Studio per una
pace definitiva in Medio Oriente.
Verso una Unione Medio-Orientale
di Samir Khalil Samir S.I.
gesuita,professore all’Université Saint Joseph di Beirut,
al Pontificio Istituto Orientale di Roma e al Centre de Théologie
Sèvres
di Parigi, fondatore e direttore in Libano del Centre de Documentation
et de Recherches Arabes Chrétiennes. Consulente del Vaticano.
Alla fine, Israele non ha raggiunto il suo obiettivo principale, annientare
l’Hezbollah, e con esso la resistenza, né ha seminato
la discordia tra le differenti confessioni libanesi. In compenso, però, è riuscito
a seminare una distruzione duratura nel Libano. Hezbollah afferma di
essere il vincitore, e in un certo senso lo è; ma in realtà è destinato
a sparire quale milizia. Tutti hanno perso. Sia lode a Dio! Perché altrimenti,
qualcuno avrebbe potuto ancora credere che la guerra possa produrre
la pace o essere un’opzione in qualche modo interessante.
Il grande perdente è il popolo libanese, che ha pagato il tributo
più pesante in vittime civili e infrastrutture. Tale è l’ironia
della sorte, e il machiavellismo dei grandi! Ed è precisamente
questo popolo che, più di ogni altro, aspira alla pace e opera
quotidianamente per un progetto intercomunitario. “Il Libano è più che
una terra, è un messaggio”, diceva Giovanni Paolo II,
e dopo di lui tanti uomini di ogni confessione religiosa.
La supremazia militare d’Israele – che non aveva bisogno
di essere dimostrata – non gli ha portato la pace, ma piuttosto
ha incrementato l’odio e dunque potenzialmente la guerra. I katiusha
non renderanno a Hezbollah le sue centinaia di morti, né restituiranno
la terra ai palestinesi. Certo, il mondo musulmano, nella sua parte
più gregaria, canta le lodi di Hezbollah; ma questo non porterà né più democrazia,
né più modernità, né più benessere,
né più pace, cose a cui aspira ogni musulmano.
ANDARE ALLE RADICI DEL PROBLEMA
La guerra non ha mai prodotto frutti duraturi. L’estremismo non
si combatte con la guerra, men che meno il presunto “terrorismo”.
Tutti i politici riconoscono che occorre “andare alle radici
del problema”, il quale risale a più di 50 anni fa.
Bisogna necessariamente affrontarlo.
Hezbollah, che ha usurpato all’esercito libanese la funzione
di difendere la patria, non è la radice del problema: non esisteva
neppure quando Israele ha invaso il Libano nel 1982 per attaccare i
palestinesi che vi si trovavano. Neppure l’attentato contro Israele
ai giochi olimpici di Monaco nel 1972, che ha dato inizio al terrorismo
nella regione, è la radice del problema. Neppure gli attacchi
continui di Israele contro la terra dei palestinesi e contro i paesi
vicini sono la radice del problema.
Il problema non è di ordine religioso: tra ebrei e musulmani,
o tra ebrei, cristiani e musulmani, anche se è evidente che
la dimensione religiosa non è mai assente dalla politica medio-orientale.
Non è dunque una guerra tra ebrei (sostenuti dai cristiani)
e musulmani. E non è neppure una guerra etnica, tra ebrei
e arabi – e chi potrebbe pretendere seriamente che gli ebrei
o gli arabi siano realtà etniche? La radice del problema non è dunque
né religiosa né etnica; è puramente politica,
ed alla politica si aggancia tutto il resto (comprese cultura, sociologia,
economia, ecc.) per rafforzare le rispettive posizioni.
Il problema risale alla creazione dello stato d’Israele e alla
spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione
organizzata sistematicamente contro gli ebrei, considerati precisamente
come una “razza”! – decisa dalle grandi potenze senza
tener conto delle popolazioni presenti in questa terra (santa): è questa
la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio
a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione
ebrea mondiale, la stessa Europa (appoggiata dalle altre nazioni più potenti)
ha deciso e commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese,
innocente rispetto al martirio degli ebrei.
Questa spartizione è in ogni caso un fatto storico, nato da
una decisione internazionale. L’esistenza dei due stati, israeliano
e palestinese, nei confini fissati dalle Nazioni Unite è una
realtà oggettiva e legittima, e non la si può rimettere
in questione. Qualunque oltraggio alla legalità internazionale,
per quanto questa legalità possa essere discutibile, porta in
sé un male più grande ancora di quello contestato. Perciò ogni
soluzione del conflitto che non rispetti integralmente la legalità internazionale,
cioè le risoluzioni dell’ONU, non può condurre
alla pace.
