Contrordine: nel mondo non siamo più così atei

Non è vero che l’era moderna sia per forza agnostica. Anzi, il «mercato» delle religioni è stabile e la risposta dei fedeli dipende da qualità e forza dell’offerta delle varie confessioni. Parla Introvigne.«Le tesi della secolarizzazione sono tramontate: il progresso non uccide le Chiese e la concorrenza crea sana competizione tra fedi. Se la richiesta verso i fedeli resta alta, gli adepti aumentano; mentre muore chi si adatta alle mode».di Roberto Beretta (Avvenire, 8 ottobre 2003)


Non è vero che non c’è più religione; anzi, ce n’è sempre di più, come dimostra un certo risveglio di spiritualità tra i giovani. È falso che la modernità implichi necessariamente la crescita della secolarizzazione. E – infine – non dobbiamo preoccuparci troppo dell’aumento delle altre fedi in Italia: il pluralismo religioso farà bene anche ai cattolici.

Con questo invitante pacchetto di conclusioni, del tutto controcorrente, si presenta il primo studio sociologico italiano basato sulla teoria dell’«economia religiosa»: una tesi che ha rivoluzionato il modo di indagare le fedi negli Stati Uniti. Lo firmano Rodney Stark, che è appunto il padre storico della teoria, e Massimo Introvigne, studioso dei movimenti religiosi per il CESNUR di Torino; si intitola «Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente» (Piemme, pp. 158, euro 9,90) e c’è da credere che susciterà entusiasmi e perplessità anche da noi.

Cominciamo dalla teoria della secolarizzazione, professor Introvigne: è vero che è morta?

«In Europa non credo, certo negli Usa i suoi sostenitori si contano ormai sulle dita. Nelle sue formulazioni classiche la teoria postula che la modernità sia un veleno per le religioni e che il sacro sia destinato a declinare col crescere del progresso. Era una tesi con origini nel mito del progresso illuminista, da Comte in poi, e cresciuta in ambienti spesso anti-religiosi. Nella sua seconda fase (anni Ottanta) si era propensi a considerare che gli Usa fossero l’unica eccezione alla teoria: gli Stati Uniti infatti sono ai vertici della razionalizzazione, eppure sono anche il Paese al mondo dove più gente frequenta chiese, templi, sinagoghe e quant’altro. Ora – visto il vigoroso ritorno alla religione che si registra anche in Africa, Asia e America Latina – siamo alla terza fase, secondo cui l’eccezione alla teoria (in senso contrario agli Usa, ovviamente) sarebbe l’Europa. Noi invece più semplicemente sosteniamo che la teoria della secolarizzazione è tramontata perché non supportata dai dati: infatti in Paesi sottoposti a processi di modernizzazione molto forte, per esempio le cosiddette "Tigri asiatiche", il numero di credenti e praticanti è cresciuto».

Ma forse le religioni si sono «svegliate» un po’ ovunque solo perché sono caduti i Muri ed è finito il tempo della censura ideologica marxista. O magari i giovani tornano alla spiritualità per reazione a genitori troppo atei o agnostici...

«È vero anche questo. Ma la differenza d’impostazione della teoria dell’economia religiosa è che noi postuliamo l’esistenza costante di domanda religiosa tra i giovani, con variabili contenute, e la diversa risposta dipende dalla qualità dell’offerta e dall’ingerenza dello Stato. In Europa, a mano a mano che si rimuovono gli ostacoli legislativi ad una vera liberalizzazione religiosa, ci sarà un risveglio religioso. Chi è senza privilegi, infatti, è spinto a cercare le ragioni della propria fede con più determinazione e diventa più capace di trasmetterla; le Chiese troppo "garantite" tendono a diventare inefficienti, mentre in Svezia si è registrato un piccolo aumento nella pratica religiosa allorché la Chiesa protestante ha perso la qualifica di Stato».

Voi sostenete appunto che la concorrenza fa bene alle religioni.

