Islam :Il laboratorio turco

di Massimo Introvigne (La Critica Sociologica, n. 152, inverno 2004-2005 [10 febbraio 2005)], pp. 43-56)

Si può dire che la Turchia sia un esempio da manuale di come una teoria sociologica rivelatasi fallace [la teoria classica della secolarizzazione ] abbia informato la politica di un intero grande paese per parecchi decenni.

Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), il creatore della Turchia moderna, ispirava consapevolmente la sua politica al positivismo di Auguste Comte (1798-1857), di cui era grande ammiratore. Come è noto, secondo Comte la storia dell’umanità procede linearmente dallo stadio religioso a quello scientifico: a mano a mano che la scienza avanza, la religione è fatalmente condannata a recedere, e la resistenza religiosa alla scienza rappresenta un fenomeno di retroguardia e un ostacolo al progresso.

Benché Atatürk abbia personalmente attraversato fasi diverse nella sua relazione privata con la religione (Mango 2000), negli ultimi anni del suo governo il processo per instaurare il «laicismo» (laiklik, parola importata dalla Francia, cui si guarda come modello da imitare) assume caratteri virulenti sul piano sia giuridico, sia pratico. L’organizzazione tradizionale dell’islam turco, articolata nella rete delle moschee e nell’autorità della classe dotta degli ‘ulama’, ne riceve colpi durissimi. Ma – a conferma che spesso i processi di modernizzazione generano il risveglio e non la scomparsa della religione – l’islam turco, cacciato dalla sfera pubblica, sopravvive e prospera da una parte nelle confraternite sufi, particolarmente nelle varie branche della Naqshbandiyya, dall’altra nel già citato movimento riformista Nur («Luce») fondato da Said Nursi (1876-1960; cfr. Abu-Rabi‘, 2003). Benché non manchino scontri con il regime kemalista, entrambe le correnti resistono affermando di occupare spazi diversi da quello pubblico vietato alla religione: le confraternite la sfera privata, personale e familiare; il movimento Nur il campo della cultura attraverso circoli di lettura delle Epistole della Luce, il best seller del fondatore (a sua volta influenzato dal sufismo).

Questo complesso movimento islamico (su cui cfr. Yavuz 2003) comprende in sé varie tendenze – dal fondamentalismo a un moderato progressismo – ma ha in comune un riferimento positivo al passato ottomano (che il regime tende a sostituire con l’appello, scarsamente popolare, alla Turchia pre-islamica e perfino agli hittiti), la valorizzazione dell’islam turco rispetto a quello arabo, l’idea che il buon musulmano debba portare la sua moralità negli affari e che il successo economico sia una prova visibile dell’aiuto di Dio. Quest’ultimo accostamento – che non manca di ricordare il rapporto fra alcune denominazioni protestanti e il capitalismo prospettato da Max Weber (1864-1920) – si afferma in particolare nella branca della confraternita Naqshbandiyya detta Gümüshanevi raccolta intorno al carismatico shaykh Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) e alla moschea Iskenderpasa di Istanbul.

Della cerchia di Kotku – che coesiste con altre confraternite che contano milioni di seguaci, tra cui quella più tradizionalista dei Süleymanci – fanno parte tre futuri primi ministri: Turgut Özal (1927-1993), Necmettin Erbakan e l’attuale premier Recep Tayyip Erdogan.

Benché la Turchia kemalista sia una democrazia anomala, in cui il Consiglio per la Sicurezza Nazionale composto dagli alti vertici militari, custode del laicismo, ha il potere costituzionalmente riconosciuto di interferire pesantemente sul governo civile, negli anni della Guerra fredda si verifica un allentamento delle politiche anti-religiose. Non senza qualche suggerimento statunitense, i generali si convincono che la religione è un antidoto necessario al comunismo che s’infiltra pericolosamente nel paese. Di fronte all’incapacità di governi civili laicisti ma ampiamente corrotti di fronteggiare il terrorismo di matrice comunista e separatista curda, il colpo di Stato del 1980 apre la strada a un governo «suggerito» dai generali ma guidato da una personalità religiosa di ambiente sufi, Turgut Özal, che gode di ampio consenso. Tra l’altro, l’appello alla comune fede musulmana sunnita sembra l’unica via verso una soluzione del problema curdo.

Il laiklik turco si precisa così come qualche cosa di diverso dal laicismo francese – coltivato dogmaticamente come tale solo dall’ala più «occidentalista» e ateizzante dell’esercito –, e assume i caratteri di un laicismo moderato (Davison 2003), il cui germe era forse già presente in tendenze dell’epoca fondatrice dell’Atatürk e dei suoi immediati successori (Davison 1998).