PROPOSTE PER UN PIANO DI PACE DEFINITIVO
Per raggiungere la pace, solo la strada della diplomazia ha qualche
probabilità di successo. Questa strada si fonda su due regole
complementari: da una parte, la giustizia e il rispetto della legalità internazionale;
dall’altra, la necessità di fare alcune concessioni per
tenere conto della realtà. Il che presuppone da una parte conoscenza
e senso del diritto internazionale; dall’altra flessibilità e
discernimento nonché disponibilità a rinunciare ad una
parte dei miei diritti a favore dei diritti dell’altro. Aggiungerei
un appunto: posto il fatto che da più di mezzo secolo dominano
guerra e odio, non esiste una soluzione perfetta; occorre cercare e
accettare la meno imperfetta delle soluzioni.
Occorre raggiungere una soluzione duratura – anzi, definitiva – della
crisi del Medio Oriente, per poter costruire tutti insieme, lentamente,
la pace. E forse – se ci è permesso di sognare un po’ – per
creare una Unione Medio-Orientale (UMO), così come esiste
una Unione Europea (UE), nata essa stessa dalla convinzione dell’inutilità delle
continue guerre in Europa, soprattutto tra Francia e Germania.
Per raggiungere questo obiettivo, proverei ad indicare una via, nello
stesso tempo giusta e realista, che esprimo in questi punti essenziali,
un piccolo “decalogo della pace in Medio Oriente”:
1. Creare uno stato palestinese basato sulle frontiere internazionali
anteriori alla guerra del 1967; dovranno essere fatte piccole modifiche,
purché di comune accordo fra Israele e Palestina.
2. Il “diritto di ritorno” dei palestinesi, riconosciuto
dall’ONU nella risoluzione 194 dell’assemblea generale,
dovrebbe essere riconosciuto per principio, anche a costo di discuterne
l’applicazione, fra il ritorno di un numero limitato di palestinesi
e un compenso per gli altri garantito dalla comunità internazionale.
3. Le colonie israeliane potrebbero rimanere per un periodo limitato
(per esempio, una decina d’anni) sotto la sovranità israeliana.
Successivamente, i coloni dovranno decidere: o ritornare in Israele,
o restare sotto la sovranità palestinese, come hanno fatto un
tempo i 160.000 palestinesi che hanno deciso di vivere sotto la sovranità israeliana.
4. Riconoscimento ufficiale e scambio di ambasciatori: ciascuno stato
del Medio Oriente (compresi Turchia, Iran, Iraq, Siria, ecc.) deve
riconoscere ufficialmente come definitive le frontiere degli altri
stati, e impegnarsi ad accreditare ambasciatori in questi stati.
5. Istituire una forza internazionale “robusta” laddove
la pace non sia stata ancora pienamente acquisita, per controllare
anche il traffico delle armi; in particolare tra Israele e Palestina,
Israele e Libano, Libano e Siria, Siria e Iraq, Iran e Iraq, Turchia
e Iraq. Questa forza dovrebbe essere posta su entrambi i lati delle
frontiere internazionali.
6. Aiutare gli stati militarmente deboli a costituire un esercito nazionale
sufficientemente forte per assicurare da solo la sicurezza e quindi
smilitarizzare tutti i gruppi: milizie o coloni. Allo stesso tempo,
operare per la riduzione degli investimenti militari nel Medio Oriente
e per controllare gli stati militarmente potenti.
7. Liberare tutti i prigionieri degli altri paesi detenuti in ciascuno
stato, mediante accordi di scambio; in particolare tra Israele e Palestina,
Israele e Libano, Libano e Siria.
8. Creare una commissione internazionale per risolvere in modo equo
il problema dell’acqua nella regione, condizione essenziale per
lo sviluppo e causa frequente di conflitti.
9. Creare una commissione internazionale, che comprenda Israele e Palestina,
per la città di Gerusalemme, che i due stati desiderano legittimamente
assumere come capitale. Si tratta qui di garantire la sicurezza, la
libertà di movimento e il rispetto delle frontiere internazionali
all’interno della città; ma anche la sacralità,
la salvaguardia e l’accessibilità dei Luoghi Santi che
sono un patrimonio universale e devono essere protetti da accordi internazionali.
