempre e soltanto buono, datore di vita e di amore, redentore e salvatore e mai persecutore, creatore e non distruttore. Egli non si compiace della sofferenza né del peccato, ma non può che porre le Sue creature nelle condizioni di attingere il proprio bene sommo. Egli è fedele e coerente – e non può che esserlo – nonostante le infedeltà e le incoerenze degli uomini nel faticoso cammino dell’esistenza individuale e della storia. Non può che essere così, perché “Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero”. Dio non può essere amore infinito e anche, contraddittoriamente, amore a termine, capriccioso, intermittente, opportunistico.

Non ignoro che molta teologia, anche in ambiente cattolico, tema il Dio che non può disattendere il principio di non contraddizione, reputando che un Dio che non possa aggirare tale principio non sia onnipotente e non possa esercitare il proprio amore in maniera sovranamente libera. Ma è chiaro quali sono i rischi che il magistero addita annidarsi nell’immagine di un Dio supremamente libero di agire contro ragione. Sarebbe tempo che venga superata l’oziosa e sterile contrapposizione tra il Dio-Logos, che ottemperando al principio di non contraddizione si rinchiude in un imperturbabile distacco razionalistico impermeabile all’amore, e il Dio-Amore, che può a talento violare i principi razionali pur di secondare la propria indole di amore libero in modo assoluto e onnipotente.

Come insegna Benedetto XVI a Ratisbona, “non agire con il ‘logos’ è contrario alla natura di Dio. […] Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come ‘logos’ e come ‘logos’ ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore ‘sorpassa’ la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Efesini 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-’logos’, per cui il culto cristiano è ‘spirituale’ – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Romani 12,1).” Insomma: Dio è amore – Deus caritas est! – proprio in quanto è Logos, ed è Logos proprio in quanto è amore.

Tale è il Dio della Chiesa cattolica. Non mi pare dunque si possa concordare con Nayed, quando asserisce che “il contrasto tra cristianesimo e islam su questa base non solo è ingiusto, ma anche equivoco”.

Se è vera l’immagine del Dio dell’islam avvalorata da Nayed – e non intendo entrare nel merito di tale questione né avventurarmi in perigliosi esercizi di esegesi coranica –, se cioè “Dio sceglie liberamente, nella sua compassione verso le sue creature, di agire ragionevolmente in coerenza con se stesso”, e se “la ragione non deve essere al di sopra di Dio, né essere esternamente normativa per lui. Può essere normativa solo per grazia di Dio, a motivo del libero impegnarsi di Dio stesso ad agire in coerenza con sé”, allora va rilevato con nettezza che questa immagine di Dio cozza con quella professata come genuina dalla Chiesa cattolica, come il papa teologo ha nitidamente spiegato a Ratisbona.

Aref Ali Nayed ha risposto a sua volta alle tesi di Martinetti.
La controtesi di Aref Ali Nayed è che è errato contrapporre un “Dio-Arbitrio” dell’islam a un “Dio-Logos” del cristianesimo. A suo giudizio, la stessa teologia di Tommaso d’Aquino sul rapporto tra Dio e la ragione “è molto vicina a Ibn Hazm e ai teologi musulmani di scuola Asharita”.

Our God and Your God is One
(Il nostro Dio ed il vostro Dio è Uno solo"


by Aref Ali Nayed

In response to my commentary on the Lecture of Benedict XVI, Alessandro Martinetti wrote a series of comments under the title: “Will or Logos? The God of Islam and the God of Christianity [Arbitrio o Logos? Il Dio dell’islam e quello cristiano]”. The following notes and extensive quotations constitute a response to some of the important points made by Martinetti.

In developing my notes, and in the hope of achieving mutual understanding, I shall invoke only such sources and arguments that would be deemed authoritative or normative by the Catholic Martinetti. I will strive to show that Martinetti’s own Catholic tradition supports, rather than opposes, a position similar to that of Ibn Hazm and other Muslim theologians as briefly outlined in my commentary.

Starting from the Qur’anic injunction to discuss matters with the people of the Book in the best possible way, and with the Prophetic injunction to speak to people in modes suitable for their ways of reasoning, I shall not appeal, in these notes, to the Qur’an, the Sunnah, or the Islamic tradition, but to Martinetti’s own Christian and philosophic tradition. In my notes I shall strive towards the Qur’anically sought after “common discourse” (kalimatun sawa): common recognition of the One True God.

My guide in these notes is the following Qur’anic aya (29:46):

“Do not argue with the People of the Book but in the best of ways, except with those who have been unjust, and say: ‘we believe in what has been revealed to us, and what has been revealed to you, our God and your God is One, and we are devoted to Him’.”

Of course, my own Asha’rite position is rooted in God’s revelation in the Qur’an and the Sunnah as understood and expounded by the Sunni scholars of the Asha’rite school.

Martinetti’s main strategy is that of undermining my claim that it is unfair and questionable to contrast a purported rational God of Christianity with a purported irrational and whimsical God of Islam.

Martinetti, as is suggested by the title of his comments, counter-claims that the “God of Christianity” contrasts with the “God of Islam”. The God of Christianity is supposedly a “God of logos”, and the God of Islam is supposedly a “God of will”. The aim of my notes is to collapse this false distinction, using Martinetti’s own traditional sources, and to show that his contrast between two different Gods, a rational and a whimsical one, reaffirms yet another polarity in the dubious ‘contrast tables’ discredited in my commentary.

Martinetti basically uses passages in which I tried to briefly make sense of Ibn Hazm’s position, in order to prove that I am putting forth an irrational whimsical God, which he then contrasts with his rational God.

Martinetti is also keen to undermine my claim that the Catholic tradition itself, and especially Thomas Aquinas, does not support the elevation of Reason above God.

He counter-claims that God can not but respect and act according to the rules of Reason, including the “principle of non-contradiction”. Martinetti believes that Aquinas, the Catholic tradition (he especially cites “Fides et Ratio”), and Benedict XVI, all share that counter-claim.

My strategy in these notes consists in two moves:

– strive to show Martinetti that Catholic normative doctrines and documents clearly state that the God of the Muslims and that of the Christians is the very same God, and that his false contrast between “our God” and “your God” is not only unfair, but constitutes a rejection of authoritative (for him) Catholic teachings in this regard;

– strive to show Martinetti that Thomas Aquinas, based on Biblical grounds, does not elevate Reason above God, and that he, to the contrary, holds views that are very close to Ibn Hazm and Asha’rite Muslim theologians. “Fides et Ratio” can also be shown to be in a continuous line with a more accurate reading of Aquinas and close to Asha’rite teachings on Faith and Reason.

It is hoped that my notes will make clear to Martinetti that there is no need to appeal to a normative transcendental Reason, above God, for Muslims to be rational, or for our God to be considered rational. It is hoped that Martinetti will ultimately see that our God is One!


Move I: Catholic normative teachings regarding the worship of the One God in Islam and Christianity


Martinetti, by taking “Fides et Ratio” as authoritative, signals that he is a devout Catholic who should equally uphold, as Pope John Paul II always did, and as Pope Benedict XVI still does, the teachings of the Second Vatican Council (underlining added for emphasis):

“Nostra Aetate”:

“The Church regards with esteem also the Moslems. They adore the one God, living and subsisting in Himself; merciful and all-powerful, the Creator of heaven and earth, who has spoken to men; they take pains to submit wholeheartedly to even His inscrutable decrees, just as Abraham, with whom the faith of Islam takes pleasure in linking itself, submitted to God. Though they do not acknowledge Jesus as God, they revere Him as a prophet. They also honor Mary, His virgin Mother; at times they even call on her with devotion. In addition, they await the day of judgment when God will render their deserts to all those who have been raised up from the dead. Finally, they value the moral life and worship God especially through prayer, almsgiving and fasting”. (1)

The reaffirmations and clarifications of “Nostra Aetate” by Pope John Paul II:

“Christians and Muslims, we have many things in common, as believers and as human beings. We live in the same world, marked by many signs of hope, but also by multiple signs of anguish. For us, Abraham is a very model of faith in God, of submission to his will and of confidence in his goodness. We believe in the same God, the one God, the living God, the God who created the world and brings his creatures to their perfection”. (2)

“As I have often said in other meetings with Muslims, your God and ours is one and the same, and we are brothers and sisters in the faith of Abraham. Thus it is natural that we have much to discuss concerning true holiness in obedience and worship to God.” (3)

“On other occasions I have spoken of the religious patrimony of Islam and of its spiritual values. The Catholic Church realizes that the element of worship given to the one, living, subsistent, merciful and almighty Creator of heaven and earth is common to Islam and herself, and that it is a great link uniting all Christians and Muslims. With great satisfaction she also notes, among other elements of Islam which are held in common, the honour attributed to Jesus Christ and his Virgin Mother”. (4)

The recent reaffirmations of “Nostra Aetate” by Pope Benedict XVI:

“The position of the Pope concerning Islam is unequivocally that expressed by the conciliar document ‘Nostra Aetate’”. (5)

Martinetti’s contrast between the God of Christianity and the God of Islam is in direct violation of the teachings of the last and most authoritative Vatican Council. Given his obvious devotion to Catholic doctrine, Martinetti must reconsider his position.

The Qur’an teaches Muslims to invite the People of the Book (Jews and Christians) to come to a common discourse and to affirm the worship of the One True God. Vatican II teaches Catholics to come to such a common discourse. It is sad to see a Catholic wanting to lapse to pre-Vatican II positions that were not conducive to mutual respect or co-living.

Move II: Thomas Aquinas is not on the side of Martinetti!

Martinetti, without any documentation, claims that Aquinas would never concur with a position similar to the one I attributed to Ibn Hazm. While, I am no Thomist, I dare bring the attention of Martinetti to the following facts.


1. Aquinas affirms, just as most Muslim theologians do, that it is Revelation that is the ultimate and real teacher about God and His ways. Reason must strive to understand, but it is Revelation that saves:

“It was necessary for man's salvation that there should be a knowledge revealed by God besides philosophical science built up by human reason. Firstly, indeed, because man is directed to God, as to an end that surpasses the grasp of his reason: ‘The eye hath not seen, O God, besides Thee, what things Thou hast prepared for them that wait for Thee’ (Isaiah 66:4). But the end must first be known by men who are to direct their thoughts and actions to the end. Hence it was necessary for the salvation of man that certain truths which exceed human reason should be made known to him by divine revelation. Even as regards those truths about God which human reason could have discovered, it was necessary that man should be taught by a divine revelation; because the truth about God such as reason could discover, would only be known by a few, and that after a long time, and with the admixture of many errors. Whereas man's whole salvation, which is in God, depends upon the knowledge of this truth. Therefore, in order that the salvation of men might be brought about more fitly and more surely, it was necessary that they should be taught divine truths by divine revelation. It was therefore necessary that besides philosophical science built up by reason, there should be a sacred science learned through revelation”. (6)


2. Aquinas affirms, just as most Muslim theologians do, that God is omnipotent and that His Power and Will are utterly efficacious:

“God is bound to nobody but Himself. Hence, when it is said that God can only do what He ought, nothing else is meant by this than that God can do nothing but what is befitting to Himself, and just”.

“Although this order of things be restricted to what now exists, the divine power and wisdom are not thus restricted. Whence, although no other order would be suitable and good to the things which now are, yet God can do other things and impose upon them another order”.

3. Aquinas points out the common mistake of subjecting divine acts to natural necessity:

“In this matter certain persons erred in two ways. Some laid it down that God acts from natural necessity in such way that as from the action of nature nothing else can happen beyond what actually takes place – as, for instance, from the seed of man, a man must come, and from that of an olive, an olive; so from the divine operation there could not result other things, nor another order of things, than that which now is. But we showed above that God does not act from natural necessity, but that His will is the cause of all things; nor is that will naturally and from any necessity determined to those things. Whence in no way at all is the present course of events produced by God from any necessity, so that other things could not happen. Others, however, said that the divine power is restricted to this present course of events through the order of the divine wisdom and justice without which God does nothing. But since the power of God, which is His essence, is nothing else but His wisdom, it can indeed be fittingly said that there is nothing in the divine power which is not in the order of the divine wisdom; for the divine wisdom includes the whole potency of the divine power. Yet the order placed in creation by divine wisdom, in which order the notion of His justice consists, as said above, is not so adequate to the divine wisdom that the divine wisdom should be restricted to this present order of things. Now it is clear that the whole idea of order which a wise man puts into things made by him is taken from their end. So, when the end is proportionate to the things made for that end, the wisdom of the maker is restricted to some definite order. But the divine goodness is an end exceeding beyond all proportion things created. Whence the divine wisdom is not so restricted to any particular order that no other course of events could happen. Wherefore we must simply say that God can do other things than those He has done”.


4. Aquinas explains why this mistake is often made:

“In ourselves, in whom power and essence are distinct from will and intellect, and again intellect from wisdom, and will from justice, there can be something in the power which is not in the just will nor in the wise intellect. But in God, power and essence, will and intellect, wisdom and justice, are one and the same. Whence, there can be nothing in the divine power which cannot also be in His just will or in His wise intellect”.

5. Aquinas does teach that objects that are impossible by their very definition can not be done, but that we should still not say that God can not do them:

“Whence, whatsoever has or can have the nature of being is numbered among the absolutely possible things, in respect of which God is called omnipotent. Now nothing is opposed to the idea of being except non-being. Therefore, that which implies being and non-being at the same time is repugnant to the idea of an absolutely possible thing, within the scope of the divine omnipotence. For such cannot come under the divine omnipotence, not because of any defect in the power of God, but because it has not the nature of a feasible or possible thing. Therefore, everything that does not imply a contradiction in terms, is numbered amongst those possible things, in respect of which God is called omnipotent: whereas whatever implies contradiction does not come within the scope of divine omnipotence, because it cannot have the aspect of possibility. Hence it is better to say that such things cannot be done, than that God cannot do them. Nor is this contrary to the word of the angel, saying: ‘No word shall be impossible with God’. For whatever implies a contradiction cannot be a word, because no intellect can possibly conceive such a thing”. (7)

It is noteworthy that Muslim Asha’rite theologians, including Asha’ri himself, upheld a very similar doctrine to that outlined by Aquinas in this regard. The way to avoid what is often called the “paradox of omnipotence” is to hold that things like “unmovable stones”, “squared circles” and “Euclidean triangles with angles adding up to more that 180 degrees” simply can not be. Thus, the question of whether or not an omnipotent God can make them should not even arise. God does not make such things not because of an externally imposed normative “law of non-contradiction” to which he must abide, but simply because such things, by definition, can not be. They do not have what it takes to be not because of a logical contradiction, but because of an ontological failure to be.

Many classical Muslim theologians who argued against the sensibility of the Christian doctrine of trinity used logic very similar to that of Aquinas, but added that the notion of the trinity itself “implies being and non-being at the same time [and] is repugnant to the idea of an absolutely possible thing, within the scope of the divine omnipotence”. “For whatever implies a contradiction cannot be a word, because no intellect can possibly conceive such a thing”. For many classical Muslim theologians, the idea of a “Man-God” was taken to be of the same category as the idea of a “squared circle”. Such ideas, as the phenomenologist Meinong rightly points out, can “subsist” and be referred to, talked about, and even believed in, but can not possibly “exist”.

Of course, despite the authority of Aquinas on things reasonable and logical, Aquinas himself, and the Catholic Church, throughout its history had to preserve a space for ultra-logics that do not fit neatly into the categories of human logics. That is the only way to preserve the authoritative (for them) teachings of Paul and other Christian sages on a “Wisdom of God” that transcends the “Wisdom of the World”. The appeal to such “extra-rationality” is very clear in the authoritative teachings of the Catholic Church. “Fides et Ratio” itself has many passages defending precisely such a position not on the basis of “Reason” but on the basis of “Revelation”.