La prematura scomparsa di Özal apre la strada a un nuovo periodo di instabilità, in cui emerge il partito Refah («Benessere») di un altro discepolo dello shaykh Kotku, Erbakan. Per la prima volta a un partito religioso è consentito, nel 1995, di vincere le elezioni. Ma Erbakan, a differenza del prudente Özal, sfida i militari sul terreno del giudizio storico sul kemalismo e lascia intendere pericolose svolte in politica estera, allontanandosi dai tradizionali alleati Stati Uniti e Israele e avvicinandosi ai Fratelli Musulmani, esponenti di un fondamentalismo arabo assai diverso dal «fondamentalismo» turco. I militari – in cui prevale un’ala chiusa in un kemalismo militante – reagiscono con il colpo di Stato «soffice» del 28 febbraio 1997, in cui lo stesso Erbakan è convinto a promulgare nuove leggi anti-religiose che porteranno alla messa al bando del suo partito Refah.

La campagna anti-religiosa che ne segue – nel corso della quale anche un riformista moderato come Fethullah Gülen, dirigente della principale branca in cui si è frammentato il movimento Nur (cfr. Yavuz ed Esposito, 2003), è incriminato come «fondamentalista» e indotto a trasferirsi, ufficialmente per motivi di salute, negli Stati Uniti – non suscita consensi nella popolazione, né i governi «laici» danno particolare buona prova sul terreno economico. Il successore immediato del Refah, il partito Fazilet («Virtù»), è a sua volta tempestivamente messo al bando, ma nel movimento islamico si manifesta una divisione fra i «vecchi» – legati a Erbakan e ai suoi tentativi di contatto con il fondamentalismo arabo e iraniano – e i «giovani», raccolti intorno al carismatico sindaco di Istanbul, Erdogan (anch’egli, peraltro, messo al bando dal potere giudiziario controllato dai militari, in quanto accusato di voler sovvertire il laicismo).

La separazione fra Erbakan e Erdogan (una sorta di «svolta di Fiuggi» per il mondo che aveva fatto parte del partito Refah) dà visibilità politica alla differenza, divenuta sempre più netta, fra movimenti che occupano la nicchia fondamentalista (legati a Erbakan e ai «vecchi» del partito) e movimenti che occupano la nicchia conservatrice e centrista, egemonizzati da Erdogan, la cui iniziativa politica di «democrazia conservatrice» è spesso paragonata a una versione islamica delle Democrazie Cristiane europee degli anni 1950.

Sul fronte fondamentalista, l’erbakanismo (che rimane vicino alle posizioni dei Fratelli Musulmani) patisce in Turchia una scarsa concorrenza da parte di formazioni ultra-fondamentaliste: il terrorismo radicale è spesso di importazione, e anche gli attentati firmati da un gruppo dal nome tipicamente turco, i Cavalieri del Grande Oriente (Büyük Dogu, titolo di un giornale fondato nel 1943 dall’influente intellettuale islamico Necip Fazil, 1904-1983) rimangono ambigui e sono variamente attribuiti a servizi segreti deviati o a infiltrazioni dall’estero di al-Qa‘ida. Piuttosto, nella stessa nicchia, il fondamentalismo erbakanista patisce la concorrenza di gruppi che fanno parte del mondo che abbiamo definito «tradizionalista».

In Turchia un islam puritano e «tradizionalista» è rappresentato principalmente da quattro milioni di Süleymanci, membri di una «comunità» (cemaat) fondata da Süleyman Hilmi Tunahan (1888-1959). Una cemaat non è tecnicamente una confraternita sufi: benché Tunahan provenisse personalmente da una branca, diversa di quella di Kotku, della Naqshbandiyya, criticava come irrimediabilmente decaduto il sistema delle confraternite, e Zarcone (2004, 281) ha potuto parlare a proposito dei Süleymanci di «sufismo senza confraternalismo».

Se la nicchia «progressista» si esprime soprattutto in intellettuali che tentano interpretazioni religiose del kemalismo sulla scia di Hasan Ali Yücel (1897-1961), nella nicchia «ultra-progressista» si possono collocare molti dei dieci milioni di alevi turchi, rappresentanti di una corrente di remote origini sciite e sufi che nel XX secolo ha legato la sua sorte a quella del laicismo turco.

Oggi è arrivata a presentarsi, in certi suoi esponenti che si dichiarano ormai «non religiosi» e che sono spesso influenzati dal marxismo (ma che non rappresentano la maggioranza della corrente), come un semplice movimento «culturale» (Olsson, Özdalga e Raudvere 1998; Shankland 2003; White e Jongerden 2003). La questione dei rapporti con gli alevi induce tra l’altro una certa confusione all’interno di un’altra corrente, la Bektasiya. Oggi si parla spesso di una «corrente alevi-bektasi», facendo prevalere il fatto che entrambi i movimenti occupano la nicchia religiosa (e politica) ultra-progressista sulle differenze di struttura (si nasce alevi, si è iniziati come bektasi) e di origine (la Bektasiya, per quanto accusata di eterodossia, nasce all’interno dell’islam sunnita, mentre le origini degli alevi, certo controverse, non sono comunque sunnite).

