Il mercato religioso intra-islamico

di Massimo Introvigne (La Critica Sociologica, n. 152, inverno 2004-2005 [10 febbraio 2005)], pp. 43-56)

La teoria del mercato religioso postula che – anche nel lungo periodo – la domanda religiosa tende a rimanere costante, e che per spiegare le variazioni delle statistiche religiose occorre dunque porsi dal lato dell’offerta.

Ci sono infatti notevoli variazioni nella pratica religiosa tra un paese e l’altro, cui non si accompagnano peraltro variazioni altrettanto importanti nel numero di coloro che si dichiarano religiosi o credenti, a conferma che non è la domanda a mutare. Negli Stati Uniti il numero di coloro che frequentano regolarmente i luoghi di culto (circa il 40%) è il doppio di quello dell’Unione Europea; in Italia la stessa cifra è tre volte superiore a quella della Francia (Davie 2002); e così via. Se queste discrepanze non derivano dalla domanda, debbono derivare dall’offerta, e dalle modalità con cui l’offerta incontra la domanda: un contesto in cui è fondamentale il ruolo degli Stati e dei loro atteggiamenti e normative sulla religione.

Senza trascurare altri elementi relativi, per esempio, alla qualità dell’offerta religiosa nei vari paesi, la teoria sostiene che

– come per ogni altro mercato di beni materiali o simbolici, e contrariamente a quanto pensano alcuni teorici della secolarizzazione – anche per la religione (istituzionale) la concorrenza fa bene al mercato e, entro certi limiti, l’offerta alimenta la domanda.

I paesi con un più ampio pluralismo religioso – cioè con la maggiore concorrenza fra imprese religiose – come gli Stati Uniti, o quelli dove l’ingresso di nuove imprese particolarmente attive crea un improvviso aumento della concorrenza (come l’America Latina dopo la cosiddetta esplosione protestante, che ha stimolato una vigorosa risposta cattolica), sono anche i paesi dove il numero totale di praticanti religiosi si mantiene stabile o cresce.

Dove invece lo Stato ostacola il pluralismo religioso, opponendosi in particolare all’ingresso sul mercato di nuove imprese, bollate come «sètte» o come nemiche dell’identità nazionale, lì – come avviene in Francia e in Russia – il numero di praticanti religiosi in genere decresce in modo spettacolare.

Si deve anche precisare che non si tratta solo di concorrenza tra religioni. Almeno due religioni – il cattolicesimo e l’islam – sono così grandi (ciascuna conta più di un miliardo di fedeli) da avere sviluppato anche quel fenomeno che gli economisti chiamano concorrenza intrabrand.

La possibilità di scegliere fra innumerevoli varianti del cattolicesimo in Italia (secondo processi di differenziazione che i sociologi della religione italiani hanno notato da decenni) o dell’islam in Indonesia o in Egitto crea una concorrenza che, mutatis mutandis, ha gli stessi effetti positivi della concorrenza interbrand fra religioni diverse, e spiega la buona tenuta della religione istituzionale in questi paesi.

Un’altra tesi centrale della teoria dell’economia religiosa (cfr. Introvigne 2004) è quella secondo cui

nel mercato religioso moderno non tutte le religioni hanno la stessa probabilità di avere successo. La domanda religiosa si distribuisce in nicchie che radunano gruppi di consumatori secondo le caratteristiche sociali e demografiche, ma anche secondo i gusti e le preferenze.

Queste nicchie possono essere distinte secondo il loro grado di strictness, cioè di tensione rispetto ai valori e agli stili di vita (in genere, meno rigorosi di quelli proposti dalle religioni sul piano morale e dell’impegno) prevalenti nella società circostante. Semplificando schemi più complessi, possiamo distinguere cinque nicchie, dalla più alla meno strict: ultra-fondamentalista, fondamentalista, conservatrice, progressista e ultra-progressista.

