Scontri di civiltà.
Una nota sulla terza guerra del Libano

”Proporzioni” e scontri di civiltà. Una nota sulla terza guerra del Libano

di Pietro De Marco
L’autore, esperto di geopolitica religiosa, è professore all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, nonche editorialista di “Avvenire”:
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Il mese di conflitto tra il confine israelo-libanese e il fiume Litani non è stato il fallimento né della diplomazia, né dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

L’ONU non può fermare l’armarsi di una fazione, Hezbollah, legittimata come parte e partito di un ordinamento politico sovrano, se non viene formalmente investita di questo compito e dotata, poi, di strumenti adeguati.

Quanto alla diplomazia, essa è stata messa deliberatamente fuori gioco: l'armarsi di Hezbollah, dai primi anni Ottanta, è stato e resta un fatto, non la materia o l’occasione di un negoziato.

Ma la deprecazione scagliata da più parti e nei diversi linguaggi contro gli attori del conflitto e in particolare contro Israele si è sostanziata di meri giudizi di valore, mentre è apparsa incapace o, peggio, svogliata nell’analisi.

Anche la Santa Sede, come altre istanze morali e politiche internazionali, ha condannato il conflitto in quanto tale e auspicato un cessate il fuoco accompagnato da nuovi e più adeguati negoziati di pace. E ha richiamato Israele alla “proporzionalità” della risposta armata. Legittimamente, all'inizio. Nei primi giorni il quadro in cui Hezbollah aveva giocato la sua provocazione era in effetti poco decifrabile: un'azione dimostrativa strettamente locale? un esperimento per valutare lo stile di risposta del nuovo governo israeliano? un segnale, d'intesa con Hamas, per dire a Israele che ogni ritiro unilaterale è come non avvenuto, e tutto va rinegoziato?

Non si sapeva all'inizio – o si poteva fingere di non sapere – che Hezbollah fosse potentemente installato, in termini logistici e offensivi, lungo il confine, e non si poteva prevedere che, di conseguenza, la risposta a Hezbollah diventasse sul campo la risposta di Israele a una nazione confinante armata e aggressiva. Non lo sapeva la Santa Sede. Ma da quando evidenze e informazioni hanno meglio chiarito i termini del conflitto, si poteva attendere che venisse riconosciuta dalla Chiesa di Roma la “proporzione” della risposta di Israele, senza che questo significasse cessare il richiamo alle sofferenze delle popolazioni e all’urgenza della pace.

Che nelle mani dei partigiani Hezbollah fosse esploso qualcosa che ha reso improvvisamente visibile – in organizzazione, armi, fortificazioni – uno scacchiere cruciale dell’iniziativa egemonica di Teheran, ora non può più sfuggire a nessuno, neppure a un'autorità anzitutto spirituale come la Chiesa di Roma. Così, dal limitato orizzonte iniziale, la diagnosi di “sproporzione” è poi quasi scomparsa dalle dichiarazioni e dai commenti delle autorità vaticane.

Siamo dunque condannati a ragionare sulle razionalità dispiegate dagli uomini, piuttosto che ad esprimere solo valutazioni di conformità a valori. Il giudizio secondo valore è certo necessario, ma sotto vincoli. È stato istruito il non meno necessario processo di accertamento e chiarificazione dei fatti? La valutazione di “proporzionalità” comporta un implicito riconoscimento di organizzazioni e nazioni musulmane come nemici, oggi, di Israele e dell’Occidente. Senza che questo implichi l’affermazione – temuta e non desiderata, e non solo dalla Santa Sede – che l’islam sia per se stesso un nemico.

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Un giudizio politico è responsabile se invoca giustizia secondo realtà. Ora, articolare i principi con il principio di realtà suppone che la comunità internazionale ottenga:

– un'interposizione armata operativa sul territorio libanese, ove si esercita la pressione offensiva contro Israele;
– lo smantellamento dello "stato nello stato" costituito da Hezbollah, a maggior ragione se l’autorità libanese non è in condizione di ottenere questo risultato;
– la separazione del mondo arabo dall’attivismo egemonico iraniano;
– l’apertura del negoziato per uno stato palestinese senza esercito e sotto protettorato internazionale per un numero sufficiente di anni.