10. Lanciare il progetto di una Unione Medio-Orientale (UMO) tra tutti
gli stati della regione, compresi ovviamente Israele, Palestina, Giordania,
Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Iran, ecc, se sono decisi a vivere
in pace tutti insieme. Porne le fondamenta giuridiche, economiche,
politiche, militari e culturali; definire le condizioni per esserne
membri; organizzare incontri tra gli stati della regione; proporre
un calendario, ecc. Firmare accordi di pace bilaterali o multilaterali
per lunghi periodi (da 10 a 20 anni). Per molti punti si potrà approfittare
dell’esperienza dell’Unione Europea.
UN’UTOPIA DA REALIZZARE
Perché un tale progetto possa iniziare a realizzarsi occorre
una rivoluzione mentale. Da più di mezzo secolo i responsabili
politici d’Israele e dei paesi arabi non hanno proposto che la
violenza ai loro popoli come unica soluzione ai problemi, convincendoli
che il diritto e la ragione erano con loro. Occorrerà un lungo
lavoro interiore e molto coraggio per cambiare discorso. La guerra
non richiede coraggio, la pace sì!
La guerra che si è svolta sotto i nostri occhi, con il suo strascico
disumano di bestialità e sofferenze, ha consentito a milioni
di persone, di tutte le tendenze, di capire che la violenza è inutile,
che il Medio Oriente non sarà pacificato dalla guerra. Questa
scoperta è forse l’unico bene emerso da questa tragedia,
il cui prezzo elevato è stato pagato soprattutto dal popolo
libanese, che aveva appena iniziato la ricostruzione.
Se da questa tragedia potesse nascere un progetto serio di pace definitiva,
allora questo martirio non sarà stato vano! “Del resto,
noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Romani
8, 28), scriveva un ebreo orientale all’alba del cristianesimo,
Paolo di Tarso. E un figlio di Annaba (oggi in Algeria), non meno celebre,
chiamato Agostino, commentava questo pensiero aggiungendo due parole: “etiam
peccata” (De Doctrina Christiana 3, 23, 33), anche i peccati.
Noi diciamo: “anche la guerra”. Perché no?
Molto prima di Paolo e Agostino, un vecchio ebreo ispirato, Isaia,
aveva proclamato la sua utopia:
“Il lupo abiterà con l'agnello, e il leopardo si sdraierà accanto
al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno
assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con
l'orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il
foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera,
e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.
Non si farà né male né danno su tutto il mio monte
santo, poiché la conoscenza di Yahvé riempirà la
terra, come le acque coprono il fondo del mare. In quel giorno, verso
la radice di Iesse, issata come vessillo dei popoli, si volgeranno
premurose le nazioni, e la sua residenza sarà gloriosa. In quel
giorno il Signore stenderà di nuovo la mano per riscattare il
residuo del suo popolo rimasto in Assiria e in Egitto, a Patros e in
Etiopia, a Elam, a Scinear e a Camat, e nelle isole del mare. Egli
alzerà un vessillo verso le nazioni, raccoglierà gli
esuli d'Israele, e radunerà i dispersi di Giuda dai quattro
canti della terra” (Isaia 11, 6-12).
L’utopia, questo paese che non esiste da “nessuna parte”,
potrebbe domani realizzarsi se palestinesi e israeliani, libanesi e
siriani, ebrei e musulmani, insomma noi tutti volessimo credere all’impossibile.
I libanesi ci credono ancora? Il mondo ci crede ancora? Il realismo
consiste nell’avere una visione utopistica precisamente per poterla
realizzare.
Questo paese che non esiste è il paese del futuro. La “terra
promessa” non cade dal cielo, si costruisce con la fatica e il
cuore di coloro che cercano e costruiscono la pace. La “Gerusalemme
celeste” dell’Apocalisse o esiste sulla terra o non esiste
affatto. Quella Gerusalemme di cui il salmista canta: “In essa
ogni uomo è nato”, aggiungendo: “l’Altissimo
la tiene salda. Sono in te tutte le mie sorgenti!” (Salmo 87).
Allora tutti i popoli potranno cantare con Davide:
“Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano,
sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli
e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per
la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene” (Salmo
122, 6-9).
Allora si realizzeranno le parole dell’Apocalisse (21, 2-4):
“Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere
dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii
allora una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco la dimora
di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno
suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni
lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto,
né lamento, né affanno, perché le cose di prima
sono passate’”.
Centre de Documentation
et de Recherches Arabes Chrétiennes
|