Una delle scoperte cruciali della teoria dell’economia religiosa è che queste nicchie – che, come la domanda, tendono a rimanere relativamente costanti nel tempo – non sono di uguale dimensione. Le nicchie progressista e ultra-progressista sono piuttosto piccole, perché patiscono la concorrenza di chi propone gli stessi valori e stili di vita in una prospettiva non religiosa. Le nicchie ultra-fondamentalista e fondamentalista in circostanze normali sono più grandi di quelle ultra-progressista e progressista, ma più piccole della nicchia centrale conservatrice, in cui si situa la maggioranza dei consumatori religiosi. Inoltre, mentre i consumatori si spostano raramente da una nicchia all’altra, le organizzazioni religiose lo fanno: lentamente, ma quotidianamente. Molte organizzazioni nate come ultra-fondamentaliste convergono verso il centro, e diventano nel giro di qualche generazione semplicemente conservatrici (alla prossima generazione potranno anche diventare progressiste: in tal caso, cominceranno a perdere membri).

Che le organizzazioni (relativamente) più strict, che chiedono maggiori impegni e sacrifici, prosperino più di quelle meno «costose» per i consumatori religiosi può sembrare sorprendente, ma è spiegato dalla teoria dell’economia religiosa con riferimento al concetto di free rider (Olson 1965; Iannaccone 1992, 1994; Iannaccone, Olson e Stark, 1995). Il free rider è chi «viaggia a sbafo»: sale sull’autobus ma non paga il biglietto, vuole ottenere i benefici di un’impresa collettiva ma non vuole pagarne i costi. Un’organizzazione può tollerare alcuni free rider, ma non troppi. Nel campo delle religioni, le organizzazioni meno strict e rigorose, che impongono bassi costi di entrata e controllano in modo blando se i membri hanno pagato il biglietto, cioè se si impegnano sufficientemente, imbarcano un numero così alto di free rider da offrire ai loro fedeli un’esperienza religiosa annacquata e poco soddisfacente, oltre a incontrare i problemi – spesso fatali – che tormentano tutte le imprese che hanno un tasso di free rider troppo alto. Le organizzazioni più rigorose fanno pagare un biglietto più costoso, e controllano che tutti lo paghino: dunque lasciano entrare meno free rider, e i beni simbolici prodotti da un gruppo dove i free rider non abbondano si presentano in genere come più soddisfacenti per i consumatori.

Naturalmente, il biglietto non deve essere troppo caro. La nicchia ultra-fondamentalista è relativamente piccola, perché le persone disposte a pagare prezzi altissimi per un’esperienza religiosa molto intensa sono poche. Ma il fatto che siano poche non vuol dire che non esistano.

Questo premesso, «non vi è nessuna ragione per ritenere che la teoria del mercato religioso non si applichi al mondo islamico» (Gill 2002, 128), purché si tenga conto che è un mercato religioso nella gran parte dei casi intra-islamico, dove la concorrenza è creata da diversi movimenti all’interno dell’islam, non da religioni diverse che all’islam si contrappongono.

Ogni discussione di tipo teorico necessita della previa distinzione fra fondamentalismo-movimento (riferito a un determinato movimento storico, con precise origini e sviluppi) e fondamentalismo-tipo ideale (riferito al carattere strict e a una certa idea del rapporto religione-cultura a prescindere dall’appartenenza all’una o all’altra corrente storica).

Il “fondamentalismo” islamico

La tragedia dell’11 settembre 2001 e le sue conseguenze hanno riportato all’attenzione generale il problema della terminologia da usare quando si parla di islam, «fondamentalismo» e «radicalismo».

«fondamentalismo»

Negli anni 1990, la categoria di fondamentalismo islamico è stata ampiamente costruita – anche tenendo conto del regime al potere in Iran dopo la rivoluzione «fondamentalista» del 1979 – sulla base di
- la non distinzione (non solo la non separazione) fra religione e politica (non soltanto fra religione e cultura),
- il desiderio di ristabilire «l’ordine ideale della Città di Dio» nella città degli uomini, attraverso la rigorosa applicazione della legge islamica, la shari‘a.(Guolo 1994, 22)

Alcuni hanno preferito a «fondamentalismo», quando si parla dell’islam, termini diversi come «integrismo» (talora distinguendo anche tra «fondamentalismo» e «integrismo» in base a gradi diversi di estremismo), o ancora «islamismo» o «radicalismo» (quest’ultimo usato da alcuni autori in un senso più specifico, per indicare una corrente all’interno del «fondamentalismo»): ma il problema di fondo non cambia.