«Questo è il postulato della teoria dell’economia religiosa (la quale – non bisogna mai stancarsi di ripeterlo – si occupa soltanto di secolarizzazione quantitativa, perché sulla qualità siamo d’accordo che oggi le religioni contano sempre meno nell’influenzare le idee sociali e politiche e le scelte personali). Sdrammatizzando, significa che anche nel "mercato" della religione chi si dà più da fare ottiene più risultati. Succedeva pure nel Medioevo, quando gli ordini missionari più attivi avevano più vocazioni. È logico: dove c’è una competizione, anche intraecclesiale, l’interesse delle persone e la partecipazione religiosa crescono».

E quando in Italia c’era la Chiesa di massa, allora? E l’adesione al cattolicesimo era plebiscitaria?

«Ancora oggi in Italia non c’è molto pluralismo sul versante religioso: basti dire che i non cattolici sono solo il 3,5%. Però vari studiosi hanno sottolineato l’esistenza di un "mercato" religioso all’interno della Chiesa cattolica, dove ci sono diverse proposte (vedi i movimenti) che competono tra loro, il che forse spiega il vigore perdurante della pratica religiosa. Quanto alla situazione degli anni Cinquanta, siamo proprio sicuri che le statistiche sulla partecipazione alla messa fossero così plebiscitarie? Semmai, allora il cattolicesimo di massa aveva una forte influenza qualitativa».

Quindi facciamo male a preoccuparci dell’avanzata numerica di altre religioni...

«Questa è una delle tesi che sosteniamo, naturalmente cum grano salis. Di per sé il pluralismo religioso crea nel mondo moderno occasioni favorevoli alle conversioni e il confronto sicuramente spinge a migliorarsi. Attenzione: questo attiene solo alle regole del gioco, che convengono a tutti i giocatori. Ma non vuol dire che ogni Chiesa non debba cercare di affermare la propria verità, al contrario: uno degli errori più ricorrenti è credere che la teoria dell’economia religiosa prescinda dal contenuto delle dottrine; invece per il mercato conta – e molto – anche la qualità del "prodotto" proposto».

Infatti lei sostiene che alcune teologie sono più «moderne» di altre: rispondono meglio al progresso, alla globalizzazione, al futuro... E che queste hanno successo.

«Sì, c’è una sorta di lotta darwiniana anche in campo religioso: qualcuno ha successo, qualcuno meno. Se vogliamo trovare una regola: tendono a globalizzarsi meglio le proposte religiose più esigenti. Tra gli ebrei gli ortodossi, nell’islam i fondamentalisti, e tra i cattolici i movimenti e le congregazioni più rigide».

Se non altro, la vostra teoria smonta del tutto il culto della Chiesa «debole».

«Dipende. La teoria sociologica non può dare giudizi morali. Se parliamo di bilanci storici, invece, effettivamente quella di adattarsi alle mode è una strategia perdente. Le Chiese che chiedono poco, ma danno poco, sono sulla via del declino: vedi certe confessioni scandinave, o le Chiese liberal che hanno accettato tutto: il divorzio, l’aborto, le unioni gay, le donne-prete, ma alla fine hanno perso molti membri. Chi mantiene ferme esigenze più costose, invece, non ha registrato lo stesso macroscopico declino».

Un altro corollario sembra: la missione è necessaria per sopravvivere. Senza annuncio esplicito, una Chiesa muore.

«Questo i cattolici lo sanno da molto tempo. Ma la teoria dell’economia religiosa ci fa mettere su una lunghezza d’onda diversa. Anche le Chiese liberal, se svolgessero attività missionaria, avrebbero più aderenti; ma nella loro teologia relativista, per cui tutti si salvano anche se non sono credenti o addirittura atei, la missione non è contemplata. Ed ecco dunque che la loro Chiesa langue non tanto perché siano più pigri degli altri, bensì per un problema teologico».

Essere chiari, chiedere molto, promettere ricompense o punizioni, lasciare spazio al mistero, puntare sul soprannaturale anziché sulla sapienza umana... Sembra che, per avere successo, una religione dovrebbe fare il contrario di ciò che teorizza certa pastorale cattolica.

«È vero, la pastorale ultramoderna si è rivelata fallimentare. Ma è anche vero che nel post-concilio si sono manifestati ben 60 milioni di carismatici cattolici».