Ha colpito una minoranza
accusata di eresia dai musulmani ortodossi.
La natura religiosa
della "guerra santa" di Bin Laden, analizzata dal professor
Vittorio E. Parsi.
di Sandro Magister -www.chiesa.espressonline.it
ROMA, 24 agosto 2007 – È stata generalmente sottovalutata,
come fosse una delle tante anonime uccisioni che insanguinano ogni
giorno l'Iraq. Ma la strage che la vigilia di Ferragosto ha decimato
la popolazione yazida era assolutamente fuori dall'ordinario.
Uno dei pochissimi analisti di politica internazionale che le ha
dato il necessario rilievo è stato il professore Vittorio
E. Parsi, in un editoriale di prima pagina sul quotidiano della conferenza
episcopale italiana, "Avvenire".
A giudizio di Parsi, la strage di Ferragosto degli yazidi è seconda – per
dimensione e per potenza anche comunicativa – soltanto all'abbattimento
delle Torri Gemelle, l'11 settembre 2001. Sia l'una che l'altro sono
state opera di al-Qaeda, l'organizzazione islamista fondata da Osama
Bin Laden.
Nella strage hanno perso la vita più di 500 persone. con oltre
350 feriti. Per avere un'idea dell'entità dell'eccidio, basti
pensare che pochi giorni dopo, in Perù, un micidiale terremoto
ha fatto un numero pari di vittime.
Il tutto è stato pianificato e realizzato con cinque veicoli
carichi di due tonnellate di esplosivo, che hanno raso al suolo larga
parte dei villaggi di Qataniya e Adnaniya, nel Kurdistan iracheno
verso il confine con la Siria, entrambi abitati da yazidi.
Gli yazidi sono una minoranza religiosa all'interno della popolazione
curda che è musulmana sunnita. Il loro credo risente di influssi
zoroastriani e giudaici, cristiani ed islamici. I musulmani ortodossi
li squalificano come adoratori del demonio. Ma, in realtà,
la figura preminente della loro dottrina, Melek Ta'us, uno dei sette
angeli ai quali Dio ha affidato il mondo, è simbolo del bene
e non del male. Ha tratti che lo avvicinano all'arcangelo Michele.
Il loro rito più importante è il pellegrinaggio annuale,
della durata di sei giorni, alla tomba dello sceicco Adi, a Lalish,
quindici miglia a nord di Mosul.
Considerati come eretici dai musulmani, gli yazidi hanno sofferto
frequenti persecuzioni. Si sposano tra loro e non accettano convertiti.
Si stima che oggi siano circa mezzo milione, la maggior parte nel
Kurdistan. Tra gli immigrati in Europa, il loro gruppo più consistente è in
Germania. In Iraq sono stati tra i più aperti sostenitori
dell'intervento americano che ha rovesciato il regime di Saddam Hussein.
Una precedente strage ha colpito gli yazidi lo scorso 22 aprile 2007.
Un gruppo di uomini armati ha bloccato un autobus di linea sulla
strada da Mosul a Ba’ashika, ha fatto scendere musulmani e
cristiani e ha massacrato i restanti 23, tutti yazidi. Gli aggressori
hanno motivato il loro atto come una vendetta all'uccisione, pochi
giorni prima, di una giovane yazida di 17 anni, Du’a Khalil
Aswad, lapidata a morte da venti suoi correligionari per essersi
accompagnata a un giovane musulmano: lapidazione poi pubblicizzata
da video diffusi per internet.
Ancor più di questo precedente massacro, l'eccidio di Ferragosto
risente della natura di geopolitca religiosa della "guerra santa" scatenata
da al-Qaida.
Nei piani dell'organizzazione di Bin Laden, il Kurdistan è un
terreno chiave di questa guerra. All'incrocio tra Oriente e Occidente,
storico passaggio tra il Mediterraneo e la Persia, questa regione è stata
nei secoli terra di conquista.
Essa è abitata anche da popolazioni cristiane. Fonti di "Asia
News" a Mosul indicano nelle bombe contro gli yazidi "parte
di un più vasto piano studiato dagli estremisti wahabiti,
che ormai controllano la zona, di eliminare tutti gli elementi che
potrebbero ostacolare il raggiungimento dei loro obiettivi: lo stato
islamico e il califfato".
Il timore è che “domani sarà la volta dei villaggi
cristiani della piana di Niniveh", una decina di villaggi tra
Qaraqosh ed al-Qosh. Vi abitano circa seimila famiglie cristiane,
molte arrivate da Baghdad e da Mosul in cerca di riparo.