Tutti questi fattori contribuiscono a spiegare la particolare forza dell’islam centrista e conservatore in Turchia, dove non è rappresentato solo dalle sue espressioni politiche alla Erdogan. Anzi, la novità principale è costituita dal già citato movimento Nur, che dopo la morte del fondatore Nursi si frammenta in otto principali branche, la più grande e internazionale delle quali è diretta come si è accennato da Fethullah Gülen. Il riformismo del movimento di Fethullah Gülen e quello di Erdogan in effetti non coincidono, solo una parte dei membri del gruppo di Gülen in Turchia vota per il partito di Erdogˆan, e non mancano le divergenze, anche se entrambi promuovono un accostamento centrista e conservatore all’islam che si presenta come alternativo al fondamentalismo.

A proposito di quello che molti (ma non i suoi membri, che tengono al nome «Movimento Nur») chiamano «Movimento Fethullah Gülen », alcuni osservatori accademici parlano di uno stile di pensiero «neo-Nur» (Yavuz ed Esposito 2003), che unisce alle idee di Said Nursi un nazionalismo turco o grande-turco, il che ne spiega il successo nelle popolazioni che si considerano etnicamente affine ai turchi nell’Asia Centrale post-sovietica. Comunque sia, attraverso le oltre trecento scuole istituite in Europa e Asia, il «Movimento Nur» di Fethullah Gülen si è affermato come una delle principali presenze mondiali di un islam centrista e riformista. Le statistiche precise rimangono controverse – e c’è anche chi parla di un network più che di un movimento – ma i seguaci sono certamente nell’ordine dei milioni. Il movimento di Fethullah Gülen dedica particolare attenzione al dialogo inter-religioso, e in questo senso vanno segnalati un incontro fra lo stesso Gülen e Giovanni Paolo II nel 1998 nonché un congresso organizzato a Roma nel maggio 2003.

Alle elezioni del 2002, benché né Erbakan né Erdogan possano ufficialmente candidarsi, l’islam politico riesce a presentare due partiti, l’erbakaniano Saadet («Felicità») e l’erdoganiano Adalet ve Kalkinma (AKP, «Giustizia e Sviluppo»), che presenta un programma in cui la shari‘a è indicata come orizzonte ideale piuttosto che come insieme di precetti fissi e immutabili, e in cui la politica estera è saldamente ancorata all’alleanza statunitense e alla richiesta di ingresso nell’Unione Europea. Gli elettori danno la maggioranza relativa (34,2%) dei voti e quella assoluta dei seggi all’AKP, mentre il partito Saadet si ferma al 2,46% e non raggiunge neppure il quorum, e il Partito Repubblicano kemalista registra con il 19,39% un’evidente sconfitta. L’AKP vittorioso mette in atto una serie di modifiche legislative che permettono al suo leader Erdogˆan di ritornare alla vita politica e diventare primo ministro.

La delicata transizione (su cui cfr. Insel 2003) si compie nel febbraio 2003, proprio nei giorni in cui il Parlamento deve votare sulla richiesta degli Stati Uniti che chiedono il passaggio attraverso la Turchia di truppe dirette in Iraq. Benché l’AKP (e i militari) suggeriscano ai parlamentari di votare a favore della richiesta americana, molti deputati tengono conto dei timori e delle riserve dell’opinione pubblica (nonché delle pressioni franco-tedesche, che minacciano ulteriori ostacoli all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea) così che la proposta ottiene la maggioranza relativa ma manca per soli tre voti la maggioranza assoluta necessaria. Qualche giorno dopo il voto Erdogan si insedia come primo ministro, concede agli Stati Uniti almeno lo spazio aereo e inizia a ricucire i rapporti con Washington. È peraltro assai significativo che i militari non siano intervenuti né per impedire l’insediamento di Erdogan né per imporre al Parlamento il voto a favore della richiesta statunitense.

La storia della Turchia è una prova empirica della fallacia della teoria classica della secolarizzazione.
La modernizzazione – neppure in presenza di un imponente sforzo di laicizzazione tramite la scuola e i mezzi di comunicazione, saldamente sotto controllo kemalista – non ha generato scomparsa, ma piuttosto risveglio della religione.