6. “Fides et Ratio”, just as most Muslim theologians do, reaffirms the normativity of Revelation over Reason:

“Restating almost to the letter the teaching of the First Vatican Council's constitution ‘Dei Filius’, and taking into account the principles set out by the Council of Trent, the Second Vatican Council's constitution ‘Dei Verbum’ pursued the age-old journey of understanding faith, reflecting on Revelation in the light of the teaching of Scripture and of the entire Patristic tradition. At the First Vatican Council, the Fathers had stressed the supernatural character of God's Revelation. On the basis of mistaken and very widespread assertions, the rationalist critique of the time attacked faith and denied the possibility of any knowledge which was not the fruit of reason's natural capacities. This obliged the Council to reaffirm emphatically that there exists a knowledge which is peculiar to faith, surpassing the knowledge proper to human reason, which nevertheless by its nature can discover the Creator. This knowledge expresses a truth based upon the very fact of God who reveals himself, a truth which is most certain, since God neither deceives nor wishes to deceive”. (8)

7. “Fides et Ratio” reaffirms that divine Will can overcome human “habitual patterns of thought”, and that it is not bound by human logic and systems:

“This is why the Christian's relationship to philosophy requires thorough-going discernment. In the New Testament, especially in the Letters of Saint Paul, one thing emerges with great clarity: the opposition between ‘the wisdom of this world’ and the wisdom of God revealed in Jesus Christ. The depth of revealed wisdom disrupts the cycle of our habitual patterns of thought, which are in no way able to express that wisdom in its fullness.

“The beginning of the First Letter to the Corinthians poses the dilemma in a radical way. The crucified Son of God is the historic event upon which every attempt of the mind to construct an adequate explanation of the meaning of existence upon merely human argumentation comes to grief. The true key-point, which challenges every philosophy, is Jesus Christ's death on the Cross. It is here that every attempt to reduce the Father's saving plan to purely human logic is doomed to failure. ‘Where is the one who is wise? Where is the learned? Where is the debater of this age? Has not God made foolish the wisdom of the world?’ (1 Corinthians 1:20), the Apostle asks emphatically. The wisdom of the wise is no longer enough for what God wants to accomplish; what is required is a decisive step towards welcoming something radically new: ‘God chose what is foolish in the world to shame the wise...; God chose what is low and despised in the world, things that are not to reduce to nothing things that are’ (1 Corinthians 1:27-28). Human wisdom refuses to see in its own weakness the possibility of its strength; yet Saint Paul is quick to affirm: ‘When I am weak, then I am strong’ (2 Corinthians 12:10). Man cannot grasp how death could be the source of life and love; yet to reveal the mystery of his saving plan God has chosen precisely that which reason considers ‘foolishness’ and a ‘scandal’.

“The wisdom of the Cross, therefore, breaks free of all cultural limitations which seek to contain it and insists upon an openness to the universality of the truth which it bears. What a challenge this is to our reason, and how great the gain for reason if it yields to this wisdom! Of itself, philosophy is able to recognize the human being's ceaselessly self-transcendent orientation towards the truth; and, with the assistance of faith, it is capable of accepting the ‘foolishness’ of the Cross as the authentic critique of those who delude themselves that they possess the truth, when in fact they run it aground on the shoals of a system of their own devising”. (9)

Of course, based on what we take to be God’s own and final Qur’anic revelation of the truth regarding Jesus (peace be upon him), we Muslims accept God’s judgment that it is not “befitting” to God to have a son or become human. Thus most Muslim theologians deny the doctrines of the incarnation and crucifixion not only on the basis of the philosophical logic concerning impossible objects (as briefly outlined above), but on the basis of divine revelation (or revealed divine logic) that Muslims solemnly hold authentic and true.

Despite the fact that a Muslim, based on the ultimate revelatory authority he or she accepts, must reject the contents of the particular example claimed by “Fides et Ratio” to be a willful rupture of the rules of human reason, the example itself does establish that Catholicism, like Islam, does elevate the freedom and will of God over any limits on them by any external human or transcendental “Reason”. Does that make Catholic teaching irrational, or the Catholic God an irrational God?

One person’s extra-rationality is often another person’s irrationality! It all depends on one’s ultimate criterion. For us Muslims that ultimate criterion (al-furqan) on the doctrine of God, is the Qur’an and the Sunnah. It is pointless, however, for Christians and Muslims to exchange accusations of irrationality based on their contrasting communal experiences of what they take to be extra-rational ruptures of the divine into history. Such a mutually-destructive polemical exchange will only satisfy atheistic secularists who think that religiosity as such is fundamentally irrational. Muslim and Christians must cooperate in staking a place for the extra-rational in a world increasingly dominated by a godless secularist outlook. As pointed out in the beginning of my commentary, Benedict XVI’s just call for an expansion of the notion of Reason so as to accommodate revelatory insights is something that both Christians and Muslims can positively respond to.

Furthermore, having different authoritative revelatory criteria for the doctrine of God does not necessarily mean that we have different Gods. Here it is useful to invoke the important distinction, made by the logician Frege, between “sense” and “reference”. In talking of God, He is our common “reference”, and we are all referring to the very same God. However, in talking of God, we, of course, have different “senses” or ways of understanding and referring to Him (senses and ways that are deeply rooted in our different revelatory traditions and communal experiences).

Perhaps this distinction can help Martinetti see that its is possible for a Muslim and a Christian to worship and talk about the same God, while at the same time solemnly upholding different, and even opposing, senses of Him.

In some areas, as in the upholding of the sovereign Will of God, it is possible for Muslim and Christian theological senses to come very close to each other, in addition to sharing the same reference. In other areas, as in Trinitarian versus Unitarian doctrines, Christian and Muslim theological senses are in clear opposition. Despite such opposition, we must not fall into the temptation of scoffing at, or dismissing, each other. We must, together, keep our hearts and minds focused on Him who is our common reference, and continue to engage each other in a pray-full, reasoned, and peaceful dialectical discussion.

Part of the task of inter-religious dialogue is to invoke the unity of reference in order to make room for the exploration of the diversity of senses. Such exploration can enhance our understandings of the different, and even oppositional senses, we have of the divine. Our own different senses of the divine become clearer as we engage each other in sincere and devout discussion regarding the One God. This is why I am so grateful for Martinetti’s comments. I sincerely hope our discussion will continue.


8. The biblical basis for the affirmation of the sovereignty of the will of God

The above teachings of the Catholic Church regarding the will of God are not at all surprising. The Bible, in both the Old Testament and the New Testament, is full of repeated affirmations of the total sovereignty of the will of God. The following passage of Paul (Romans 9:14-26) suffices as an illustration:

“What shall we say then? Is there unrighteousness with God? May it never be! For he said to Moses: ‘I will have mercy on whom I have mercy, and I will have compassion on whom I have compassion’. So then it is not of him who wills, nor of him who runs, but of God who has mercy. For the Scripture says to Pharaoh, ‘For this very purpose I caused you to be raised up, that I might show in you my power, and that my name might be proclaimed in all the earth’. So then, he has mercy on whom he desires, and he hardens whom he desires. You will say then to me, ‘Why does he still find fault? For who withstands his will?’ But indeed, O man, who are you to reply against God? Will the thing formed ask him who formed it: ‘Why did you make me like this?’ Or hasn't the potter a right over the clay, from the same lump to make one part a vessel for honor, and another for dishonor? What if God, willing to show his wrath, and to make his power known, endured with much patience vessels of wrath made for destruction, and that he might make known the riches of his glory on vessels of mercy, which he prepared beforehand for glory, us, whom he also called, not from the Jews only, but also from the Gentiles? As he says also in Hosea: ‘I will call them my people, which were not my people; and her beloved, who was not beloved. It will be that in the place where it was said to them, 'You are not my people,' there they will be called children of the living God’.”

It is a simple fact that the God of the Bible, just as the God of the Qur’an, cannot be made to fit within the bounds and designs of the human logics of the philosophers (not even within the great logic of Aristotle so revered in both of our traditions by Aquinas and al-Ghazali). It is important to remember the famous words of Pascal in his “Pensées”:

“The God of Christians is not a God who is simply the author of mathematical truths, or of the order of the elements; that is the view of heathens and Epicureans... But the God of Abraham, the God of Isaac, the God of Jacob, the God of Christians, is a God of love and of comfort, a God who fills the soul and heart of those whom He possesses, a God who makes them conscious of their inward wretchedness, and His infinite mercy, who unites Himself to their inmost soul, who fills it with humility and joy, with confidence and love, who renders them incapable of any other end than Himself”. (10)

In one’s apologetic efforts to make room for theology and religion amidst their contemporary secular “cultured despisers”, one must remember the important stark difference so rightly pointed out by Pascal: “The God of Abraham, the God of Isaac, the God of Jacob. Not of the philosophers and intellectuals. Certitude, certitude, feeling, joy, peace!”

If being rational and having a rational God means adopting the God of the philosophers, be it called “Reason” or “Logos”, most Muslim theologians would simply opt to pass! That is why Asha’rite theologians, while always upholding the importance of devout reasoning that is guided by revelation, never accepted the Hellenistic philosophical worship of “Logos” or the “Active Intellect”.

Islam’s devout insistence on the sovereignty of the living God of Abraham, Isaac, Jacob, Ishmael, Moses, Jesus and Muhammad (peace be upon them all) must not be cheaply turned against it, with unfair accusations of whimsical irrationality! If properly appreciated such devout Muslim insistence can be a real aid to Christian affirmations of the divine in the face of the atheistically secular.

Let us help each other by overcoming our false “contrast tables”, and by praying for peace and guidance from the One beloved God of all.

God truly knows best!

Notes:

(1) Declaration of the Second Vatican Council on the Relation of the Church to non-Christian Religions: “Nostra Aetate”. Proclaimed by Paul VI, October 28, 1965.

(2) “Address of John Paul II to Young Muslims”, Morocco, August 19, 1985.

(3) “Address of John Paul II to the Participants in the Colloquium on ‘Holiness in Christianity and Islam’”, May 9, 1985.

(4) “Meeting of John Paul II with the Muslim Leaders”, Nairobi, Kenya, May 7, 1980.

(5) “Statement by Card. Tarcisio Bertone Secretary of State”, September 16, 2006.

(6) Thomas Aquinas, “The Summa Theologica”, Translated by Fathers of the English Dominican Province, Benziger Bros. edition, 1947, First Part, Questions 1-119.

(7) This and other passages are all from the Chapter on the “Power of God” in Thomas Aquinas, “The Summa Theologica”.

(8) John Paul II, Encyclical Letter “Fides et Ratio”, n. 8.

(9) John Paul II, Encyclical Letter “Fides et Ratio”, n. 23.

(10) B. Pascal, “Pensées”, E.P. Dutton & Co., New York, 1958.

© 2006 Aref Ali Nayed


Infine il testo scritto dal cardinale Tracisio Bertone per la rivista cattolica “30 Giorni”, diretta da Giulio Andreotti.
Qui di seguito ne è riportata la parte finale. In essa vi sono dei passaggi che meritano attenzione. Il cardinale segretario di stato annuncia
- un rafforzamento delle attività delle nunziature apostoliche nei paesi musulmani e un più sistematico uso della lingua araba da parte vaticana.
-Auspica un maggior “dialogo con le élites pensanti [musulmane], nella fiducia di penetrare successivamente nelle masse, cambiare mentalità ed educare le coscienze”.
-Quanto al terreno di possibile intesa tra cristianesimo e islam, Bertone lo indica nella “promozione della dignità di ogni persona” e nella “educazione alla conoscenza e alla tutela dei diritti umani”. Senza con ciò rinunciare, da parte della Chiesa, a “proporre e annunciare il Vangelo, anche ai musulmani, nei modi e nelle forme più rispettose della libertà dell’atto di fede”.


Dialogare con le élites pensanti, per penetrare nelle masse
di Tarcisio Bertone

[...] Il Cristianesimo non è certo limitato all’Occidente, né si identifica con esso, ma solo rinsaldando un rapporto dinamico e creativo con la propria storia cristiana la democrazia e la civiltà occidentali potranno ritrovare spinta e propulsione, ovvero quelle energie morali per affrontare una scena internazionale fortemente competitiva.

Occorre disinnescare il rancore antislamico che cova in molti cuori, nonostante la messa a rischio della vita di tanti cristiani.

Inoltre, la fermissima condanna delle forme di irrisione della religione – e qui mi riferisco anche all’episodio delle irriverenti vignette satiriche che hanno infiammato le folle islamiche all’inizio di quest’anno – è precondizione indispensabile per condannarne le strumentalizzazioni.

Il discorso di fondo però non è neppure quello del rispetto dei simboli religiosi. Esso è semplice e radicale: occorre tutelare la dignità umana del musulmano credente. In un dibattito legato a questi temi una giovane musulmana nata in Italia ha semplicemente affermato: “Per noi il Profeta non è Dio, ma gli vogliamo molto bene”. Di questo sentimento profondo occorre avere almeno rispetto!

Di fronte ai musulmani credenti, ma anche di fronte ai terroristi, il parametro che deve dettare il comportamento non è l’utilità o il danno, ma la dignità umana.

Il centro del rapporto tra Chiesa e Islam è quindi preliminarmente la promozione della dignità di ogni persona e l’educazione alla conoscenza e alla tutela dei diritti umani.

In secondo luogo e in connessione a questa precondizione non dobbiamo rinunciare a proporre e annunciare il Vangelo, anche ai musulmani, nei modi e nelle forme più rispettose della libertà dell’atto di fede.

Per raggiungere questi obiettivi la Santa Sede si propone di valorizzare al massimo le nunziature apostoliche presso i paesi a maggioranza musulmana, per accrescere la conoscenza e se possibile anche la condivisione delle posizioni della Santa Sede.

Penso anche a un eventuale potenziamento dei rapporti con la Lega Araba, che ha sede in Egitto, tenendo conto delle competenze di tale organismo internazionale.

La Santa Sede si propone inoltre di impostare rapporti culturali tra le università cattoliche e le università dei paesi arabi e tra gli uomini e donne di cultura. Tra di loro il dialogo è possibile e direi anche fruttuoso. Ricordo alcuni congressi internazionali su temi interdisciplinari che abbiamo celebrato alla Pontificia Università Lateranense, ad esempio sui diritti umani, sulla concezione della famiglia, sulla giustizia e sull’economia.

Occorre proseguire e intensificare questa strada di dialogo con le élites pensanti, nella fiducia di penetrare successivamente nelle masse, cambiare mentalità ed educare le coscienze.

E proprio per facilitare questo dialogo la Santa Sede ha iniziato, e continuerà su questa strada, un uso più sistematico della lingua araba nel suo sistema di comunicazioni.

Il tutto avendo sempre a mente che la salvaguardia di quell’icona povera e continuamente insidiata ma sommamente amata da Dio che è la persona umana – amata per sé stessa, come dice il Concilio Vaticano II – è la massima testimonianza che le tradizioni religiose bibliche possono offrire al mondo.

Dio non viola i principi primi e universali dell’essere

Risposta ad Aref Ali Nayed, “Our God and Your God is One”
di Alessandro Martinetti

Esprimo sincera gratitudine ad Aref Ali Nayed per aver prestato meditata attenzione alle mie brevi note, dedicandovi una replica intitolata “Our God and Your God is One”.

Per corrispondere adeguatamente all’invito al confronto e per fornire risposta doverosamente documentata allo scritto del mio illustre interlocutore, ho approntato un intervento piuttosto lungo, nel quale, come esige un confronto franco e rispettoso delle differenze, cerco di argomentare le ragioni del mio dissenso di fondo da molte delle posizioni sostenute da Nayed.

In esordio, reputo necessario chiarire quanto mi sembrava fosse invero chiaro già nel mio primo intervento, e cioè che non sostengo tesi altra dalla seguente: Dio è onnipotente e non può violare il principio di non contraddizione (d’ora innanzi, PDNC); l’impossibilità di violare il PDNC non menoma la Sua onnipotenza, né coarta la Sua sovrana libertà.