Sembra, in realtà, che la letteratura degli anni 1990 parlasse di «fondamentalismo islamico» in due sensi diversi.
Nel primo senso :
-il «fondamentalismo islamico» è un tipo ideale, un modello di pensiero e di atteggiamento che rimanda a un attivismo politico-religioso militante.

Così inteso, il fondamentalismo islamico comprenderebbe una serie di correnti puritane e antimoderne che si sono manifestate – come notava nel 1995 Olivier Roy (1995, 29-30), spesso nella scia della più rigorista delle scuole giuridiche, quella hanbalita fondata da Ibn Hanbal (780-855) – a partire dal XVIII secolo (il wahhabismo, ideologia ufficiale dell’attuale Arabia Saudita, anche se il termine è oggi contestato come invenzione di orientalisti occidentali proprio nel paese di origine), quindi nel XIX (il movimento deobandi), e infine altre nate solo nel XX secolo. A favore dell’uso di questa prima nozione di fondamentalismo islamico sta il fatto che queste correnti oggi spesso collaborano fra loro e sembrano indirizzarsi alla stessa nicchia di mercato.

In un secondo senso, che sembra prevalere negli anni 2000, l’espressione «fondamentalismo islamico» designa invece
- un movimento, che ha uno specifico inizio e un percorso nella storia.

In questo senso, un «fondamentalismo-movimento» nasce dopo la Prima guerra mondiale come reazione alla penetrazione di idee occidentali «moderne» nel mondo musulmano. A queste oppone come antidoto il ritorno al Corano, una certa ostilità all’Occidente, e l’applicazione della shari‘a in opposizione a qualunque tentativo d’instaurare nelle terre dell’islam sistemi giuridici di tipo occidentale. Dopo l’abolizione del califfato nel 1924, il fondamentalismo si presenta anche come «movimento del califfato» (nome con cui è noto ai suoi albori in India), in quanto propone la restaurazione di questa funzione, con un ruolo più che meramente simbolico. Le date rilevanti sono, da questo punto di vista, nel mondo sunnita il 1928 in Egitto, data della fondazione dei Fratelli Musulmani da parte di Hasan al-Banna (1906-1949) (Mitchell 1993; Jansen 1997) e il 1941 nel subcontinente indiano, dove Mawlana Sayyid Abu l-A‘la Mawdudi (1903-1979) fonda la Jama‘at-i Islami (Nasr 1994, 1996). Come teorico radicale, Mawdudi è spesso accostato a Sayyid Qutb (1906-1966), esponente dei Fratelli Musulmani giustiziato in Egitto nel 1966. Nel mondo sciita la data di riferimento è certamente la rivoluzione iraniana del 1979, i cui prodromi remoti possono essere rintracciati nel tentativo – per i tempi del tutto nuovo – dell’alto clero sciita nelle città sante dell’attuale Iraq di impostare un progetto anche politico di re-islamizzazione della società, in reazione all’occupazione e poi al mandato britannico dopo la caduta dell’Impero Ottomano (cfr. Luizard 2002a; più brevemente, Luizard 2002b). La repressione inglese porta al fallimento del progetto, ma si può dire che il fondamentalismo sciita iraniano abbia in questo senso le sue radici in Iraq.

A complicare il quadro, nella repressione sovietica del movimento indipendentista della Cecenia, nell’attuale Russia e negli Stati ex-sovietici dell’Asia Centrale, «wahhabismo» è spesso usato come sinonimo di «fondamentalismo» (Rashid 2002). L’uso fa riferimento al fondamentalismo islamico in senso lato o come tipo ideale, mentre se s’intende il fondamentalismo come un movimento storico il wahhabismo è piuttosto un «concorrente» di tipo tradizionalista del fondamentalismo. I contatti fra l’Arabia settecentesca e la modernità (contro cui il fondamentalismo in senso stretto è una reazione) rimangono limitati, e oggi non tutti i wahhabiti hanno una buona opinione del movimento fondamentalista, di cui il wahhabismo ufficiale non condivide lo stile populista e l’avversione alle autorità islamiche costituite (Roy 1995, 30-32).