Sostenere, come si fa anche nell’opinione occidentale moderata, che Israele sta conducendo una guerra complementare al progetto statunitense di sconvolgere l’ordine mediorientale è confondere cause ed effetti. L’ordine mediorientale, quello a dominante ba’athista, andava disgregato perché generatore di grave pericolo anche per Israele. E ad esso non deve sostituirsi il nuovo ordine sciita con capitale Teheran.

Non a caso circola oggi nella pubblicistica la formula “nuovo spirito di Monaco”, applicato all’atteggiamento dell’Europa di fronte al caso iraniano. E non è raro cogliere nella riflessione di politica internazionale l’idea che l’aspirazione egemone della classe dirigente iraniana nei teatri medio-orientali, dalla Palestina all’India, sia ragionevole e simbolicamente giustificata dall’eredità imperiale achemenide o sassanide. È la nostalgia per le polarizzazioni più o meno elastiche, varianti del modello bipolare USA-URSS: nostalgia che non esiterebbe a sacrificare la modernizzazione del mondo arabo alla speranza di disciplinamento unitario del mondo islamico. E neppure esiterebbe a sacrificare Israele. Non mancano analogie con il 1938.

Ma la prima vittima di questo “spirito di Monaco” sarebbe la classe dirigente libanese moderata. Essa ha concesso a Hezbollah una quota del territorio nazionale, l'autogoverno delle comunità sciite del sud e di fatto un mandato di resistenza contro Israele, in cambio di una limitata influenza nella politica libanese. Ma Hezbollah, indifferente agli equilibri nazionali e molto più legata a Teheran e a Damasco, ha trascinato il Libano nell’attuale disastro. È ragionevole osservare che, se è forse mancata agli Stati Uniti un’adeguata attenzione al Libano sulla scacchiera mediorientale, neppure Beirut e neppure Tel Aviv hanno intravisto il potenziale destabilizzante di una presenza sciita organizzata, dipendente da Teheran, sul confine con Israele.

È mia convinzione che, in un teatro come quello mediorientale, a decisioni ordinanti sotto il profilo militare e politico debba necessariamente seguire, tra le comunità in conflitto, un mutuo riconoscimento secondo i rispettivi diritti sacri: non solo tra arabi ed ebrei israeliani, ma tra islam e Occidente ebraico e cristiano. In altre parole, il teatro dei conflitti armati va ordinato secondo ragione – in primo luogo la stabile e sicura esistenza dello stato d’Israele – e va trasceso secondo valore e giustizia.

Ma le implicazioni non sono semplici. Qui l’Occidente non ha minori difficoltà del mondo musulmano.

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Perché nel nostro rapporto con le culture teocratiche islamiche non riusciamo a distinguere con chiarezza tra i momenti legittimi del confronto tra le civiltà e i momenti che comportano la irrinunciabilità, per noi, dello scontro armato?

Un primo errore sta nella separazione tra islamico e islamista, tra un islam “buono”, moderato, e uno “cattivo”, religiosamente e politicamente militante. Ma la forma militante è costitutiva delle religioni profetiche, cristianesimo compreso. Trattare l'islamismo teocratico come necessariamente nemico e ostile all’Occidente è frutto di incomprensione, analoga a quella che accompagna da decenni la lettura laica dei fenomeni militanti cristiani: un'incomprensione che può implicare un’azione politica irrazionale, ossia condotta secondo i principi, non secondo responsabilità.

Quando le culture islamiste sono individuate in quanto tali come soggetti politici ostili, lo straniero morale, civile e politico, il teocrate appunto, non può che esser fatto coincidere con il nemico militare, oggi nella forma terroristica. Dalla costituzione religiosa dell'islam teocratico si assume come corollario una sua inevitabile condotta militarmente aggressiva nelle arene internazionali. Anche questo è un errore.