Che la tesi sia questa, è quanto si desume ad esempio dai seguenti estratti:

«Un Dio che potesse violare il principio di non contraddizione come, quando e se vuole potrebbe indifferentemente essere amore e non amore, creatore misericordioso e carnefice sadico ed efferato, il quale impartisce un comando e poi può discrezionalmente castigare e dannare chi obbedisce al comando: una sfinge indecifrabile, volubile e potenzialmente nemica dell’uomo.

«Non ignoro che molta teologia, anche in ambiente cattolico, tema il Dio che non può disattendere il principio di non contraddizione, reputando che un Dio che non possa aggirare tale principio non sia onnipotente e non possa esercitare il proprio amore in maniera sovranamente libera».


1. Tommaso d’Aquino sostiene che Dio non può violare il principio di non contraddizione


Ribadisco dunque la tesi: Dio è onnipotente e non può violare il PDNC; l’impossibilità di violare il PDNC non menoma la Sua onnipotenza, né coarta la Sua sovrana libertà.
Sostengo inoltre che Tommaso d’Aquino concorda con questa tesi.

Stante che, come risulta a una lettura attenta del mio intervento, questa e non altra è la tesi, va rilevato che i primi quattro punti della seconda mossa con cui Nayed cerca di confutare il mio discorso mancano il bersaglio. 1) «l’Aquinate afferma, come fa la maggior parte dei teologi musulmani, che è la Rivelazione a essere la ultima e reale maestra riguardo a Dio e alle Sue vie»: e sia, ma io non l'ho negato. Né ho negato che 2) «l’Aquinate afferma, come fa la maggior parte dei teologi musulmani, che Dio è onnipotente e che la sua Potenza e Volontà sono illimitatamente efficaci»; con la sola precisazione, che l’illimitata efficacia non comporta che l’onnipotenza di Dio precipiti nell’assurdo, ossia violi il PDNC. Parimenti non ho (punto terzo e quarto) commesso «l’errore di sottomettere gli atti divini alla necessità naturale». Sono esonerato perciò dall'esaminare gli afferenti testi dell'Aquinate addotti da Nayed, perché, come documentato, non investono la tesi che vado sostenendo.

Indubbiamente pertinente e utile per saggiare la validità della tesi è la citazione annessa al punto quinto di Nayed.

Esaminiamo in dettaglio il testo di Tommaso addotto da Nayed (Summa theologiae, I , q. 25, a. 3):

«Hoc igitur repugnat rationi possibilis absoluti, quod subditur divinae omnipotentiae, quod implicat in se esse et non esse simul. Hoc enim omnipotentiae non subditur, non propter defectum divinae potentiae; sed quia non potest habere rationem factibilis neque possibilis. Quaecumque igitur contradictionem non implicant, sub illis possibilibus continentur, respectu quorum dicitur Deus omnipotens. Ea vero quae contradictionem implicant, sub divina omnipotentia non continentur, quia non possunt habere possibilium rationem. Unde convenientius dicitur quod non possunt fieri, quam quod Deus non potest ea facere».

Traduco commentando. Allo statuto (al concetto, al significato, alla natura: ratio) del possibile, inteso in senso assoluto – cioè al possibile in quanto tale –, il quale è sottomesso alla divina onnipotenza, ripugna ciò che implica in sé di essere e non essere a un tempo (cioè, ciò che implica una violazione del PDNC). E ciò (ossia, ciò che implica di essere e non essere a un tempo, ossia implica una violazione del PDNC) non è sottomesso all’onnipotenza (hoc enim omnipotentiae non subditur), non per un difetto di della potenza divina (non propter defectum divinae potentiae), ma proprio perché non può godere dello statuto di fattibile né di possibile. Pertanto tutto ciò che non implica contraddizione – tutto ciò che non viola il PDNC – (Quaecumque igitur contradictionem non implicant) appartiene al novero dei possibili, in rapporto ai quali si dice Dio è onnipotente (sub illis possibilibus continentur, respectu quorum dicitur Deus omnipotens). Ma ciò che implica contraddizione (quae contradictionem implicant) non è sottomesso alla divina onnipotenza (sub divina omnipotentia non continentur), perché non può godere dello statuto di possibile (non compatisce la qualifica di possibile: non possunt habere possibilium rationem). Perciò cose siffatte – che implicano contraddizione e perciò non godono dello statuto di cose possibili – si dice che non possono essere fatte, più precisamente che se si dicesse che Dio non può farle (Unde convenientius dicitur quod non possunt fieri, quam quod Deus non potest ea facere).

Più che mettere l’accento sul fatto che Dio onnipotente non può fare l’impossibile, è speculativamente istruttivo sottolineare che l’onni-potenza divina regna sui possibili, e dunque può disporre liberamente dei possibili, facendoli essere o non essere. Non si può pretendere che l’onni-potenza divina disponga degli impossibili, che faccia esistere ciò che è impossibile che esista (ed è impossibile che esista, perché esistendo violerebbe il PDNC), che renda possibile ciò che è intrinsecamente impossibile, giacché l’onni-potenza divina non rivendica alcun potere su ciò che non è un possibile, e non è un possibile non perché la potenza di Dio non sia così grande (onni-potente) da renderlo un possibile, ma proprio perché esso è intrinsecamente un impossibile: se fosse un possibile, si violerebbe il PDNC, e nell’impossibilità che si consumi tale violazione risiede l’intrinseca impossibilità che tale impossibile appartenga al novero dei possibili.

Quanto detto da Tommaso nel testo riportato da Nayed conferma pertanto la tesi che vado difendendo, a dispetto dell’opposto avviso del mio illustre contraddittore. Tommaso dice che ciò che è contraddittorio (ossia ciò che implica contraddizione, ciò che viola il PDNC) non è possibile che esista, e che pertanto non è possibile che Dio onnipotente ponga in essere, faccia esistere ciò che non può essere (non può essere in quanto, se fosse, violerebbe il PDNC). Sintetizzando: Dio è onnipotente e tale onnipotenza non è soppressa dal fatto che Egli non possa violare il PDNC, cioè non possa fare alcunché di contraddittorio, cioè non possa far essere ciò che non può essere (in quanto sarebbe contraddittorio che fosse), non possa rendere possibile ciò che è impossibile. Che altro sta sostenendo Tommaso, se non la tesi che sta patrocinando anche il sottoscritto, e cioè che “Dio è onnipotente e non può violare il principio di non contraddizione; l’impossibilità di violare il PDNC non menoma la Sua onnipotenza, né coarta la Sua sovrana libertà”?

Si legga anche quest’altro testo tommasiano (Summa theologiae, I, q. 25, a. 4):

«Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, sub omnipotentia Dei non cadit aliquid quod contradictionem implicat. Praeterita autem non fuisse, contradictionem implicat. […] Unde praeterita non fuisse, non subiacet divinae potentiae. Et hoc est quod Augustinus dicit, contra Faustum, quisquis ita dicit, si Deus omnipotens est, faciat ut quae facta sunt, facta non fuerint, non videt hoc se dicere, si Deus omnipotens est, faciat ut ea quae vera sunt, eo ipso quod vera sunt, falsa sint».

Ebbene, qui Tommaso afferma a chiare lettere che, come detto sopra (sicut supra dictum est), non è in potere della divina onnipotenza fare ciò che implica contraddizione (sub omnipotentia Dei non cadit aliquid quod contradictionem implicat). Ad esempio, che le cose passate non siano accadute (praeterita non fuisse) implica contraddizione, e perciò (cioè, proprio in quanto comporterebbe una violazione del PDNC) non soggiace alla divina potenza (non subiacet divinae potentiae). E Tommaso soggiunge, citando l’Agostino del Contra Faustum: «Chiunque afferma: “se Dio è onnipotente, faccia che le cose accadute non siano accadute”, non s’accorge che sta dicendo “Dio, se è onnipotente, faccia che le cose vere, per il fatto stesso che sono vere, siano false”» (Et hoc est quod Augustinus dicit, contra Faustum, quisquis ita dicit, si Deus omnipotens est, faciat ut quae facta sunt, facta non fuerint, non videt hoc se dicere, si Deus omnipotens est, faciat ut ea quae vera sunt, eo ipso quod vera sunt, falsa sint).

La tesi da me espressa viene pertanto ribadita, con l’autorevole avallo di Tommaso. Anzi, com’è evidente, sono io che sto “prendendo in prestito” il pensiero di Tommaso. Per procurarsi ulteriore documentazione a suffragio, si confronti quest’altro testo dell’Aquinate (Quaestiones disputatae de potentia, q. 1, a. 3):

«Sic ergo aliquid dicitur impossibile fieri tribus modis.[…]; tertio modo propter hoc quod id quod dicitur impossibile fieri, non potest esse terminus actionis. […]. Sed id quod tertio modo dicitur impossibile, Deus facere non potest […] Et ideo non potest facere quod affirmatio et negatio sint simul vera, nec aliquod eorum in quibus hoc impossibile includitur. Nec hoc dicitur non posse facere propter defectum suae potentiae: sed propter defectum possibilis, quod a ratione possibilis deficit; propter quod dicitur a quibusdam quod Deus potest facere, sed non potest fieri».

Traduco commentando. Che qualcosa è impossibile che sia fatto si dice secondo tre accezioni. Stando alla terza di queste accezioni, si dice che qualcosa non può essere fatto perché non può essere l’esito di un’azione (tertio modo propter hoc quod id quod dicitur impossibile fieri, non potest esse terminus actionis). Dio non può fare ciò che si dice impossibile secondo questa terza accezione (id quod tertio modo dicitur impossibile, Deus facere non potest). Perciò Dio non può far sì che l’affermazione e la negazione siano vere a un tempo, né può fare alcuna di quelle cose nelle quali è inclusa un’impossibilità di questo tipo (Et ideo non potest facere quod affirmatio et negatio sint simul vera, nec aliquod eorum in quibus hoc impossibile includitur). E non si dice che Dio non può fare ciò a causa di una mancanza della propria potenza (della propria onnipotenza), ma a causa di un mancanza di quel possibile che vien meno allo statuto stesso di possibile (Nec hoc dicitur non posse facere propter defectum suae potentiae: sed propter defectum possibilis, quod a ratione possibilis deficit); perciò alcuni dicono che Dio lo può fare (perché è onnipotente), ma non può essere fatto (stante la natura del possibile, che non può violare il PDNC): propter quod dicitur a quibusdam quod Deus potest facere, sed non potest fieri. Anche in quest’occasione Tommaso evidenzia che Dio non può fare ciò che è contraddittorio, e che l’impossibilità di violare il PDNC non elimina la Sua onnipotenza, perché non sta a Dio rendere possibile (e quindi soggetto alla Sua onnipotenza) ciò che, in quanto implicante contraddizione, è intrinsecamente non-possibile, non gode né può godere dello statuto di cosa possibile.

Ad abundantiam, allego altri testi dell’Aquinate, il cui contenuto collima con quello dei testi già presi in esame:

– Summa contra Gentiles, lib. 1, cap. 84: «In divinam igitur voluntatem non possunt cadere quae secundum se sunt impossibilia»: la volontà divina non esercita la propria potestà sulle cose che sono impossibili in sé. E che cosa è impossibile in sé? Anzitutto, ciò che implica contraddizione. Sempre in quel luogo della Contra Gentiles si legge infatti: «Non potest igitur Deus velle aliquid quod repugnat rationi entis inquantum huiusmodi. Sicut autem rationi hominis inquantum est homo repugnat esse irrationale, ita rationi entis inquantum huiusmodi repugnat quod aliquid sit simul ens et non ens. Non potest igitur Deus velle quod affirmatio et negatio sint simul verae. Hoc autem includitur in omni per se impossibili, quod ad seipsum repugnantiam habet inquantum contradictionem implicat. Voluntas igitur Dei non potest esse per se impossibilium» («Dio non può volere qualcosa che ripugna allo statuto (all’indole, al concetto, al significato: ratio) di ente in quanto tale. Come infatti allo statuto di uomo in quanto tale ripugna l’essere irrazionale, così allo statuto dell’ente in quanto tale ripugna che qualcosa a un tempo sia ente e non ente. Dunque Dio non può volere che affermazione e negazione siano vere a un tempo. Appartiene infatti a tutto ciò che è in sé impossibile di avere una incompatibilità con sé stesso, in quanto implica contraddizione. Pertanto la volontà di Dio non può essere delle cose in sé impossibili»).

– Quaestiones disputatae de potentia, q. 1, a. 7 (ma si veda l’intera quaestio): «Ea vero quae contradictionem implicant Deus non potest; quae quidem sunt impossibilia secundum se. Relinquitur ergo quod Dei potentia ad ea se extendat quae sunt possibilia secundum se. Haec autem sunt quae contradictionem non implicant. Constat ergo quod Deus ideo dicitur omnipotens quia potest omnia quae sunt possibilia secundum se» («Dio non può le cose che implicano contraddizione; queste infatti sono impossibili in sé stesse. Risulta pertanto che la potenza di Dio si estende alle cose che sono possibili in sé stesse. E queste cose sono quelle che non implicano contraddizione. Consta pertanto che Dio è detto onnipotente perché può tutte le cose che sono possibili in sé»).

– Summa contra Gentiles, lib. 2, cap. 25: «Oppositum autem entis est non ens. Hoc igitur Deus non potest, ut faciat simul unum et idem esse et non esse: quod est contradictoria esse simul» («L’opposto dell’ente è il non ente. Perciò Dio non può far sì che una medesima cosa sia e non sia a un tempo: cioè che i contraddittori esistano a un tempo»).