Quanto a «salafita» (da salaf, i «pii antenati» cui si deve ritornare), il termine – oggi a sua volta talora presentato come sinonimo di «fondamentalista» –, più che a «fondamentalismo», equivale in via analogica al termine «movimento di risveglio» in ambito protestante. I wahhabiti si auto-definiscono «salafiti», ma si tratta – come ricorda Burgat (1988) – di una salafiyya, non certo dell’unica. Lo stesso termine indica nel secolo XIX il risveglio islamico che mira a risollevare l’islam dallo stato di decadenza in cui era caduto. In realtà, da questo risveglio «salafita» – nell’ambito del quale una partita importante si gioca a Damasco, dove correnti diverse lottano per l’egemonia culturale in una città che influisce su tutto il mondo islamico (Weismann 2001) – guidato da figure come Jamal al-Din Afghani (1839-1897) e Muhammad ‘Abduh (1849-1905) si alimentano nel secolo XX e XXI filoni diversi. In parte vanno effettivamente inclusi nel movimento fondamentalista (e leggono la salafiyya ottocentesca attraverso gli occhiali del suo esponente tardo Rashi¯d Rida¯, 1865-1935), in parte sono invece a vario titolo «riformisti». Il programma di «modernizzare l’islam» e «islamizzare la modernità» non manca di una certa ambiguità.

Lo scenario descritto da Weismann (2001) con riferimento alla città di Damasco è importante, perché ci presenta lo schema tipico di un movimento di risveglio. A fronte di una crisi si manifesta un movimento di riformisti, che rimane aperto a diverse interpretazioni, è sviluppato dalla generazione successiva in direzioni alternativamente progressiste, conservatrici, o fondamentaliste, con eventuali sbocchi ultra-fondamentalisti. I riformisti insistono tutti sulla shari‘a, ma se la sua interpretazione debba essere basata solo sul taqlid (tradizione, cristallizzata nei hadith [forma preferibile a «gli» hadith, dal momento che la lettera h iniziale è aspirata]) o anche sull’ijtihad (ragionamento individuale di tipo analogico, che permette un margine di interpretazione e adattamento) è la questione che divide i loro discepoli.

A seconda dei diversi accostamenti alla shari‘a ci si colloca nelle nicchie conservatrice o fondamentalista.
Nella sostanza, tuttavia, i riformisti rispondono a una domanda religiosa cui la precedente offerta non era adeguata, e – anche tramite le stesse divisioni dei loro discepoli – creano nei paesi a maggioranza islamica un mercato religioso di tipo moderno.

Come «fondamentalismo», anche «modernismo» nel mondo islamico è una parola utilizzata ambiguamente e con molti significati diversi. Se si tratta di abbracciare la modernizzazione economica e tecnologica, la maggior parte dei «fondamentalisti» è essa stessa «modernista». Meno ambiguamente, si può parlare di «progressismo» (una categoria forse meno logorata dall’uso per quanto riguarda l’islam) per correnti e organizzazioni caratterizzate dai bassi costi richiesti ai membri e da un’accettazione della separazione fra religione e cultura come inevitabile, e di «ultra-progressismo» per correnti che teorizzano e promuovono questa separazione di tipo laicista e non si limitano ad accettarla. L’audience di queste correnti, pure non assenti nel mondo islamico, rimane però relativamente limitata.

In questa prospettiva, si dovrebbero considerare sia il fondamentalismo-movimento sia forme di tradizionalismo come quelle rappresentate dai wahhabiti e dai deobandi come organizzazioni in concorrenza fra loro. Entrambe cercano di rispondere alla domanda religiosa che viene dalla nicchia che chiamiamo in senso generale «fondamentalista» (con riferimento al fondamentalismo come tipo ideale) o strict.

Alcune organizzazioni del fondamentalismo-movimento alzano il livello di tensione con la società fino ad andare a occupare la nicchia radicale (ultra-fondamentalista, o ultra-strict). Nello stesso tempo, secondo il consueto itinerario che prevede il graduale spostamento da nicchie più strict verso il centro, altre frazioni del fondamentalismo-movimento si muovono in direzione della nicchia centrale conservatrice. Si potrebbe perfino parlare di un itinerario islamico «da “sètta” a Chiesa». Del resto, già Enzo Pace (1999) ha acutamente notato che, nel momento in cui la loro pertinenza è messa in discussione con riferimento al cristianesimo, le categorie di «Chiesa», «sètta» e «misticismo» elaborate da Weber e Troeltsch possono rivelarsi assai feconde, opportunamente adattate, per una sociologia dell’islam.