Ecco qui di seguito l'analisi del professor Parsi, docente di politica
internazionale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano, pubblicata su "Avvenire" del 18 agosto:
Se il nuovo fronte di al-Qaeda è il Kurdistan
di Vittorio E. Parsi
È il più sanguinoso attentato terroristico dopo quello
delle Torri Gemelle di Manhattan, con le cui conseguenze siamo ancora
alle prese a quasi sei anni dall'11 settembre 2001: oltre 500 morti,
un numero imprecisato di feriti e due villaggi ai confini del Kurdistan
iracheno letteralmente spazzati via dalla furia omicida di uno dei
tanti gruppi affiliati ad al-Qaeda che operano in Iraq.
Le vittime della strage di Ferragosto appartengono per la quasi totalità agli
yazidi, una piccola setta sincretistica la cui religione fonde elementi
comuni a zoroastrismo, giudaismo, manicheismo, cristianesimo e islam.
Come in altre analoghe occasioni, in Iraq e fuori dell'Iraq, la magnitudo
del massacro è una sorta di firma, con la quale al-Qaeda autentica
le proprie azioni. Persino nell'Iraq degli oltre cento morti ammazzati
al giorno, una simile ecatombe ristabilisce le gerarchie tra i seguaci
di Osama Bin Laden e tutti gli altri assassini che operano nel paese.
Ma la scelta dell'obiettivo ci fornisce qualche elemento in più circa
la strategia della galassia che si riconosce nella predicazione violenta
del "califfo del terrore".
Aver voluto colpire in maniera così spettacolare una piccola
minoranza che è ritenuta eretica da molti esponenti dell'islam
sunnita fondamentalista e radicale (ma non necessariamente collusi
col terrorismo) ha, innanzitutto, il preciso significato di ribadire
la natura della lotta in cui i qaedisti sono impegnati in Iraq.
Questa lotta è un jihad, una guerra santa. Non è una
guerra di liberazione nazionale, né una guerra contro l'imperialismo
americano. Con la strage di Ferragosto i qaedisti hanno voluto riaffermare
la cifra della loro guerra in Iraq, della loro presenza in quel paese.
E la dimensione della violenza serviva a sottolineare, in termini
comunicativi, la capacità di al-Qaeda nell'imporre la sua
guerra su quella di tutti gli altri: siano essi sciiti filo iraniani
e seguaci dell'"esercito del mahdi", insorgenti baathisti
e guerriglieri sunniti finanziati dai sauditi.
Sono tanti gli attori, interni e internazionali, che giocano la propria
partita in Iraq, che combattono ognuno la propria guerra, dove ogni
azione militare, ogni attentato, ogni strage di civili è inevitabilmente
funzionale agli scopi degli uni e degli altri, anche quando gli uni
e gli altri sono nemici. Al-Qaeda ha battuto un colpo per ricordare
a tutti che cosa ci sta a fare in Iraq e qual è il suo progetto,
e col clamore della megastrage ha, per un lungo attimo, consentito
che il suo distinto progetto fosse nuovamente riconoscibile rispetto
agli altri.
I villaggi distrutti sono nella regione di Sinjar, una zona a maggioranza
sunnita ai confini del Kurdistan iracheno. A mano a mano che la possibilità di
un ritiro americano dall'Iraq si fa più concreta e vicina,
la rilevanza strategica del Kurdistan cresce sempre di più.
Non è un mistero che alcuni dei piani elaborati al Pentagono
prevedono un ridispiegamento temporaneo delle truppe americane proprio
nel Kurdistan, da cui potrebbero essere impiegate per azioni mirate "scova
e distruggi" proprio nei confronti delle cellule qaediste.
Il Kurdistan, con la sua autonomia di fatto, il buon funzionamento
delle sue istituzioni e la relativa sicurezza di cui godeva fino
a un paio di mesi fa, rappresenta un'oasi nello sconfortante panorama
del resto del Paese e un grattacapo per alcuni potenti vicini. Non è certo
casuale che proprio negli ultimi mesi siano aumentati gli attentati
nella regione.
Alla strage di Ferragosto il presidente del Kurdistan iracheno Barzani
ha reagito disponendo l'invio di 350 militi peshmerga, fatto che
ha consentito nuovamente agli arabi sunniti di accusare i curdi di
avere mire sul petrolio dell'area di Mosul, etnicamente mista e contesa
tra le due etnie.
Ipotizzare che, fissando come prossimo obiettivo strategico la destabilizzazione
del Kurdistan, al-Qaeda troverebbe più di qualche interessato
spettatore, dentro e fuori l'Iraq, è fin troppo facile profezia.
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