Si confronti anche il seguito del cap. 25. Non riporto l’integrale, ma allineo i passaggi salienti. «Unde eiusdem rationis etiam est quod Deus non possit facere opposita simul inesse eidem secundum idem» («Segue per la medesima ragione che Dio non può far sì che gli opposti ineriscano a un tempo e sotto il medesimo rispetto alla medesima cosa»); «Si igitur Deus non potest facere rem simul esse et non esse, nec etiam potest facere quod rei desit aliquod suorum principiorum essentialium ipsa remanente: sicut quod homo non habeat animam» («se dunque Dio non può far sì che una cosa sia e non sia a un tempo, non può neppure far sì che a una cosa manchi qualcuno dei suoi principi essenziali e che essa malgrado ciò continui a esistere: ad esempio, Dio non può far sì che all’uomo manchi l’anima»); «Cum principia quarundam scientiarum, ut logicae, geometriae et arithmeticae, sumantur ex solis principiis formalibus rerum, ex quibus essentia rei dependet, sequitur quod contraria horum principiorum Deus facere non possit: sicut quod genus non sit praedicabile de specie; vel quod lineae ductae a centro ad circumferentiam non sint aequales; aut quod triangulus rectilineus non habeat tres angulos aequales duobus rectis» («poiché i principi di alcune scienze, come logica, geometria e matematica, sono tratti dai solo principi formali delle cose, dai quali dipende l’essenza della cosa, segue che Dio non può fare cose contrarie a questi principi: come ad esempio che il genere non sia predicabile della specie; o che le linee tirate dal centro alla circonferenza non siano uguali; o che un triangolo non abbia gli angoli interni uguali a due angoli retti»); «patet quod Deus non potest facere quod praeteritum non fuerit. Nam hoc etiam contradictionem includit: eiusdem namque necessitatis est aliquid esse dum est, et aliquid fuisse dum fuit» («è manifesto che Dio non può far sì che il passato non sia esistito. Infatti anche ciò comporta contraddizione: pertanto è ugualmente necessario che qualcosa sia fintantoché è, e che qualcosa sia stato fintantoché è stato»); «Sunt etiam quaedam quae repugnant rationi entis facti inquantum huiusmodi. Quae etiam Deus facere non potest: nam omne quod facit Deus, oportet esse factum» («Ci sono pure alcune cose che ripugnano allo statuto di un ente fatto proprio in quanto ente fatto. E Dio non può fare queste cose: infatti tutto ciò che Dio fa, è necessario che sia qualcosa di fatto»). «Ex hoc autem patet quod Deus non potest facere Deum. Nam de ratione entis facti est quod esse suum ex alia causa dependeat. Quod est contra rationem eius quod dicitur Deus, ut ex superioribus patet» («Da ciò è inoltre manifesto che Dio non può fare Dio. Infatti compete allo statuto di un ente fatto che il suo essere dipenda da una causa altra da sé. E ciò è contro lo statuto di colui che chiamiamo Dio, come è evidente da quanto detto sopra»); «Eadem etiam ratione, non potest Deus facere aliquid aequale sibi. Nam illud cuius esse ab alio non dependet, potius est in essendo et in ceteris dignitatibus eo quod ab alio dependet, quod ad rationem entis facti pertinet» («Per la medesima ragione Dio non può fare qualcosa di uguale a sé. Infatti ciò il cui essere non dipende da altro, è superiore nell’essere e nelle altre qualità a ciò che dipende da altro, e dipendere da altro compete allo statuto dell’ente fatto»); «Similiter etiam Deus facere non potest quod aliquid conservetur in esse sine ipso. Nam conservatio esse uniuscuiusque dependet a causa sua. Unde oportet quod, remota causa, removeatur effectus. Si igitur res aliqua posset esse quae a Deo non conservaretur in esse, non esset effectus eius» («Similmente Dio non può far sì che qualcosa si conservi nell’essere senza Dio stesso. Infatti il conservarsi di qualsiasi cosa dipende dalla sua causa. Perciò è necessario che, una volta rimossa la causa, sia rimosso anche l’effetto. Se dunque ci potesse essere qualche cosa che non sia conservata nell’essere da Dio, essa non sarebbe una cosa fatta da Dio»); «Quia ipse est per voluntatem agens, illa non potest facere quae non potest velle» («Poiché Dio agisce secondo la propria volontà, non può fare le cose che non può volere»); «non potest Deus facere se non esse, vel non esse bonum aut beatum: quia de necessitate vult se esse, bonum esse et beatum» («Dio non può fare in modo di non essere, o di non essere buono e beato: poiché di necessità vuole essere, ed essere buono e beato»); «Deus non potest velle aliquod malum. Unde patet quod Deus peccare non potest» («Dio non può volere alcun male. Donde è manifesto che Dio non può peccare»); «Dei voluntas non potest esse mutabilis. Sic igitur non potest facere id quod est a se volitum, non impleri» (La volontà di Dio non può essere mutevole. Perciò non può far sì che ciò che vuole non si compia fino in fondo»).

– Quaestiones de quolibet XII, q. 2, a. 1, ove Tommaso risponde alla domanda «se Dio possa far sì che i contraddittori esistano a un tempo» («Utrum Deus possit facere contradictoria simul esse»): «dicendum, quod non: et hoc non importat in Deo imperfectionem potentiae, sed quia hoc non habet rationem possibilis» («va detto che non è possibile: e ciò non importa in Dio un’imperfezione della potenza, ma è dovuto al fatto che non conviene allo statuto del possibile che i contraddittori esistano a un tempo»).

Per suggellare il paragrafo, giova ripetere che dai testi considerati emerge nitidamente il pensiero di Tommaso: Dio è onnipotente e non può violare il PDNC. Che è quanto, invocando a conforto anche l’autorità di Tommaso, asserivo nel precedente intervento. E che, analizzati i testi tommasiani, mi sento abilitato a confermare.


2. Difesa del principio di non contraddizione, logico e ontologico


Scrive Nayed: «La via per evitare quello che spesso è chiamato “paradosso dell’onnipotenza” è tener fermo che cose come “pietre inamovibili”, “cerchi quadrati” e “triangoli euclidei la somma dei cui angoli interni è superiore a 180 gradi” semplicemente non possono esistere. Perciò, la domanda se un Dio onnipotente può o non può fare queste cose non dovrebbe nemmeno sorgere».

Ma perché mai non dovrebbe essere sollevata la questione? Tommaso la solleva e la scruta con maestria, dedicandovi insistita e meditata attenzione, come documentato da Nayed stesso e dallo scrivente, e argomentando a favore di una visione dell’onnipotenza divina che non confligga e non possa in alcun modo confliggere con il PDNC.

Nayed si sforza, nel commentare Tommaso e nel seguito, di indicare una presunta contrapposizione tra PDNC logico e PDNC ontologico, contrapposizione cui Tommaso accondiscenderebbe e che potrebbe essere sfruttata contro la tesi che vado perorando. Ecco come è prospettata la presunta contrapposizione:

«Dio non fa cose siffatte non a causa di un normativo “principio di non contraddizione” imposto dall’esterno al quale deve conformarsi, ma semplicemente perché cose siffatte, per definizione, non possono esistere. Esse non hanno ciò che occorre per essere non a causa di una contraddizione logica, ma per un’incapacità ontologica di essere»

Mi pare qui all’opera un inefficace tentativo di divaricare il PDNC logico da quello ontologico. Nayed infatti afferma che non è una qualche contraddizione logica che impedisce a qualcosa di essere, ma soltanto un ostacolo ontologico, un’intrinseca incapacità ontologica. Ma al riguardo va precisato 1) che (come Tommaso spiega limpidamente nei testi allegati) l’ostacolo ontologico che rende un cosa impossibilitata a esistere è la violazione del PDNC ontologico che si consumerebbe se la cosa, intrinsecamente (ontologicamente) impossibilitata ad essere, fosse; 2) che il PDNC logico non è qualcosa di giustapposto al PDNC ontologico, tale da poterne essere diviso, ma è nient’altro che la legge con cui il pensiero umano esprime quel PDNC ontologico che il pensiero non escogita arbitrariamente, ma rinviene nelle cose e si limita a registrare. Il PDNC ontologico è una legge intrinseca alle cose e manifesta al pensiero, il quale, nell’enunciazione logica del PDNC, non fa altro che tematizzare esplicitamente tale ontologico PDNC. Pertanto, l’infrazione del PDNC logico non è altro che il manifestarsi al pensiero della violazione del PDNC ontologico. La formulazione logica del PDNC si incarica di segnalare quell’“incapacità ontologica a essere” di cui parla Nayed. Pertanto, sostenere, come fa Nayed, che le cose che «semplicemente […] non possono esistere […] non hanno ciò che occorre per essere non a causa di una contraddizione logica, ma per un’incapacità ontologica di essere” è non accorgersi che il PDNC logico altro non fa che constatare che c’è “l’incapacità” di essere, l’ostacolo ontologico (risiedente, s’è visto, nella contraddizione ontologica che si perpetrerebbe se qualcosa che non può essere fosse). Poiché l’ostacolo ontologico c’è – come Nayed concede – e il PDNC logico non svolge altro ufficio che quello di additare quell’ostacolo, sostenere – come fa Nayed – che anche se si violasse il PDNC logico, permarrebbe l’ostacolo ontologico (sostenere cioè che non è il PDNC logico a impedire che qualcosa sia possibile, ma soltanto un ostacolo ontologico, un’incapacità ontologica), è non accorgersi che il PDNC non svolge altro ufficio che quello di far vedere quell’ostacolo ontologico. Sicché, negare il PDNC logico che fa vedere che l’ostacolo c’è equivale 1) a rinunciare a vedere che l’ostacolo c’è; 2) a presumere che non ci sia. Ma Nayed vede che l’ostacolo c’è, e pertanto non può coerentemente sostenere – come invece fa – che l’ostacolo esisterebbe indipendentemente dal fatto che si osservi o meno il PDNC logico. Come s’è argomentato, se ci si svincola dalla contraddizione logica, concedendosi alla violazione del PDNC logico, occorre avvedersi che la contropartita di tale operazione è l’impossibilità di ritenere coerentemente che l’ostacolo ontologico ci sia, giacché, come sottolineato, la logica della non contraddizione assolve esclusivamente al compito di segnalare l’ostacolo, e pertanto perseguire una deroga alla logica della non contraddizione è infliggersi l’impossibilità di segnalare che l’ostacolo ontologico esiste, e con ciò, di fatto, negare che ostacolo ontologico possa esistere. In sintesi: sottrarsi alla contraddizione logica, asserendo che indipendentemente da tale contraddizione esiste un insormontabile ostacolo ontologico a che qualcosa sia, è non avvedersi che, aggirata la non contraddizione logica, è sormontato anche l’ostacolo ontologico (ossia, è aggirato anche il PDNC ontologico): PDNC logico e ontologico stanno e cadono insieme.

Dopo aver obiettato ad hominem, m’intrattengo ancora un poco su questo tema di notevolissima importanza. La formulazione ontologica del PDNC dice che è impossibile che qualcosa patisca a un tempo e sotto il medesimo rispetto attributi contraddittori (ad esempio, che qualcosa sia e non sia a un tempo, o che sia bianco e non–bianco a un tempo e sotto il medesimo rispetto): Aristotele affermava che «è impossibile che la medesima cosa a un tempo appartenga e non appartenga alla medesima cosa e sotto il medesimo rispetto» (Metafisica, IV 3, 1005 b 19–20). La formulazione logica del PDNC recita che è impossibile dire il vero se si afferma e si nega a un tempo e sotto il medesimo rispetto che qualcosa patisca a un tempo e sotto il medesimo rispetto attributi contraddittori. Il nesso che corre tra PDNC logico e PDNC ontologico è già emergente nel solo enunciarli, s’è già messo in luce dianzi, ma merita una ispezione più approfondita. Che significa formulazione logica di un principio? La logica ha a che fare con il pensiero e il pensiero è pensiero dell’essere, manifestazione dell’essere, cioè dell’ontologico; il logico non può prescindere pertanto dall’ontologico, non esiste se non come manifestazione dell’essere, come pensiero che pensa l’essere. Un atto di pensiero, un’affermazione ad esempio (“questa mela è rossa”, “questa mela non è una non–mela”), non può che riferirsi a qualcosa di essente (nel caso, la mela), non può che avere un riferimento ontologico, quale che sia la regione ontologica in cui si colloca tale referente. Scrive a proposito Evandro Agazzi: «Il “tipo di realtà” a cui il referente citato nella classica definizione di verità [veritas est adaequatio intellectus et rei, “la verità è la corrispondenza/conformità dell’intelligenza alla cosa”, alla res, che è il «referente» di cui sta trattando Agazzi] appartiene non è menzionato dalla definizione (un enunciato vero può “riguardare” entità fisiche, matematiche, obblighi morali, Dio, personaggi di un romanzo, speranze e desideri ecc.) e questo indica che il particolare status ontologico dei referenti non è una precondizione della verità, ma la verità è in ogni caso legata ad un qualche riferimento ontologico. In questo senso dobbiamo affermare che la verità è sempre coinvolta ontologicamente, e che la verità di un’affermazione comporta che il suo referente esista, pur lasciando aperta la questione circa la “regione ontologica” in cui esso è situato» (E. Agazzi, Logica, verità e ontologia, in Le parole dell’Essere, Milano 2005, p. 10). Si palesa pertanto ancora una volta il convenire in reciprocità, l’inestricabile intreccio tra PDNC logico e PDNC ontologico. Il pensiero che tentasse di disattendere il PDNC logico non potrebbe che tentare di disattendere anche quello ontologico, e non potrebbe che essere un mero conato di pensiero, un pensiero che neppure riesce a costituirsi, poiché le cose (gli enti, l’onto-logico) di cui il pensiero è pensiero e senza le quali il pensiero neppure esisterebbe (ché, come s’è visto, il pensiero non può che essere pensiero dell’essere), non possono che esistere in modo armonico con il PDNC. Inoltre, si tenga presente che un’affermazione che mirasse a negare il PDNC (ossia, un’affermazione del tipo: “esiste un cerchio non-cerchio”) sarebbe affetta da falsità e non anche non affetta da falsità: sarebbe, insomma, un’affermazione che, nonostante il tentativo di mettere in scacco il PDNC, seguiterebbe a essere governata dal PDNC. Infatti, dire di un’affermazione che è affetta da falsità e non anche non affetta da falsità è dire che il pensiero che compie l’affermazione è assoggettato al PDNC, il quale prescrive appunto che qualcosa non sia “a e non-a”: nel caso, falso e non-falso. Né c’è da stupirsi: il pensiero è inscritto nell’ordine ontologico e pertanto non può che soggiacere alle strutture (trascendentali, cioè aventi una portata che si estende quanto è esteso l’essere intero, tutto l’essere) che sostanziano e regolano tutto ciò che è.

Il tentativo di scindere la logica dall’ontologia, il PDNC logico da quello ontologico è una movenza tipica della filosofia moderna e contemporanea, che scaturisce dalla convinzione secondo cui il pensiero non può sapere come stanno le cose, ma può sapere solo come noi le vediamo. Questa convinzione, che pare sorretta da un avvertito e spregiudicato senso critico, è però afflitta da autocontraddizione. Presuppone arbitrariamente (senza mostrare la cogenza di tale presupposto) che le cose stiano diversamente da come noi le conosciamo, che noi non si possa conoscere le cose in sé. Va obiettato che chi pretende di non conoscere le cose come esse sono, ma soltanto come gli appaiono, evidentemente, per ravvisare la differenza delle cose come esse sono dalle cose come gli appaiono (differenza in virtù della quale afferma di non conoscere le cose come esse sono, ma solo come gli appaiono) deve conoscere le cose come esse sono, e non soltanto come gli appaiono. Ma se conosce le cose come esse sono, è falsificata la tesi secondo cui le cose come esse sono non possono essere conosciute. Se invece non conosce la cose come esse sono, è impossibile che detenga qualche attendibile notizia sulla differenza tra le cose come esse sono e le cose come gli appaiono: sicché la presunzione che esistano cose non conoscibili per come sono è una presupposizione surrettizia. Ecco esibita l’autocontraddittarietà di cui discorrevo. In altri termini: se a Tizio non appaiono le cose come sono in sé stesse, ossia se le cose in sé stesse sono al di fuori della portata conoscitiva di Tizio, Tizio non può in alcun modo sapere (giacché appunto sono al di fuori della sua portata conoscitiva) che esistono cose godenti di proprietà ignote e diverse da quelle di cui godono le cose che gli appaiono, ossia le cose che sono alla sua portata conoscitiva. Tizio è fautore del dualismo gnoseologico che nega l’identità intenzionale di pensiero ed essere e arbitrariamente frappone tra l’uno e l’altro un’incolmabile alterità in virtù della quale si darebbe l’inaccessibilità dell’essere al pensiero. Una delle migliori confutazioni di questo dualismo, per rimanere in Italia, è quella svolta da Gustavo Bontadini, a lungo docente di filosofia teoretica all’Università Cattolica di Milano.