Nella nicchia ultra-strict le frange radicali (alcuni delle quali includono esplicitamente il terrorismo tra i loro mezzi di lotta) del fondamentalismo-movimento si trovano in concorrenza con frange radicali del tradizionalismo (con cui possono allearsi o scontrarsi). Nella nicchia conservatrice, gruppi che evolvono dal fondamentalismo-movimento si incontrano (o, ancora, sono in concorrenza) con altri che corrispondono a diverse linee di sviluppo dei revival ottocenteschi nati intorno a personaggi come Afghani e ‘Abduh e ai loro omologhi in area non araba. Infine, un islam che secondo il modello delle nicchie può essere chiamato «conservatore» nasce autonomamente in diversi paesi con movimenti originali di carattere riformista come il movimento Nur in Turchiao.

Non si devono confondere questi movimenti riformisti di tipo conservatore con altri che si collocano nella nicchia progressista.

La legge della domanda e dell’offerta spiega anche il terrorismo islamico

Intervista al direttore del Centro di Studi sulle Nuove Religioni
(ZENIT. Il mondo visto da Roma, 17 gennaio 2005)

TORINO - Il sociologo italiano Massimo Introvigne sostiene che, anche dal punto di vista islamico, il terrorista che si autoimmola non è un martire. “Le organizzazioni terroriste non compiono attentati per il gusto di farli o perché sono mosse da una volontà di distruzione apocalittica. Operano come ‘industrie del terrorismo’ secondo la normale logica aziendale costi-benefici”.

Diciamolo chiaramente: un terrorista non è un martire…

Massimo Introvigne: Martyres non facit poena sed causa, dicevano i Padri della Chiesa: si è martiri non per il modo di morire ma per la causa per cui si muore. Dal momento che, come insegna il magistero della Chiesa cattolica – e come confermano anche solenni dichiarazioni delle Nazioni Unite sottoscritte da (quasi) tutti i paesi del mondo – il terrorismo è un mezzo sempre illecito a prescindere dal fine al cui servizio dichiara di porsi, quella terrorista è una cattiva causa e chi la serve non è un martire.
Anche dal punto di vista islamico è in realtà molto dubbio che il terrorista suicida abbia diritto al titolo di "shahid", martire. Abbiamo pubblicato in appendice a "Il mercato dei martiri" una fatwa di ambienti sauditi vicini a Osama bin Laden che cerca di sostenere che si tratta di martirio, ma abbiamo anche messo in luce nel libro come per arrivare a questa conclusione le fonti tratte dal Corano e dalla Sunna devono essere veramente tirate per i capelli.

Perché si suicidano?

Massimo Introvigne: Anche se oggettivamente, per le ragioni che ho appena esposto, il terrorismo suicida non è un martirio, soggettivamente per il terrorista lo è.
Anzi, intervistando anni fa esponenti di Hamas in Cisgiordania, ho notato che la loro principale preoccupazione è quella di voler essere veramente sicuri che quello che si propongono di fare non sia un suicidio, che sarebbe un gesto proibito dall'islam e li manderebbe all'inferno. E i loro dirigenti li rassicurano con argomentazioni teologiche che, per quanto dubbie (e derivate da fonti originariamente sciite, trasferite non senza difficoltà nel diverso ambiente dottrinale sunnita), li convincono.
Dunque il "martire", che non è tale per noi, pensa veramente di stare compiendo un atto meritorio dal punto di vista religioso.

Se non è la povertà né la disperazione che li induce ad autoimmolarsi, che cosa è allora?