Se è vero che le grandi società commerciali spesso legate agli interessi stranieri, federate nell’organizzazione confindustriale TÜSIAD, sono considerate un pilastro del kemalismo, le cosiddette «tigri dell’Anatolia», le medie imprese della zona asiatica che hanno gran parte nel boom economico recente, hanno costituito un’organizzazione alternativa, MÜSI'AD, la cui dirigenza si ispira a principi di tipo religioso e sostiene l’AKP.

Quest’ultimo partito costituisce un interessante esperimento – i cui risultati sono, evidentemente, da verificare – di movimento radicato nell’islam politico (turco e di ispirazione sufi, assai diverso da molte forme dell’islam politico arabo) che tuttavia si presenta come democratico, economicamente liberista e filo-occidentale.

Insel (2003, 301) lo definisce «conservatore» e propone un esplicito parallelo con la corrente di matrice religiosa (cosiddetta theo-con) del neo-conservatorismo statunitense. Certo, l’AKP si trova di fronte a problemi assai complessi: se può affrontare (ma la soluzione è ben lontana) quello curdo con un richiamo alla comune appartenenza di turchi e curdi alla umma musulmana sunnita, rimangono sul tavolo i difficili rapporti con la Grecia per la questione di Cipro. La questione della condizione femminile rimane pure aperta, anche se – come è avvenuto per altri paesi – la militanza nei movimenti «fondamentalisti» e conservatori islamici si è rivelata per molte donne turche un fattore di mobilitazione e, a suo modo, di emancipazione. Militando in un partito islamico, le donne turche entrano in conflitto con lo Stato kemalista sulla questione del velo: ma questa stessa militanza le spinge a uscire di casa, a impegnarsi in una molteplicità di attività sociali, a sentirsi protagoniste di una battaglia politica (White 2002).

Tensioni fra i militari, da decenni alleati di Israele con cui intrattengono complessi rapporti sul piano strategico e delle forniture, e il governo civile di Erdogan emergono anche in materia di conflitto arabo-israeliano. Erdogan ha condannato alcune iniziative del governo Sharon, attirandosi le critiche dell’Esercito. Nell’assumere posizioni meno filo-israeliane dei suoi predecessori il primo ministro dell’AKP tiene conto non solo degli umori della sua base elettorale, ma anche delle pressioni di Francia e Germania che accusano paradossalmente la Turchia di essere sul punto non troppo poco, ma troppo «occidentale», nel senso di appiattita sulle posizioni degli Stati Uniti e scarsamente attenta, a differenza dell’Unione Europea, ai diritti dei palestinesi (con cui peraltro i turchi hanno rapporti difficili fin dai tempi dell’Impero Ottomano).

Il rischio è quello di contrapporre in modo rigido civili sempre e comunque «democratici» e militari sempre e comunque «non democratici». Storicamente in Turchia non è sempre stato così, e la strada per la stabilità passa semmai per una riconciliazione fra movimento islamico e ambienti militari capaci di sottrarsi al più rigido dogmatismo kemalista, già avviata negli anni di Turgut Özal che molti oggi considerano esemplari. In ogni caso, l’esempio turco conferma che accomunare nell’etichetta «fondamentalismo» ogni forma di islam politico, da Erdogˆan a bin Laden, è un’operazione non solo politicamente ambigua ma anche concettualmente infondata.

Ancora nel 2002 in Germania un opuscolo del Ministero dell’Interno bavarese (non nuovo a iniziative simili nei confronti delle «sètte») diffondeva informazioni assai critiche sul vecchio partito Refah e sulle sue derivazioni sovrapposte graficamente, in un’abile composizione, al volto ben riconoscibile di Osama bin Laden (cfr. Ewing 2003, 410). Operazioni come questa, promossa in una regione dove vivono centinaia di migliaia di lavoratori turchi, alla vigilia della consultazione elettorale del 2002 in Turchia, possono sembrare un semplice – anche se maldestro – tentativo da parte di ambienti politici tedeschi di sostenere i concorrenti elettorali dell’AKP. Ma c’è il rischio che il tentativo di sostegno al kemalismo abbia effetti involontari di aiuto all’estremismo. Vi è infatti nel mercato religioso intra-islamico una forte domanda di conservatorismo. Che essa sia soddisfatta da movimenti conservatori (ma non fondamentalisti) è condizione necessaria per evitare che la carenza strutturale o congiunturale di offerta religiosa conservatrice spinga la domanda di conservatorismo a ripiegare sulle alternative fondamentaliste, quando non su quelle ultra-fondamentaliste o radicali. Le elezioni amministrative del 2004, con l’ulteriore avanzata dell’AKP, mostrano che il rischio in Turchia è per ora remoto. Ma molto dipenderà dalla complessa partita avviata dalla Turchia con l’Unione Europea, cui Erdogan ha scelto di legare indissolubilmente la propria avventura politica.

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