Tizio, teorizzatore della frattura fra pensiero e essere, tra logico e ontologico, ragiona così: si conceda che le cose, per come ci appaiono e possiamo conoscerle, non possono violare il PDNC, ma come sapere se le cose in sé (cioè, come noi non possiamo conoscerle) non possano violare il PDNC? L’interrogativo di Tizio, serbando l’ispirazione che lo anima, può anche articolarsi in altre declinazioni: non sono forse i principi che governano il pensiero umano (PDNC in testa) valevoli esclusivamente nei confini entro i quali si espleta l’umano conoscere, cosicché presumere che valgano per tutto ciò che esiste è applicare con tracotanza antropocentrica a ciò che esiste leggi che in realtà vincolano solo la angusta capacità conoscitiva umana, è accampare la pretesa che il mondo sia fatto come i limitati principi dell’umano pensiero riescono a conoscere che sia fatto? E ancora: non potrà forse il progredire della conoscenza delucidare che quanto oggi è contrabbandato per principio ineludibile è in realtà una mappa passabilmente attendibile per orientarsi nel campo dello scibile, mappa che l’incedere della conoscenza costringerà a modificare robustamente, sancendone forse un giorno la fallacia? E anche: sia pure che l’evidenza del PDNC è invincibile e che il pensiero umano non può imbastire alcuna strategia in grado di esautorarla; ma se anche il pensiero umano è avvinto al PDNC come a una invalicabile legge che gli è tanto intrinseca e connaturata da impedirgli di pensare all’esistenza di qualcosa che violi il PDNC, nondimeno perché il riconoscimento di tale principio come inevadibile per il pensiero umano sarebbe una prova irresistibile dell’impossibilità che le cose come esse sono si strutturino in opposizione al PDNC? Perché mai l’ostensione di un’insuperabile legge del pensiero umano, invulnerabile a dispetto di ogni tentativo dello stesso pensiero umano di sovvertirla, dovrebbe essere considerata condizione sufficiente a ostendere che l’impossibilità immanente al nostro pensiero è anche impossibilità immanente a tutte le cose come esse sono in sé stesse? Oltre che smascherando, come s’è fatto, la infondata presupposizione dualistica che sottende la posizione di Tizio, si deve rispondere osservando che ipotetiche cose contravvenienti al PDNC popolanti mondi nei quali non viga il PDNC sarebbero, appunto, da ipotesi, cose contravvenienti al PDNC e non anche non contravvenienti al PDNC. Infatti, se fossero cose non contravvenienti al PDNC, l’ipotesi cadrebbe, e l’obiettore aderirebbe all’affermazione dell’universale (trascendentale, cioè estesa per quanto si estende l’essere) validità del PDNC. Se si intende tener ferma l’ipotesi dell’esistenza di cose violanti il PDNC, occorre pertanto ritenere che esse contravvengano al PDNC e non anche non vi contravvengano (perché, se non vi contravvenissero, si cadrebbe nel caso testé esaminato, e l’ipotesi stessa dell’esistenza di cose contravvenienti al PDNC si dissolverebbe). L’obiettore, per configurare la propria ipotesi, è dunque obbligato dall’indole della sua stessa ipotesi a ipotizzare che le cose contravvenienti il PDNC non siano anche non contravvenienti il PDNC. Ma – come s’è già evidenziato – l’impossibilità che qualcosa sia “a e anche non-a” (in questo caso, che qualcosa sia “contravveniente al PDNC e non anche non contravveniente al PDNC”) non è altro che l’impossibilità stessa di violare il PDNC, il quale appunto denuncia che qualcosa non può essere “a e non-a”. In definitiva, l’ipotetico mondo in cui non vige il PDNC sarebbe strutturato in conformità al PDNC, non sarebbe affatto un mondo in cui non vige il PDNC.

Un’altra mossa praticata talora per indebolire il PDNC è quella di negare la “primalità” del PDNC, cioè di negarne lo statuto di principio primo, attribuendogli una qualche “secondarietà”. Il tentativo si dispiega cercando di mostrare che il PDNC può essere derivato in un calcolo logico: questo farne alcunché di derivato comprometterebbe, come rimarcato, lo statuto principiale del principio, gli conferirebbe una “secondarietà” che ne minerebbe la portata trascendentale. Ma qualsivoglia calcolo logico si architetti per mostrare che l’evidenza del PDNC sarebbe derivata non può che reggersi su regole di calcolo le quali nemmeno potrebbero costituirsi se non poggiassero sull’evidenza e sulla cogenza del PDNC, se non ne dipendessero: la regola tale non è la regola talaltra, prescrive questo e non non-questo; il tale simbolo logico non è il talaltro, sta per questo e non per quest’altro, e così via. Pertanto, qualsiasi calcolo, sviluppato all’interno di qualsiasi logica, che aspiri a guadagnare, a derivare l’evidenza del PDNC (deponendola così dal rango di evidenza prima, inderivabile, indimostrabile, anapodittica) incorre ineluttabilmente in una petitio principii: si sostenta cioè in virtù della vigenza del principio la cui vigenza il calcolo sarebbe adibito ad assodare (su questo versante del problema, e in genere sul tema della retta intelligenza del PDNC, è assai istruttivo lo studio di Paolo Pagani, Contraddizione performativa e ontologia, Milano 1999).

Alcune precisazioni vanno messe a punto. Asserire che si conoscono le cose come esse sono non è necessariamente dire che si conoscono le cose in modo esaustivo, ossia che si conosce di una cosa tutto ciò che essa è, ogni suo attributo, ma è dire che ciò che della cosa si conosce (poco o tanto che sia) è una autentica caratteristica della cosa, e non solo un nostro modo di vedere la cosa, un carattere che siamo noi, per così dire, ad assegnare alla cosa, e che non le appartiene in proprio. Ad esempio, posso anche ignorare se un’automobile è bianca o non è bianca (posso, cioè, non avere una conoscenza esaustiva dell’automobile), ma se non indulgo al fuorviante dualismo gnoseologico debbo riconoscere che un’automobile ha un colore (e non sono io ad attribuirle un colore che invece essa non ha in proprio), e che o è bianca o non è bianca. Inoltre, se so che non è bianca, non è detto che sappia se è verde o nera: il PDNC mi fa sapere in modo incontrovertibile che, se non è bianca, non può essere bianca, ma lascia aperto un campo semantico esteso quanto tutto ciò che è il non-bianco, all’interno del quale giace il colore che compete alla mia automobile. Inoltre, il PDNC non mette al riparo dall’errore: se so che questo sasso non pesa 1 kg e se onoro il PDNC non posso incappare nell’errore di pensare che pesi 1 kg, ma non sono preservato dall’errore di pensare che pesi 2 kg, mentre ne pesa 3. Come consta, contrastare il dualismo gnoseologico e difendere il PDNC non è civettare spensieratamente con una concezione della conoscenza umana come alcunché di illimitato e infallibile. L’uomo sa che tutto ciò che è, quale che esso sia e come esso sia, non può essere contraddittorio. Sapere ciò non è conoscere senza residui di ignoranza e senza possibilità di errore tutto ciò che esiste. Il PDNC non proibisce che esistano cose che l’uomo non si immagina e ignora, caratterizzate da proprietà che l’uomo non si immagina e ignora. Affermando la portata trascendentale del PDNC non si sopprime lo spesso imprevedibile e sterminato rigoglio delle differenze e della sconfinata ricchezza e variegata molteplicità di ciò che è, ed è per lo più ignoto agli uomini: soltanto, si prende atto che tale rigoglio e tale ricchezza non potrebbero neppure darsi se ledessero il PDNC (logico e ontologico, ormai è chiaro).

La ricognizione condotta, che certo andrebbe protratta e affinata, ritengo mostri che (ove si sia smarrita) vada recuperata la consapevolezza dell’intima interdipendenza e compenetrazione tra PDNC logico e PDNC ontologico proclamata dal pensiero filosofico classico e paradigmaticamente illustrata da Aristotele nel libro Gamma della Metafisica, nel quale il PDNC è validamente difeso contro i suoi obiettori, mostrando che chi nega il PDNC, nell’atto stesso di negarlo, non può che usare del PDNC che nega a parole. Il PDNC difeso da Aristotele è appunto PDNC inseparabilmente logico e ontologico, al di là di ogni cesura tra pensiero ed essere, e così è per Tommaso d'Aquino, attento commentatore della Metafisica aristotelica. Tale inseparabilità di PDNC logico e ontologico può essere apprezzata anche riguardandola dal versante della nota concezione classica della verità quale adaequatio intellectus et rei, “corrispondenza/conformità tra la conoscenza e l’essere” (cfr. Summa theologiae, I, q.16, a.1; Questiones disputatae de veritate, q. 1, a.1). Che è, tale corrispondenza, se non appunto la capacità propria del pensiero di manifestare l’essere, se non l’autentico manifestarsi dell’essere nel pensiero? Daccapo, siamo riportati all’inscindibile reciprocità di PDNC logico e ontologico. A proposito, Tommaso afferma in modo pregnante che (Summa theologiae I, q. 16, a. 3) «verum quod est in intellectu, convertitur cum ente, ut manifestativum cum manifestato». Ossia, la verità sta nell’intelletto, nella conoscenza (verum est in intellectu), ma è tanto estesa quanto si estende il campo dell’essere (così traduco “convertitur cum ente”), poiché la conoscenza non è altro che manifestazione dell’essere che in essa si manifesta (ut manifestativum cum manifestato). E ancora (ibidem, q. 16, a. 3) «Unumquodque autem inquantum habet de esse, intantum est cognoscibile. Et propter hoc dicitur in III de anima, quod anima est quodammodo omnia secundum sensum et intellectum». Ossia, ogni cosa tanto più è conoscibile, quanto più ha di essere. Vale a dire: la conoscenza è tanto più se stessa, quanto più si volge all’essere e lo manifesta. E l’essere non è fuori portata della conoscenza (non è così straniero alla conoscenza da essere inconoscibile, da godere di prerogative assolutamente celate alla conoscenza, fors’anche della prerogativa di poter essere contraddittorio), talché Aristotele nel De Anima dice (dicitur in III de anima) che «anima est quadammodo omnia», che la facoltà conoscitiva è “in qualche modo tutte le cose”, ossia si esercita su un raggio d’azione illimitato, la cui latitudine s’estende all’intero campo dell’essere. Come precisato sopra, questa illimitata latitudine dell’intenzionalità umana non può essere confusa con una qualche forma di onniscienza: l’intelligenza umana ha in vista tutto l’essere, ma l’ha in vista nei modi e nei limiti inerenti alla sua condizione finita. La finitudine ontica umana, l’essere collocato in una prospettiva, in un punto di vista, non preclude tuttavia l’apertura trascendentale (propriamente ontologica, avente come dominio di esercizio tutto l’essere, e non meramente ontica come sarebbe se non potesse eccedere i confini di questo o quest’altro ente), non oppone remora a che da quel punto di vista sia dato riguardare tutto l’essere. Anzitutto conoscendone le costanti indefettibili, cioè quelle proprietà trascendentali nelle quali è inclusa a pieno diritto la non–contraddittorietà.

Affiora talvolta un’obiezione di questo tenore: non è troppo potente un PDNC che nemmeno Dio può violare? Dio è detronizzato dal PDNC che, detronizzandoLo, s’intronizza? Insomma, chi è il vero Dio: Nostro Signore o il PDNC?

Abbozzo qualche considerazione al riguardo. Il PDNC proibisce che alcunché sia contraddittorio. Ma perché il PDNC abbia occasione di applicarsi, occorre che qualcosa ci sia. E che cosa ci sia, e come sia ciò che c’è, non è il PDNC, ma Dio soltanto a stabilire. Questo tavolo non esiste? E’ contraddittorio che anche esista, ma che esista o non esista dipende da Dio e da Dio soltanto. Certamente, se a esiste non può non esistere, ma che esista o non esista dipende solo ed esclusivamente da Dio. Infatti il falegname che costruisce il tavolo dipende da Dio. Si dirà: il falegname è libero di costruire o non il tavolo. Sicuramente, ma non è libero di darsi la libertà, che Dio soltanto è libero di dare o non dare.

In sintesi: il PDNC deve aver ciò su cui si applica, e ciò su cui si applica o è Dio è non lo è. Ciò che non lo è, come detto dipende da Dio, sicché il PDNC, bisognoso di ciò che non è Dio per esercitare la propria principalità, dipende da (ne è bisognoso, appunto) ciò che non è Dio e, poiché ciò che non è Dio dipende da Dio, anche il PDNC dipende da Dio (e, pertanto, ultimamente dipende soltanto da Dio).

Certamente, ciò non toglie che nemmeno Dio possa far sì che questo tavolo sia contraddittorio (ossia, ad esempio, che sia e al tempo stesso non sia). Il principio esercita insomma una reale potestà su ciò che non è Dio, ma i “sudditi” sui quali il PDNC esercita tale potestà glieli fornisce solo e soltanto Dio, la cui potestà è dunque sovranamente sovraordinata a quella del PDNC. Va inoltre rilevato che Dio può riservarsi ampi margini di manovra sul proprio sottomesso PDNC. L’acqua non s’infiamma, ma a Dio piacendo può infiammarsi: sto alludendo allo spazio dischiuso al miracolo, che non ha alcunché di contraddittorio (anche se dire che non consta la contraddittorietà del miracolo non equivale ad affermare che esistano miracoli: posso sapere che qualcosa non è contraddittorio, senza sapere se esiste). Contraddittorio sarebbe che l’acqua a un tempo bruciasse e non bruciasse, e contraddittorio sarebbe che l’acqua che per sua natura non può bruciare bruci senza che qualcosa/Qualcuno intervenga a modificarne la natura tanto da renderla compatibile con la combustione. Certo – Tommaso docet – Dio non può far sì che questo tavolo che è (e tutto ciò che è evocato dicendo “questo tavolo che è” dipende da Dio) sia e non sia a un tempo.

Dio è incontraddittorio, non viola il PDNC. Se dico che Dio è incontraddittorio, sto affermando che è asservito al PDNC? No, sto dicendo che Dio è Dio e non è non Dio (si fa qui patente che PDNC e principio di identità fanno circolo, o meglio sono un solo e medesimo principio). Essere sé stessi e non essere non sé stessi è forse essere soggiogati al PDNC come a qualcosa di estrinsecamente normativo? O piuttosto essere sé stessi (e non essere non sé stessi) non è altro che un dipendere da sé stessi, che risulta infine un non dipendere affatto? Può infatti correttamente appellarsi “dipendenza” il dipendere da sé stessi? E l’infrangere il PDNC, l’essere contraddittori, ossia il non poter neppure essere sé stessi e non anche non sé stessi – l’essere, insomma, contraddittoriamente, sé stessi e insieme non sé stessi – è forse una più mirabile e pregevole forma di indipendenza? Una indipendenza senza l’indipendente, il quale – essendo contraddittorio – neppure riesce a essere sé stesso, e perciò neppure riesce a esistere, sarebbe una divina indipendenza, o la peggiore delle schiavitù?


3. La Rivelazione non viola i princìpi filosofici universalmente veri


Scrive Nayed: «Naturalmente, a dispetto dell’autorità dell’Aquinate sulle cose razionali e logiche, l’Aquinate stesso, e la Chiesa cattolica, lungo la loro esistenza hanno dovuto preservare uno spazio per cose che sorpassano la logica e che non si attengono ordinatamente alle categorie della logica umana. Questo è l’unico modo per preservare i vincolanti (per loro) insegnamenti di Paolo e di altri saggi cristiani intorno alla “Sapienza di Dio” che trascende la “Sapienza del Mondo”. L’appello a una tale “extrarazionalità” è molto chiaro negli insegnamenti vincolanti della Chiesa cattolica. La stessa “Fides et ratio” presenta molti passaggi che difendono precisamente una posizione siffata non sulla base della “Ragione” ma sulla base della “Rivelazione”».