Massimo Introvigne: Abbiamo mostrato nel libro che le spiegazioni fondate sulla povertà e sulla disperazione socio-economica non tengono: molti dei terroristi suicidi sono benestanti.
Certo, si può parlare di "disperazione culturale" ma è una categoria talmente vaga che spiega tutto (dunque rischia di non spiegare nulla). Altri parlano di "lavaggio del cervello" o manipolazione mentale, categorie che in genere io non condivido (cfr. Massimo Introvigne, "Il lavaggio del cervello, realtà o mito?", Elledici, Leumann [Torino] 2002) e che è difficile applicare a un Mohammed Atta, il capo del commando dell'11 settembre 2001, studente universitario laureato a pieni voti ad Amburgo che non ha mai vissuto in un campo di addestramento o in un ambiente fondamentalista islamico: gli avranno lavato il cervello solo con i sermoni del venerdì in moschea?
Iannaccone ed io siamo convinti che tutte queste "spiegazioni" siano frutto di un pregiudizio anti-religioso e di un riduzionismo politico o psicologico per cui i fenomeni che si presentano come religiosi "non possono" avere cause religiose. La religione, come diceva Marx, è solo "sovrastruttura" della vera struttura, che per lo stesso Marx è economica e per Freud è psicologica.
Certo, nessun fenomeno va ridotto a una sola causa, e pretendere che le motivazioni del terrorista suicida siano soltanto religiose sarebbe ugualmente caricaturale. Ma la religione vi gioca una grossa parte.

Esiste, come afferma lei stesso, una "industria del terrorismo suicida"?

Massimo Introvigne: Sì. Noi distinguiamo fra le motivazioni dei singoli, di cui ho parlato, e le motivazioni delle organizzazioni. Singoli il cui modo di leggere la religione - in particolare l'islam - li predispone ad atti violenti, fino al terrorismo suicida, ci sono in molte culture. Ma non dovunque ci sono le "aziende", le "industrie", che rispondono a questa domanda potenziale offrendo un arruolamento e la possibilità di passare dall'attualità alla potenzialità del terrorismo.
Non c'è un terrorismo islamico in Senegal o in Mali, che sono paesi con molti musulmani ferventi e anche poveri. Ce n'è pochissimo in Turchia, dove a colpire sono più spesso terroristi islamici stranieri o terroristi di matrice comunista o separatista curda, le cui motivazioni non sono religiose.
C'è un terrorismo in Arabia Saudita (un paese ricco), in Egitto, in Indonesia, in Pakistan, nella diaspora italiana, spagnola, francese, tedesca, perché qui ci sono organizzazioni capaci di reclutare i potenziali terroristi.
Naturalmente c'è anche un terrorismo in Cecenia, Palestina, Kashmir: ma non c'è solo in questi paesi in guerra, anzi Al Qaida recluta quasi tutti i suoi membri in Arabia Saudita, in Egitto e nell'emigrazione islamica in Europa, dunque non in zone di guerra.

Lei sostiene che è più proficuo intervenire sulla "offerta" di terrorismo che non sulla "domanda". Ci può spiegare meglio?

Massimo Introvigne: Chi pensa che il terrorismo suicida nasca dalla povertà ritiene che "piani Marshall" in grado di eliminare la povertà in Palestina o altrove possano risolvere il problema.
Chiarito subito che questi piani sono utilissimi e doverosi - ma per altre ragioni - la nostra ipotesi è che abbiano poco a che fare con la soluzione del problema terrorismo. Come accennato, la maggior parte dei terroristi (non tutti, naturalmente) vengono da famiglie benestanti o anche da paesi ricchi.
In realtà le soluzioni proposte si concentrano spesso sul togliere dalla testa del singolo terrorista l'idea di diventare un "martire" suicida. E' possibile fare qualcosa su questo piano, ma molto lentamente e con risultati da valutare in tempi lunghissimi.
La nostra ipotesi è che, per molti anni ancora, continueranno a nascere giovani che leggono l'islam in un modo tale da creare nella loro mente e nel loro cuore una domanda di estremismo che può spingersi fino al terrorismo, e questo anche nelle migliori condizioni socio-economiche e in zone non di guerra e dove non ci sono rivendicazioni territoriali o occupazioni occidentali, come l'Arabia Saudita o l'Indonesia (non parlo qui delle isole o aree separatiste dell'arcipelago indonesiano: molti terroristi vengono da Jakarta).
Quello che è possibile ottenere in tempi più rapidi è che questa domanda non incontri un'offerta, cioè è possibile stroncare le organizzazioni che offrono inquadramento e addestramento ai terroristi.
E' possibile in parte stroncarle sul piano militare, che è un piano che non può essere trascurato come vorrebbero le "anime belle" del pacifismo. E' obbligatorio stroncarle sul piano finanziario e delle somme di denaro che continuano a ricevere troppo facilmente, in genere attraverso organizzazioni "umanitarie" che fanno da paravento ai terroristi.
Soprattutto, il libro cerca di dimostrare che le organizzazioni terroriste non compiono attentati per il gusto di farli o perché sono mosse da una volontà di distruzione apocalittica. Operano come "industrie del terrorismo" secondo la normale logica aziendale costi-benefici. Si propongono benefici politici e talora li ottengono: Hamas ha fatto fallire più di un piano di pace in Palestina, l'attentato dell'11 marzo ha influito sulle elezioni spagnole, e così via.
Nel momento in cui si accorgono che gli attentati suicidi non sono più "convenienti" e non danno risultati (anzi, sono controproducenti) le organizzazioni terroristiche cambiano strategia. Per questo la risposta al terrorismo suicida sul piano dell'offerta è, ultimamente, un problema politico.