Fu Hobbes – come ha spiegato Eric Voegelin – a produrre la svolta filosofica e antropologica che approda a questo esito. Hobbes sostituÏ l’uomo creato da Dio con un uomo di sua invenzione, reciso dall’esperienza della trascendenza. Trasferì il compito salvifico dalle religioni al sovrano politico. Questa “theologia civilis” appariva a Hobbes necessaria a contrastare la volontà di dominio che si celerebbe dietro lo zelo religioso e l’idealismo riformatore dei rivoluzionari puritani. Da qui nasce la laicità politica moderna. Per la laicità moderna le culture portatrici di verità antropologica e teologica – le islamiche ma anche quelle occidentali cristiane non sottomesse alla modernità – sono sempre intimamente nemiche.

Ma contro questo esito va fatta valere la distinzione teorizzata da Carl Schmitt tra “hostis” e “inimicus”, ossia tra il nemico politico e militare contro il quale è giusto combattere in armi, e il nemico semplicemente secondo il valore.

Di questa distinzione si fa oggi, da parte di molti in Occidente, un uso antiamericano e antisraeliano. Alla sfida mondiale praticata dall’islam jihadista e dal khomeinismo iraniano si guarda come a un prezioso fronte di resistenza al predominio di USA e Israele. In quanto esercitati in sede internazionale pubblica, sfida e jihad islamici fanno comodo e suscitano simpatia. L'islam diventa invece meno sopportabile alle culture democratiche quando esibisce una sua retorica antisemita, e assolutamente inaccettabile quando fissa gerarchie antropologiche, in particolare tra uomo e donna nel costume e nel diritto.

Ma questa distinzione va rovesciata. I mondi islamici e islamisti sono diversità, anche antagonistiche, con le quali praticare razionale coesistenza secondo la tradizione del diritto pubblico europeo, e scambio, e compenetrazione, e dialogo, e incontro. Mentre quando tali diversità sono in armi, e attaccano militarmente in forma convenzionale o terroristica Israele e l'Occidente, sono “hostis”, nemico in guerra, al quale è doveroso opporsi con la politica e con le armi.

Lucidamente dobbiamo affiancare e opporre la cultura alla cultura. Ma quando necessario, come in questi anni, dobbiamo opporre armi alle armi. Dobbiamo, insomma, passare dall’elogio dell’Europa cristiana, ove questo si dà, alla sua difesa e affermazione razionale. Non sono né la Turchia né i flussi migratori, con tutta la loro problematicità, il fronte ostile. Il nemico non è nell’incontro competitivo tra civilizzazioni spirituali e morali. Il nemico, “hostis”, è dove agiscono le armi, come oggi nel progetto mondiale e nella aggiornata milizia combattente che potremmo chiamare neo-jihadista.

L’attuale rapporto contraddittorio della modernità occidentale con il mondo musulmano – e talora con se stessa – discende dalla carenza di tale criterio di decisione. Alla pressoché indiscussa inimicizia con l’altro in quanto portatore di verità antropologica e teologica si accompagna – fatte salve le eccezioni americane e le poche europee – una disorientata diagnosi sull’Occidente e il cristianesimo, e la prevalente sottovalutazione della sfida armata dell’islam. Chi resta in questo disorientamento demonizza il diritto di famiglia islamico ma non prende sul serio, neppure oggi, il terrorismo mondiale. E chi tenta di uscire da questo disorientamento rischia a sua volta di cadere in una irrazionale, totale trasformazione in nemico dell’altro in quanto altro.

Chiesa e Occidente conoscono fin troppo nella propria storia le guerre fratricide, ovvero le ostilità tra uomini e nazioni che non si consideravano degli estranei né prima dello scontro né dopo, ed erano accomunati dal diritto naturale cristiano. Oggi, come la fraternità religiosa con l’islam non impedisce alla ragione di individuare dentro di esso il nemico in armi, così un nemico in armi che va contrastato con le armi, secondo il diritto, resta comunque umano e portatore di valore. Bisogna riapprendere la cultura razionale di un diritto delle genti e di un diritto di guerra classici, dimenticati. E con questo bisogna anche insegnare all’interlocutore islamico – il quale ha civiltà capace di intendere – che sappiamo vedere le armi, anche camuffate, che sono nelle sue mani, e reagire distruttivamente. Ma, proprio per questo, sappiamo anche andargli incontro e coesistere in pace con lui: avversario nella civiltà, forse, ma non “hostis”, nemico.

È un linguaggio di verità che specialmente la Chiesa di Roma può adottare.