Non posso che dissentire. I testi considerati sono un breve ma eloquente saggio di quanto sia totalmente estraneo al metodo teologico di Tommaso tessere il convinto elogio della ragione che c’è data da Dio, percorrerne con pazienza i sentieri e poi, di fronte ai presunti (da Nayed) elementi di incompatibilità fra ragione e Rivelazione, per non dover abdicare al proprio credo, acconciarsi a ritagliare alla fede una sorta di zona franca in cui essa possa sopravvivere, una nicchia oltre-razionale e oltre-logica, immune dalle categorie della logica umana e sottratta alla giurisdizione del PDNC. Sarebbe questa una posizione che non vedo come non si possa dire segnata da un esigenzialismo fideista che è in disaccordo con l’ortodossia cattolica non meno che con Tommaso. Il quale ritiene e afferma – come s’è chiarito – che ciò che è contraddittorio non può esistere. Pertanto, se avesse avvistato una qualche contraddittorietà dell’essere Dio Uno e Trino, coerentemente avrebbe segnalato l’impossibilità che esista un Dio Uno e Trino, e con ciò avrebbe diffidato dal credere in un contenuto di fede che la ragione apprende essere inficiato da violazione del PDNC. Se Tommaso non si è mai industriato a mettere in guardia dalla fede nella Trinità, è perché ai suoi occhi la Trinità non è affatto contraddittoria, non viola i principi della ragione e dell’essere. Per Tommaso, come per il magistero cattolico, dati di Rivelazione quali l’essere Uno e Trino di Dio e l’essere Gesù Cristo vero uomo e vero Dio non sono asserti irrazionali, contro ragione, che possano istituirsi in violazione del PDNC, quale prototipo dei principi che presiedono al pensiero razionale (e all’essere, stante la richiamata inseparabilità tra il logico e l’ontologico). Se Tommaso e la Chiesa sorprendessero nel dato rivelato un’effrazione del PDNC, dovrebbero proclamare che la Rivelazione s’inganna e inganna. Ma per Tommaso e per il magistero cattolico nessun articolo di fede è afflitto da contraddizione, è contro ragione. Quando il magistero insegna che il dato rivelato oltrepassa la ragione, non insegna che si pone contro la ragione e i suoi principi (su tutti, il PDNC), ma soltanto che la ragione non può approdare con le sue sole forze a dimostrare gli articoli di fede.

Ecco una rassegna (tutt’altro che esaustiva, beninteso) di testi tommasiani espliciti al riguardo:

– Questiones disputatae de veritate, q. 14, a. 10: «habere fidem de his quae sunt supra rationem, necessarium est ad vitam aeternam consequendam» («Avere fede nelle cose che superano la ragione è necessario per raggiungere la vita eterna»).

– Super libros Boethii De Trinitate, pars 1, q. 1, a. 4 «Responsio. Dicendum quod Deum esse trinum et unum est solum creditum, et nullo modo potest demonstrative probari […] Deum non cognoscimus in statu viae nisi ex effectibus […] Trinitas autem personarum non potest percipi ex ipsa causalitate divina, cum causalitas sit communis toti Trinitati. […] Unde nullo modo demonstrative probari potest Deum esse trinum et unum» («Che Dio sia Uno e Trino è solo creduto, e in nessun modo può essere provato per via dimostrativa. Nello stato presente – in statu viae: cioè, finché siamo pellegrinanti in questo mondo che è via verso la patria celeste – non conosciamo Dio se non tramite gli effetti. La Trinità delle persone non può essere conosciuta partendo dalla considerazione della causalità divina, poiché la causalità è comune alla Trinità intera. Perciò non si può provare in alcun modo tramite dimostrazione razionale che Dio sia Trino e Uno»).

– Super IV Sententiarum, lib. 1, d. 2, q. 1, a. 4: «Respondeo: concedendum est absque ulla ambiguitate, esse in Deo pluralitatem suppositorum vel personarum in unitate essentiae, non propter rationes inductas, quae non necessario concludunt, sed propter fidei veritate» («Rispondo.Va concesso senza alcuna ambiguità che in Dio c’è una pluralità di suppositi o persone in un’unica essenza; ciò non va concesso in forza di argomenti razionali, che non concludono secondo necessità, ma in forza della verità della fede»).

– Super Sent., lib. 1, d. 3, q. 1, a. 4: «Respondeo dicendum, quod per naturalem rationem non potest perveniri in cognitionem Trinitatis personarum […] Et hujus ratio est, quia naturalis ratio non cognoscit Deum nisi ex creaturis. Omnia autem quae dicuntur de Deo per respectum ad creaturas, pertinent ad essentiam et non ad personas. Et ideo ex naturali ratione non venitur nisi in attributa divinae essentiae» («Rispondo e dico che non si può giungere alla conoscenza della Trinità delle persone tramite la ragione naturale. Motivo di ciò è che la ragione naturale non conosce Dio se non partendo dalle creature. Orbene, tutte le cose che si dicono di Dio con riguardo alle creature concernono l’essenza e non le persone. Perciò con la ragione naturale non si giunge se non agli attributi della essenza divina»).

– Summa contra Gentiles, lib. 1, cap. 3: «Est autem in his quae de Deo confitemur duplex veritatis modus. Quaedam namque vera sunt de Deo quae omnem facultatem humanae rationis excedunt, ut Deum esse trinum et unum. Quaedam vero sunt ad quae etiam ratio naturalis pertingere potest, sicut est Deum esse, Deum esse unum, et alia huiusmodi; quae etiam philosophi demonstrative de Deo probaverunt, ducti naturalis lumine rationis» («Nelle verità che professiamo riguardo a Dio vi è un duplice modo di verità. Ci sono infatti alcune verità su Dio che eccedono ogni capacità della ragione umana, come ad esempio che Dio è Uno e Trino. Ve ne sono poi alcune che anche la ragione umana può attingere, come ad esempio che Dio esiste, che è uno, e altre di questo tipo; i filosofi hanno provato queste verità per via dimostrativa, guidati dal lume della ragione naturale»). «Si intellectus humanus, alicuius rei substantiam comprehendit, puta lapidis vel trianguli, nullum intelligibilium illius rei facultatem humanae rationis excedet. Quod quidem nobis circa Deum non accidit. Nam ad substantiam ipsius capiendam intellectus humanus naturali virtute pertingere non potest: cum intellectus nostri, secundum modum praesentis vitae, cognitio a sensu incipiat; et ideo ea quae in sensu non cadunt, non possunt humano intellectu capi, nisi quatenus ex sensibilibus earum cognitio colligitur. Sensibilia autem ad hoc ducere intellectum nostrum non possunt ut in eis divina substantia videatur quid sit: cum sint effectus causae virtutem non aequantes. Ducitur tamen ex sensibilibus intellectus noster in divinam cognitionem ut cognoscat de Deo quia est, et alia huiusmodi quae oportet attribui primo principio. Sunt igitur quaedam intelligibilium divinorum quae humanae rationi sunt pervia; quaedam vero quae omnino vim humanae rationis excedunt» («Se l’intelligenza umana comprende la sostanza di una certa cosa – come ad esempio di una pietra o di un triangolo – nessuno degli aspetti intelligibili di quella cosa eccede la capacità della ragione umana. Ma ciò non può accaderci per quanto concerne Dio. Infatti l’intelligenza umana non può, con la propria capacità naturale, giungere a comprendere la sostanza di Dio: giacché la conoscenza del nostro intelletto, nello stato della vita presente, incomincia dai sensi; e perciò le cose che non cadono sotto i sensi, non possono essere comprese dall’intelligenza umana, se non in quanto la loro conoscenza è desunta dalle cose sensibili. Le cose sensibili non possono dunque condurre la nostra intelligenza a tal punto che in tali realtà sensibili sia dato vedere che cosa sia la sostanza divina: poiché sono effetti che non uguagliano la potenza – la perfezione – della causa. Tuttavia la nostra intelligenza dalle cose sensibili è condotta alla conoscenza divina, affinché conosca che Dio esiste e altri aspetti che occorre attribuire al primo principio. Dunque vi sono alcuni aspetti delle verità divine conoscibili che sono accessibili alla ragione umana, mentre ve ne sono di quelli che eccedono del tutto la forza dell’umana ragione»).

– Super libros Boethii De Trinitate, pars 1, q. 2, a. 3:

«Utrum in scientia fidei quae est de Deo liceat rationibus philosophicis et auctoritatibus uti. Responsio. Dicendum quod dona gratiarum hoc modo naturae adduntur quod eam non tollunt, sed magis perficiunt; unde et lumen fidei, quod nobis gratis infunditur, non destruit lumen naturalis rationis divinitus nobis inditum. Et quamvis lumen naturale mentis humanae sit insufficiens ad manifestationem eorum quae manifestantur per fidem, tamen impossibile est quod ea, quae per fidem traduntur nobis divinitus, sint contraria his quae sunt per naturam nobis indita. Oporteret enim alterum esse falsum; et cum utrumque sit nobis a Deo, Deus nobis esset auctor falsitatis, quod est impossibile. Sed magis cum in imperfectis inveniatur aliqua imitatio perfectorum, in ipsis, quae per naturalem rationem cognoscuntur, sunt quaedam similitudines eorum quae per fidem sunt tradita» («Domanda: se nella scienza della fede che riguarda Dio sia lecito valersi di argomenti filosofici e delle autorità. Risposta. Va detto che i doni della grazia si aggiungono alla natura in modo tale che non la eliminano, ma la rendono più perfetta; dunque anche il lume della fede, che c’è infuso per grazia, non distrugge il lume della ragione naturale deposto in noi da Dio. E malgrado il lume naturale della mente umana sia insufficiente a rendere manifesto ciò che viene reso manifesto attraverso la fede, tuttavia è impossibile che ciò che ci è consegnato da Dio attraverso la fede sia contrario a ciò che è deposto in noi per natura. Infatti (se ciò avvenisse) occorrerebbe che una delle due cose sia falsa; e poiché riceviamo entrambe da Dio, Dio sarebbe nei nostri confronti l’artefice della falsità, cosa impossibile. Piuttosto, poiché nelle cose imperfette si coglie una qualche imitazione delle perfette, nelle cose che si conoscono tramite la ragione naturale vi sono alcune somiglianze con le cose che ci sono comunicate per fede»).

«Sicut autem sacra doctrina fundatur supra lumen fidei, ita philosophia fundatur supra lumen naturale rationis; unde impossibile est quod ea, quae sunt philosophiae, sint contraria his quae sunt fidei, sed deficiunt ab eis. Continent tamen aliquas eorum similitudines et quaedam ad ea praeambula, sicut natura praeambula est ad gratiam. Si quid autem in dictis philosophorum invenitur contrarium fidei, hoc non est philosophia, sed magis philosophiae abusus ex defectu rationis. […] Sicut enim ea quae sunt fidei non possunt demonstrative probari, ita quaedam contraria eis non possunt demonstrative ostendi esse falsa, sed potest ostendi ea non esse necessaria» («Come la sacra dottrina si fonda sul lume della fede, così la filosofia si fonda sul lume della ragione. Perciò è impossibile che le cose che appartengono alla filosofia siano contrarie a quelle che appartengono alla fede: soltanto, le cose che appartengono alla filosofia mancano di quelle che appartengono alla fede. Contengono tuttavia alcune somiglianze con quelle di fede e un qualche preambolo (una qualche introduzione) ad esse, così come la natura è preambolo alla grazia. Pertanto se nelle sentenze del filosofi si ritrova qualcosa di contrario alla fede, questo non è filosofia, ma piuttosto abuso della filosofia (scorretto esercizio della filosofia) dovuto a un manco di ragione (cioè, a un uso manchevole della ragione). Come infatti le verità proprie della fede non possono essere provate per via dimostrativa, così alcune affermazioni contrarie ad esse non si può mostrare che sono false per via dimostrativa, ma si può mostrare che non sono affermazioni cogenti»).

«Sic ergo in sacra doctrina philosophia possumus tripliciter uti. Primo ad demonstrandum ea quae sunt praeambula fidei, quae necesse est in fide scire, ut ea quae naturalibus rationibus de Deo probantur, ut Deum esse, Deum esse unum et alia huiusmodi vel de Deo vel de creaturis in philosophia probata, quae fides supponit. Secundo ad notificandum per aliquas similitudines ea quae sunt fidei, sicut Augustinus in libro de Trinitate utitur multis similitudinibus ex doctrinis philosophicis sumptis ad manifestandum Trinitatem. Tertio ad resistendum his quae contra fidem dicuntur sive ostendendo ea esse falsa sive ostendendo ea non esse necessaria» («Perciò nella sacra dottrina possiamo servirci della filosofia in tre modi. Nel primo modo, per dimostrare quelli che sono i preamboli della fede, che sono necessari nel sapere della fede, come le cose – ossia che Dio esiste, è uno, e altre verità di questo tipo a riguardo di Dio o delle creature – che di Dio si provano con argomenti di ragione naturale in una filosofia fondata, che la fede presuppone. Nel secondo modo, ci si può servire della filosofia nella sacra dottrina per rendere chiari attraverso qualche similitudine i contenuti di fede, così come Agostino nel De Trinitate adopera per presentare la Trinità molte similitudini tratte da dottrine filosofiche. Nel terzo modo, per resistere agli argomenti che si adducono contro la fede, o mostrando che sono falsi o mostrando che non sono cogenti»).

«Tamen utentes philosophia in sacra doctrina possunt dupliciter errare. Uno modo in hoc quod utantur his quae sunt contra fidem, quae non sunt philosophiae, sed corruptio vel abusus eius, sicut Origenes fecit. Alio modo, ut ea quae sunt fidei includantur sub metis philosophiae, ut scilicet si aliquis credere nolit nisi quod per philosophiam haberi potest, cum e converso philosophia sit ad metas fidei redigendo» («Tuttavia coloro che si avvalgono della filosofia nella sacra dottrina possono errare in due modi. Un modo è quello di far ricorso, come fece Origene, ad argomenti che sono contro la fede: e questi argomenti non sono propri della filosofia, ma ne sono un abuso o una corruzione. L’altro modo è quello di annoverare tra le mete della filosofia le cose che spettano alla fede, come accadrebbe se qualcuno non volesse credere se non ciò che è acquisito tramite la filosofia, mentre al contrario la filosofia va indirizzata alle mete della fede»).

– Summa contra Gentiles, lib. 1, cap. 7:

«Quod veritati fidei Christianae non contrariatur veritas rationis» («Che la verità di ragione non contrasta con la verità della fede cristiana»).

«Quamvis autem praedicta veritas fidei Christianae humanae rationis capacitatem excedat, haec tamen quae ratio naturaliter indita habet, huic veritati contraria esse non possunt» («Nonostante la suddetta verità della fede sorpassi la capacità della ragione umana, le cose che la ragione naturalmente racchiude in sé non possono essere contrarie a questa verità»).

«Ea enim quae naturaliter rationi sunt insita, verissima esse constat: in tantum ut nec esse falsa sit possibile cogitare. Nec id quod fide tenetur, cum tam evidenter divinitus confirmatum sit, fas est credere esse falsum. Quia igitur solum falsum vero contrarium est, ut ex eorum definitionibus inspectis manifeste apparet, impossibile est illis principiis quae ratio naturaliter cognoscit, praedictam veritatem fidei contrariam esse» («Infatti consta che le cose che per natura sono insite alla ragione sono verissime: al punto che che non è neppure possibile pensare che siano false. Né è lecito credere che sia falso ciò che viene professato per fede, poiché è stato confermato in modo così evidentemente divino. Poiché dunque solo il falso è contrario al vero, come appare manifestamente dalle loro accertate definizioni, è impossibile che la suddetta verità della fede sia contraria a quei principi che la ragione conosce naturalmente»).

«Illud idem quod inducitur in animam discipuli a docente, doctoris scientia continet: nisi doceat ficte, quod de Deo nefas est dicere. Principiorum autem naturaliter notorum cognitio nobis divinitus est indita: cum ipse Deus sit nostrae auctor naturae. Haec ergo principia etiam divina sapientia continet. Quicquid igitur principiis huiusmodi contrarium est, divinae sapientiae contrariatur. Non igitur a Deo esse potest. Ea igitur quae ex revelatione divina per fidem tenentur, non possunt naturali cognitioni esse contraria» («Il sapere del maestro contiene la medesima cosa che il maestro inculca nell’animo del discepolo: a meno che non insegni in modo ingannevole, ma di Dio non è lecito dire ciò. La conoscenza dei principi naturalmente noti è deposta in noi da Dio: poiché Dio stesso è l’autore della nostra natura. Dunque anche la divina sapienza contiene (ha in sé) questi principi. Pertanto tutto ciò che è in contrasto con i principi di questo tipo contrasta con la divina sapienza. Perciò non può venire da Dio. Le cose dunque che si professano per fede in virtù della Rivelazione divina non possono essere in contrasto con la conoscenza naturale»).