Estremisti del nulla
di Massimo Introvigne (il Giornale, 23 settembre 2004)

Per tredici italiani su cento il terrorista suicida non è né un assassino né un terrorista. Per quattro è un eroe e addirittura per nove è un martire. Questo risultato sconcertante esce da un sondaggio del Tg2, che aveva posto agli italiani la domanda: “Chi è per te il kamikaze?”
Il sondaggio conferma un dato noto ai sociologi. L'estremismo religioso o politico è un dato costante in tutte le società. L'Italia non ne è immune. Quello che alla maggioranza appare ripugnante o vergognoso affascina minoranze non irrilevanti. Non si deve tuttavia esagerare nell'interpretare immediatamente questi risultati come segnali di un possibile passaggio di un numero imprevedibile di giovani estremisti italiani nelle file del terrorismo globale. Come molti altri fenomeni in un mercato simbolico di beni e di servizi, che molti studiosi di scienze sociali si sforzano di analizzare applicando anche alla politica e alla religione modelli che vengono dalle scienze economiche, il terrorismo suicida presuppone una domanda e un'offerta.
La domanda di estremismo religioso non è, naturalmente, una specificità dell'homo islamicus, qualche cosa che farebbe del musulmano una sorta di specie a sé. Esiste in tutte le società, dove la domanda di esperienze religiose o politiche si rivolge nella sua grande maggioranza a forme rassicuranti e pacifiche, ma una percentuale non irrilevante di persone, specie giovani, cerca invece esperienze estreme ed è suscettibile ai richiami dell'estremismo e della violenza proposti in nome della fede o dell'ideologia (magari no global o anti-americana). Ma questi richiami - l'offerta di estremismo, che fa appunto da contrappunto alla domanda - non sono ugualmente forti nelle diverse culture. Perché l'ingenua ammirazione per il terrorismo si trasformi in una vera e propria partecipazione ad organizzazioni terroristiche, è necessaria la presenza di una forte tradizione di violenza e di frange radicali con una lunga storia e una robusta organizzazione. Questa tradizione e queste frange né rappresentano tutti i musulmani né costituiscono la maggioranza dell'Islam: ma nel mondo islamico hanno una presenza che coinvolge centinaia di migliaia di persone.
Nel cristianesimo dominante in Italia, così come nella nostra politica, anche estremista, le frange violente esistono ma sono decisamente minoritarie. L'indagine della Rai dimostra che l'estremismo potenziale - che si traduce nell'ammirazione per i terroristi suicidi - esiste anche in percentuali di qualche peso della popolazione italiana. Ma questo estremismo potenziale ha meno possibilità in Italia di passare dalla teoria alla pratica, dalle parole ai fatti, perché la nostra tradizione, religiosa e laica, ha maturato in sé una condanna della violenza, senza se e senza ma, che una parte minoritaria ma significativa dell'islam fatica invece non poco a raggiungere.

 

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