«Ex quo evidenter colligitur, quaecumque argumenta contra fidei documenta ponantur, haec ex principiis primis naturae inditis per se notis non recte procedere. Unde nec demonstrationis vim habent, sed vel sunt rationes probabiles vel sophisticae. Et sic ad ea solvenda locus relinquitur» («Per cui si conclude con evidenza che, quali che siano le argomentazioni che vengono avanzate contro gli insegnamenti della fede, non derivano correttamente dai principi primi per sé noti insiti nella natura. Pertanto non hanno neppure forza dimostrativa, ma o sono argomentazioni meramente probabili o soltanto sofistiche. E perciò rimane spazio per confutarle»).

Investigando il tema della Trinità, Tommaso rifugge dalla tentazione di considerarLa qualcosa di impossibile, di contraddittorio, ma afferma che è indimostrabile che Dio sia Uno e Trino. Tommaso s’adopera lungamente con mirabile perspicacia a controbattere le tesi di quanti ritengono di riscontrare la contraddittorietà dell’essere Uno e Trino di Dio (si confronti anche solo Summa theologiae I, qq. 28–43). La sua conclusione è: non è contraddittorio che Dio sia Uno e Trino (e lo stesso dicasi quanto all’essere Gesù Cristo vero uomo e vero Dio), ma la sola ragione non può pervenire alla notizia incontrovertibile dell’unitrinità di Dio: non di tutto ciò di cui si può mettere in luce l’incontraddittorietà è dato dimostrare incontrovertibilmente che esiste. Pertanto, Tommaso dimostra l’esistenza di Dio, afferma che non si può dimostrare con la sola ragione che Dio sia Uno e Trino e mostra che non è contraddittoria quell’unitrinità di Dio in cui crede, e della quale il competere a Dio afferma che non esistono né possono esistere argomenti soltanto razionali validi a provare. Non interessa qui prendere partito a riguardo della cogenza degli argomenti impiegati da Tommaso per dimostrare l’esistenza di Dio e per rischiarare la non contraddittorietà dell’unitrinità di Dio: importa il fatto che Tommaso non accetti che qualcosa, incluso quanto si professa per fede (e che, come l’unitrinità di Dio, non può essere guadagnato per via meramente razionale), sia contraddittorio. D’altra parte, non mi pare consti l’impossibilità che 1) io non possa sapere, con il solo lume della ragione, se qualcosa esiste e 2) nondimeno al lume della mia ragione tale qualcosa si palesi incontraddittorio, non impossibilitato a esistere.

Per quanto concerne pertanto le presunte infrazioni al PDNC contenute nelle dottrina cattolica (quali la professione di Dio Uno e Trino e l’essere Gesù Cristo vero uomo e vero Dio) alle quali fa riferimento Nayed, non basta menzionare l’opinione di «molti teologici musulmani» per i quali l’idea di un Dio uomo (e quella di un Dio Uno e Trino) è dello stesso genere di quella di un “cerchio quadrato”, cioè è un’idea contraddittoria: la contraddittorietà di un Dio–uomo (e dell’unitrinità di Dio) va provata, e come s’è evidenziato un teologo non meno autorevole di quelli convocati da Nayed, Tommaso d’Aquino, riteneva fermamente che l’umanità e divinità di Cristo e l’essere Dio Uno e Trino non violassero il PDNC.

Vale la pena ribadire che la posizione di Tommaso è la seguente: la Rivelazione è necessaria all’uomo ed eccede la ragione umana, ma non può porsi contro la ragione, e quindi anzitutto non può violare il PDNC. Non diversamente insegna l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (nonostante Nayed sia d’opposto parere, francamente non vedo su quali basi giustificato), la quale elogia il rapporto fede-ragione praticato da Tommaso (n. 78, sottolineature mie: «Nella sua riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione»), e coerentemente ricorda al cattolico che:

1) La Rivelazione è necessaria a somministrare all’uomo la pienezza dei mezzi salvifici, e non può essere surrogata da alcun ritrovato della ragione umana:

«Alla luce di queste considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza personale, dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia. Ambedue, anche se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo “sentiero della vita” (Sal 16 [15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno e Trino» (Fides et ratio, n. 15, sottolineature mie)

2) la Rivelazione perfeziona ma non abroga la ragione, non ne sovverte i principi, poiché la ragione è capace di verità, e quanto è guadagnato con un retto esercizio della ragione (e quindi non può essere contraddittorio, posto che l’osservanza del PDNC è condizione indispensabile per un retto esercizio della ragione) non può essere sconfessato dal dato rivelato. La ragione è donata da Dio all’uomo, e pertanto l’esercizio corretto della ragione non può urtare con la Rivelazione, la quale è pure donata da Dio all’uomo:

«Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi – siano essi funzionali, formali o utili – del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all'essere stesso dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica (Cfr, ad esempio, S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 16,1; S. Bonaventura, Coll. in Hex., 3, 8, 1). Questa esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano II: “L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata” (Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15)» (Fides et ratio, n. 82, sottolineature mie).

«Il Concilio partiva dall'esigenza fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità naturale dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa (Cfr Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, II: DS 3004; e can. 2, 1: DS 3026), e concludeva con l'asserzione solenne già citata: “esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto” (Ibid., IV: DS 3015, citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59). Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d'altra parte, contro le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l'unità della verità e, quindi, anche l'apporto positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza di fede: “Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero” (Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017)» (Fides et ratio, n. 53, sottolineature mie).

«Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini» (Fides et ratio, n. 55, sottolineature mie).

Se il dato rivelato potesse contravvenire al PDNC, l’enciclica non s’intitolerebbe Fides et ratio, ma, sotto il segno di una perentoria disgiunzione: aut fides aut ratio, o fede o ragione. Il magistero cattolico scoraggia pertanto dall’intendere la fede in modo irrazionale, dallo stimare che il dato rivelato possa essere contro-ragione (anzitutto, contro il PDNC), perché ravvisa in questo atteggiamento la sempre risorgente insidia di abbandonarsi al fideismo: quel fideismo il cui motto potrebbe appunto essere “aut fides aut ratio”, “o fede o ragione”. Non cedere al fideismo irrazionalistico non è essere razionalisti. Il razionalista è colui che, accettata la disgiunzione “o fede o ragione”, si schiera dalla parte della ragione rinnegando ogni autonomia alla fede, rigettando ogni forma di religione rivelata o al più cercando di neutralizzare la rivelazione mutilandola della propria insostituibile specificità e necessità, addomesticandola entro il recinto della sola ragione; il fideista è colui che, accettata la medesima disgiunzione, sacrifica la ragione per tener salda la fede, temendo che la ragione irretisca la fede in un apparato concettuale che ne soffoca lo slancio e ne snatura l’autenticità. Il magistero cattolico, proclamando l’armonia di fede e ragione, intende evitare gli opposti sviamenti del razionalismo e del fideismo. Anche la dottrina morale della Chiesa tiene ferma l’armonia tra fede e ragione. Nell’enciclica Veritatis splendor (1993) – il più approfondito documento elaborato in proposito sotto il pontificato di Giovanni Paolo II – si legge al n. 72, sottolineature mie:

«La moralità degli atti è definita dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico. Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell'uomo (e così è “legge naturale”), quanto – in modo integrale e perfetto – attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata “legge divina”)».

E al n. 45, sottolineature mie:

«Anche se nella riflessione teologico–morale si è soliti distinguere la legge di Dio positiva o rivelata da quella naturale, e nell'economia della salvezza la legge “antica” da quella “nuova”, non si può dimenticare che queste e altre utili distinzioni si riferiscono sempre alla legge il cui autore è lo stesso unico Dio, e il cui destinatario è l'uomo. I diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e dell'uomo, non solo non si escludono tra loro, ma al contrario si sostengono e si compenetrano a vicenda».

Nayed reputa che il seguente estratto della Fides et ratio testimoni che «a dispetto dell’autorità dell’Aquinate sulle cose razionali e logiche, l’Aquinate stesso, e la Chiesa cattolica, lungo la loro esistenza hanno dovuto preservare uno spazio per cose che sorpassano la logica e che non si attengono ordinatamente alle categorie della logica umana. Questo è l’unico modo per preservare i vincolanti (per loro) insegnamenti di Paolo e di altri saggi cristiani intorno alla “Sapienza di Dio” che trascende la “Sapienza del Mondo” […] La stessa Fides et ratio presenta molti passaggi che difendono precisamente una posizione siffata non sulla base della “Ragione” ma sulla base della “Rivelazione”»:

«Nel primo Concilio Vaticano, i Padri avevano sottolineato il carattere soprannaturale della Rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in quel periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare» (Fides et ratio, n. 8, sottolineatura mia).

Ma è evidente che questo passaggio dell’enciclica non avvalora affatto la tesi, sostenuta da Nayed, secondo cui la Rivelazione potrebbe porsi al di fuori dei principi razionali umani, svincolata da ogni logica della non contraddizione. Il severo monito di questo luogo dell’enciclica è indirizzato contro l’uso errato della ragione, e segnatamente contro il razionalismo, non già contro la ragione, che anzi l’enciclica ribadisce essere «capace per sua natura di giungere fino al Creatore».

L’altro estratto dell’enciclica addotto da Nayed è contenuto nel n. 23:

«Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra “la sapienza di questo mondo” e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.

«L'inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. “Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?” (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1 Cor 1, 27–28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10). L'uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera “follia” e “scandalo”. Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: “Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell'amore rivelato nella croce di Cristo, l'Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza.

«La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all'universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l'incessante trascendersi dell'uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella “follia” della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell'oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare».

Queste intense riflessioni dell’enciclica non vanno scambiate per un incitamento a che la ragione al cospetto della Rivelazione riconosca di essere radicalmente impotente, accantoni i propri principi e accolga un dato, quello rivelato, che si porrebbe in contrapposizione irriducibile con la logica della ragione. Il papa e filosofo Giovanni Paolo II non sta qui argomentando a favore di un’alterità vertiginosa, un’irrimediabile incommensurabilità tra fede e ragione, ma sta formulando un’esortazione alla filosofia affinché, ricercando la verità, non si areni nelle secche di sistemi falsi, ma osi l’audacia di farsi interpellare dallo scandalo della croce, di un Dio che s’incarna, muore e risorge per gli uomini. Il pontefice sprona la ragione a guardare senza timore alla croce di Cristo, alla «novità radicale» che essa introduce, la quale non avvilisce la ragione né estingue la validità dei suoi principi, ma la purifica, se solo la ragione accetta di essere sé stessa, cioè di esercitarsi spregiudicatamente secondo i principi che le sono propri (incluso, ovviamente, il PDNC), senza rinserrarsi in sistemi angusti che ne frustrano le potenzialità e la ostacolano nel riconoscere nell’incarnazione di Cristo un’autentica e ultimativa possibilità di risposta consegnata dalla Rivelazione al pensiero umano, impegnato nell’indagare il senso intimo dell’esistenza.

Risalta pertanto che termini come “paradosso”, “follia”, “scandalo” non assumono alcuna inflessione irrazionalistica, e che Fides et ratio respinge qualsiasi interpretazione dell’insegnamento paolino che profili, tra fede e ragione, una abissale dissomiglianza, in virtù della quale la ragione dovrebbe rinnegarsi e svuotarsi per consentire all’uomo di accostarsi alla verità rivelata. Se molta teologia, anche cattolica, è talvolta ammaliata dalle lusinghe di questo più o meno scoperto fideismo, l’ortodossia cattolica non ha niente da spartirvi, come attesta eloquentemente Fides et ratio, n. 56, sottolineature mie:

«Si nota, insomma, una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva […] bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. E la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione».

La medesima impostazione risuona nella lectio di Benedetto XVI tenuta il 12 settembre 2006 all’università di Regensburg

«Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 – certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, “logikè latreia” – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).

«Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi».

Viene incisivamente in evidenza il fraintendimento che compiono quanti scorgono nella concezione del Logos creatore una ingerenza della forma mentis ellenistica che adultererebbe il genuino significato scritturistico del Logos, imprimendogli una connotazione meramente razionale e raziocinante, segregandolo nelle contrade del pensiero astratto e astraente, ossia facente astrazione della concretezza della vita, dei sentimenti, dai quotidiani travagli e aspirazioni dell’uomo. Queste categorie astratte attinte dalla filosofia greca avrebbero pesantemente ipotecato l’elaborazione teologica del significato di Logos: e se ne avvertirebbero gli effetti sia nella formulazione dei dogmi cristologico e trinitario, sia nella tradizione scolastica, sbilanciata verso una interrogazione del testo sacro troppo condiscendente, per dirla in breve, con una concettualità mutuata da Aristotele, che vela se non deforma la figura genuina di Gesù di Nazareth. Occorrerebbe pertanto rimontare alle fonti sgomberando la nostra lettura del testo sacro dalle incrostazioni che vi avrebbero depositato secoli di applicazione di moduli interpretativi ispirati a mentalità sostanzialmente estranee a quella (o quelle) che permeava i redattori dei testi sacri. Insomma: se si vuole inculturare la fede cristiana, e non Aristotele, Platone o Plotino, occorrerebbe depurare l’annuncio di fede dalle infiltrazioni della ragione filosofante, dalla concezione di verità come freddo e disincarnato ingrediente di un sofisticato dispositivo intellettualistico, molto greco e poco cristiano, che si affaccenda intorno a concetti, definizioni, ragionamenti, argomentazioni. Pur non negando che una certa esegesi possa essere stata più attenta alle presunte esigenze della ragione umana che alla genuinità dei testi sacri, sarebbe tuttavia fuorviante non accorgersi che l’apporto della filosofia greca riveste un valore universale perché universali sono i principi logici e ontologici che le sue migliori espressioni hanno portato allo scoperto. Sicché un annuncio di fede, come quello cristiano, che non voglia smettere la pretesa di universalità, non può congedare sbrigativamente il lascito universalmente e perennemente valido del pensiero filosofico germogliato in terra greca e poi affermatosi nella elaborazione teologica medievale, da Agostino ad Anselmo e Bonaventura e Duns Scoto e Tommaso. È pertanto ingenuo e condizionato da pregiudizio gratuito ritenere, ad esempio, che la più avvertita riflessione teologica si sia appiattita su un’interpretazione del Logos come ragione astratta e distante, inidonea a esprimere la totale adesione di un Dio che si è fatto uomo alla intimità dell’uomo nella sua interezza. Si osservi che la concezione stessa di “verità”, com’è maturata nel pensiero filosofico classico e s’è sviluppata nel medioevo cristiano, investe l’integralità dell’essere umano, e non concerne solo l’uomo come costruttore di sillogismi. Che significa, infatti, un giudizio del tipo “questa cosa è vera”, se non “m’impegno qui e ora ad affermare e a rendere testimonianza che questo sto affermando, che le cose stanno proprio così: su questa convinzione si costruisce il mio modo di essere qui e ora, e voglio che anche gli altri lo sappiano”? Il vero così proclamato è appunto qualcosa che comporta il mio impegno a riconoscerlo come tale, e a dichiarare che fa parte integrante della mia esperienza attuale la convinzione e la testimonianza imperniata sulla verità di ciò che dico vero. Dicendo poi che questo è vero dichiaro che quanto è vero è affidabile ed indico e raccomando agli altri questa affidabilità. E ciò che è affidabile è ciò su cui posso fare assegnamento per trovare un senso a ciò che sono e che faccio, a me stesso in tutte le mie dimensioni, senza farmi ingannare da qualcosa di falso: di non vero, appunto, di aleatorio, inaffidabile. Che cosa di più confortante si può dire se non che ciò su cui appoggiamo la nostra vita è vero, e non fasullo, illusorio, ingannevole? E non è questo vero, questo non ingannevole, parente stretto di ciò che è buono e meritevole di essere amato, all’opposto di ciò che è falso e da cui, appunto, non ci si può attendere nulla di buono? Il Logos, che dice di sé stesso di essere verità, che altro è se non questo Dio affidabile che infonde senso e ordine sconfiggendo la minaccia del caos, raccoglie ciò che è disperso, si mantiene fedele e coerente con sé stesso nonostante l’arbitrio, la licenza e le infedeltà degli uomini? Sarebbe a questo punto ingiustificato contrapporre un Dio della ragione e un Dio della volontà, un Dio-Logos come ragione raziocinante e un Dio-amore prossimo alle gioie, alle speranza, ai tormenti e alle ansie degli uomini. Dio è Logos vero e affidabile proprio perché è amore che conosce amando e amando conosce gli uomini, non si disinteressa di alcun palpito del cuore umano e conferisce compimento e pienezza a ciò che l’uomo è. Ma come potrebbe governare con amore ogni cosa e addirittura vincere la morte, se non fosse il fondamento inconcusso di ogni cosa? Se la filosofia giunge a mostrare che c’è questo fondamento, non sta forse occupandosi – certo all’interno della propria identità disciplinare – del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe? Come non accorgersi che la riflessione metafisica più penetrante ha colto il senso del Fondamento di tutte le cose, creatore per amore e per amore dispensatore di ogni bene alle proprie creature? Solo una valutazione sommaria e ingenerosa nei confronti della vicenda del pensiero filosofico può dunque sospingere a caldeggiare come provvida per la fede una separazione tra il Dio dei filosofi e quello di Gesù Cristo, tra il cristianesimo ellenizzato e quello finalmente de-ellenizzato. Come proporre una verità universale, accreditandola come tale, a un uomo che, privandolo dell’apertura della ragione al vero e all’universale (quell’apertura di cui l’indagine filosofica dovrebbe essere testimonianza ed esercizio per eccellenza), si rende incapace di pensare in termini di universalità e di verità? Come non avvedersi che la verità, intesa dalla filosofia classica e da tutti i Dottori della Chiesa come “adaequatio intellectus et rei”, non ha nulla di “estrisecistico”, non imbalsama le cose in una posa artefatta, non applica alla diversificata moltitudine degli enti schemi deformanti e livellanti generati dal nostro intelletto? Se si teorizza la perniciosità di una ragione all’altezza di conoscenze universalmente vere, oggettivamente vere, come stupirsi della diffidenza nei confronti di una religione che si proclama universalmente vera, al di là di ogni soggettivismo? Se ci si invischia nell’interminabile gioco di specchi di un’esplorazione ermeneutica che rinvia da un’interpretazione a un'altra, e così all’infinito, come attingere lo strato roccioso sul quale ogni interpretazione deve ultimamente poggiare, sotto pena di risultare del tutto discrezionale e per ciò stesso ricusabile? Se ci si fa incantare dalle “svolte linguistiche” novecentesche, accettando (quali docili e ortodossi nipotini di Heidegger) la strutturale dipendenza della verità dalla inesauribile mutevolezza del linguaggio e dalla lussureggiante multiformità dell’evento linguistico, come meravigliarsi se prende piede il disamore per ogni verità che aspiri a varcare la finitudine di questa o quell’impresa del linguaggio, irripetibile e culturalmente situata, in direzione di un centro di senso assoluto e assolutamente vincolante, quel centro intorno al quale non può che gravitare qualsivoglia religione che si consideri valida per tutti gli uomini e per ciascuno, sotto qualsiasi latitudine e in ogni tempo? Se si rifiuta la concettualità, e la carica di universalità di cui il concetto è foriero (in quanto, appunto, predicabile di molte cose), come se fosse alcunché di aridamente intellettualistico e sganciato dalla vivida concretezza dell’imprevedibile, indefinibile (e quindi non concettualizzabile, intrattabile in termini di universalità) “evenire” del reale, come si potrà professare qualcosa di universalmente valido? E come si potrà mai acconsentire alla credenza nei dogmi della religione cattolica, che non possono che essere formulati in concetti (e se non in concetti, in che altro modo?) e che di fatto sono formulati usando una concettualità proveniente dalla riflessione filosofica greca?

Mi pare che di questo trattino le seguenti considerazioni di Fides et ratio e di Benedetto XVI a Regensburg (sfatando anche il serpeggiante luogo comune che favoleggia di discrepanze tra il magistero di Giovanni Paolo II e quello di papa Ratzinger):

«L'importanza dell'istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi studi giungono possono essere molto utili per l'intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne l'essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici, queste tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o a negarne la validità universale, allora non solo umiliano la ragione, ma si pongono da se stesse fuori gioco. La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale – anche se in termini analogici, ma non per questo meno significativi – la realtà divina e trascendente. Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L'interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un'affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi» (Fides et ratio, n. 84, sottolineature mie).

«Già il Concilio Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr Rm 1, 19–20), aveva richiamato l'attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente, e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello studiare la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente atto di fede, la teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce pienezza di senso, orientandole verso la ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine. Si pensi, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di discernere la rivelazione divina da altri fenomeni o al riconoscimento della sua credibilità, all'attitudine del linguaggio umano a parlare in modo significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte queste verità, la mente è condotta a riconoscere l'esistenza di una via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare nell'accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri principi e alla propria autonomia» (Fides et ratio, n. 67, sottolineature mie).

«Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi – siano essi funzionali, formali o utili – del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all'essere stesso dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica» (Fides et ratio, n. 82, sottolineature mie).

«La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell'economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza l'apporto della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali all'interno della Trinità, l'azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero Dio e vero uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti quali: legge morale, coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro definizione a livello di etica filosofica. È necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell'uomo, del mondo e, più radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva» (Fides et ratio, n. 66, sottolineature mie).

«[…] quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco–latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia» (Fides et ratio, n. 72, sottolineature mie).

«Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo […] Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, è stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura» (discorso pronunciato da Benedetto XVI nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre 2006).

Non meno preziose e penetranti sono al riguardo le seguenti precisazioni di Fides et ratio, con peculiare attenzione al nesso tra metafisica, teologia ed esegesi biblica:

«La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili. L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi condizionamenti.

«Con il suo linguaggio storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa.

«Questa considerazione permette di intravedere la soluzione di un altro problema: quello della perenne validità del linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Già il mio venerato Predecessore Pio XII nella sua Lettera enciclica Humani generis affrontava la questione.

«Riflettere su questo argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del senso che le parole acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La storia del pensiero, comunque, mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono (“Quanto al significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall'opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima” (S. Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. sulla difesa della dottrina cattolica circa la Chiesa, Mysterium Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65 (1973), 403). Se così non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d'altronde, non esclude che spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto potrebbe aiutare in questo campo. E auspicabile, pertanto, un suo particolare impegno nell'approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità, e nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione.

«Se compito importante della teologia è l'interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche più delicato ed esigente è la comprensione della verità rivelata, o l'elaborazione dell'intellectus fidei. Come già ho accennato, l’intellectus fidei richiede l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta innanzitutto alla teologia dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. […] Se l'intellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia dell'essere. Questa dovrà essere in grado di riproporre il problema dell'essere secondo le esigenze e gli apporti di tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che permette l'apertura piena e globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni limite fino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento. Nella teologia, che riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di conoscenza, questa prospettiva trova conferma secondo l'intimo rapporto tra fede e razionalità metafisica» (Fides et ratio, nn. 95–97, sottolineature mie).

«Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità della Sacra Scrittura dall'applicazione di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch'esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento prima di applicarla ai testi sacri» (Fides et ratio, n. 55, sottolineature mie).

«Se il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte all'intelligenza della fede» (Fides et ratio, n. 77, sottolineature mie).

Fides et ratio provvede a evidenziare che esiste, intatto nonostante le tortuose peripezie della riflessione filosofica nel proprio decorso storico, un patrimonio di «principi primi e universali dell’essere», messi in luce dalla ragione con il suo retto esercizio, tra i quali si menziona proprio il PDNC:

«In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell'essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio» (Fides et ratio, n. 4, sottolineature mie).

Mi pare che queste considerazioni non necessitino di ulteriore commento, e manifestino limpidamente qual è l’insegnamento della Chiesa al riguardo. Il 6 novembre 2006, incontrando i partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia della Scienze, Benedetto XVI ha pronunciato un discorso meritevole della massima attenzione, nel quale si ricorda con fermezza che uno di quei «principi primi e universali dell’essere» evocati da Fides et ratio, il principio di causalità, non è scosso o addirittura vanificato dall’evoluzione delle scienze empiriche, come invece reputano non pochi scienziati (e quella parte di opinione pubblica che, pur ignorando il merito della questione, presta credito alla velleitaria operazione condotta da tali scienziati quando si sbizzarriscono a distillare maldestramente dalle vicende della propria disciplina ammaestramenti che pretenderebbero vincolassero la ricerca filosofica e teologica, di cui tali scienziati poco sanno e molto fraintendono):

«La scienza, pertanto, non può pretendere di fornire una rappresentazione completa, deterministica, del nostro futuro e dello sviluppo di ogni fenomeno da essa studiato. La filosofia e la teologia potrebbero dare un importante contributo a questa questione fondamentalmente epistemologica, per esempio aiutando le scienze empiriche a riconoscere la differenza tra l'incapacità matematica di prevedere determinati eventi e la validità del principio di causalità, o tra l'indeterminismo o la contingenza (casualità) scientifici e la causalità a livello filosofico o, più radicalmente, tra l'evoluzione come origine ultima di una successione nello spazio e nel tempo e la creazione come prima origine dell'essere partecipato nell'Essere essenziale» (sottolineature mie).

Va annotato che il papa, riferendosi a Dio, non evita affatto di nominarLo con parole attinte dal pensiero filosofico: «Essere essenziale» (qualifica che richiama tanto il tommasiano Ipsum esse subsistens, l’Essere stesso sussistente, l’Essere per essenza, l’unico sussistente la cui essenza sia l’essere, ossia la cui essenza si identifichi con l’essere) dal quale deriva «l’essere partecipato» (la “partecipazione” è altro concetto tipicamente filosofico). Come non avvertire che anche Giovanni Paolo II adotta la medesima denominazione, proprio mentre sta illustrando il contributo che la Rivelazione può offrire alla ricerca filosofica («La verità rivelata, offrendo pienezza di luce sull'essere a partire dallo splendore che proviene dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della riflessione filosofica»: Fides et ratio, n. 79)?


4. Dio dell’islam, Dio del cristianesimo. Per un dialogo fraterno nel rispetto delle identità


Mi preme ricordare che nel mio intervento precedente non ho coltivato l’intento di avallare una artificiosa contrapposizione tra un Dio islamico della volontà, e financo dell’arbitrio, e un Dio cristiano della ragione. Non mi sono fatto allettare dagli schemi di una controversistica grossolana. Ho inteso solo ribadire una mia (e non solo mia, mi sembra d’aver chiarito) convinzione radicata: per chiunque – cristiano, musulmano o che altro – rappresentarsi un Dio in grado di violare il PDNC è insinuare nella propria concezione del divino un irrazionalismo che inquina l’immagine di Dio e rischia di renderlo totalmente estraneo alla sorte dell’uomo, all’uomo tutto quanto: corpo, spirito, pensiero, passioni, affetti, desideri. Che questo fosse il mio intento, emerge:

1) dalle riserve che esprimo a riguardo anche di alcuni orientamenti presenti nella teologia cattolica:

«Non ignoro che molta teologia, anche in ambiente cattolico, tema il Dio che non può disattendere il principio di non contraddizione, reputando che un Dio che non possa aggirare tale principio non sia onnipotente e non possa esercitare il proprio amore in maniera sovranamente libera […] Sarebbe tempo che venga superata l’oziosa e sterile contrapposizione tra il Dio–Logos, che ottemperando al principio di non contraddizione si rinchiude in un imperturbabile distacco razionalistico impermeabile all’amore, e il Dio–Amore, che può a talento violare i principi razionali pur di secondare la propria indole di amore libero in modo assoluto e onnipotente».

2) dalla dichiarata volontà di non addentrarmi in alcuna disputa esegetica intorno al Corano, né di occuparmi della riflessione teologica sul Dio del Corano:

«Non intendo entrare nel merito di tale questione né avventurarmi in perigliosi esercizi di esegesi coranica».

Ciò ribadito, auspico un leale, pacifico e fraterno dialogo fra le fedi che eviti di enfatizzare e di sottovalutare i reali elementi accomunanti, così come di esasperare o minimizzare i reali elementi differenzianti. Con questo spirito, svolgo alcune considerazioni sul rapporto tra le religioni, sollecitato dalle osservazioni del mio interlocutore.

Nayed, nel proprio intervento, non tace le profonde differenze teologiche che corrono tra cristianesimo e islam (soprattutto, quanto alla Trinità e all’incarnazione del Verbo). Il paragrafo 3 della Nostra aetate (Dichiarazione del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non–cristiane), allegato da Nayed, pone in chiaro le convergenze tra Cristianesimo e Islam, senza occultare le cospicue differenze («Benché essi non riconoscano Gesù come Dio»).

«La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.

«Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà».

Anche il paragrafo 2 della Nostra aetate valorizza ciò che è comune senza celare quanto di sostanziale e non trascurabile differenzia (sottolineature mie):

«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.

«Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa
e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose.

«Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi».

La Dichiarazione circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa Dominus Iesus (Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 agosto 2000), la quale «riprende la dottrina insegnata in precedenti documenti del Magistero, con l'intento di ribadire le verità, che fanno parte del patrimonio di fede della Chiesa» (n. 2), al n. 7 afferma (sottolineature mie):

«Deve essere, quindi, fermamente ritenuta la distinzione tra la fede teologale e la credenza nelle altre religioni. Se la fede è l'accoglienza nella grazia della verità rivelata, “che permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza” (Fides et ratio, n. 13), la credenza nelle altre religioni è quell'insieme di esperienza e di pensiero, che costituiscono i tesori umani di saggezza e di religiosità, che l'uomo nella sua ricerca della verità ha ideato e messo in atto nel suo riferimento al Divino e all'Assoluto.

«Non sempre tale distinzione viene tenuta presente nella riflessione attuale, per cui spesso si identifica la fede teologale, che è accoglienza della verità rivelata da Dio Uno e Trino, e la credenza nelle altre religioni, che è esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e priva ancora dell'assenso a Dio che si rivela. Questo è uno dei motivi per cui si tende a ridurre, fino talvolta ad annullarle, le differenze tra il cristianesimo e le altre religioni».

Si confronti pure il n. 14:

«Deve essere, quindi, fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio.

«Tenendo conto di questo dato di fede, la teologia oggi, meditando sulla presenza di altre esperienze religiose e sul loro significato nel piano salvifico di Dio, è invitata ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza. In questo impegno di riflessione la ricerca teologica ha un vasto campo di lavoro sotto la guida del Magistero della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, infatti, ha affermato che “l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell'unica fonte” (Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 62). È da approfondire il contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio dell'unica mediazione di Cristo: “Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari” (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Redemptoris missio, n. 5). Risulterebbero, tuttavia, contrarie alla fede cristiana e cattolica quelle proposte di soluzione, che prospettassero un agire salvifico di Dio al di fuori dell'unica mediazione di Cristo».

Concludo ringraziando ancora Nayed per il dialogo che gli è stato caro suscitare, con l’auspicio di aver chiarito il mio pensiero, e rinnovando la mia sempre viva disponibilità a proseguire tale dialogo in spirito di amicizia e di ascolto reciproco.

27.11.2006