Il velo proibito. La Francia tra laicità e islamismo
La disputa pro o contro il divieto divide la Chiesa cattolica

E anche il mondo musulmano non è compatto. La vicenda del velo nella storia, ricostruita da Khaled Fouad Allam.
di Sandro Magister-(www.chiesa.espressonline.it )

ROMA – Da martedì 3 febbraio il parlamento francese esamina e vota la legge, proposta dal governo di Jacques Chirac, che proibisce di indossare segni religiosi nelle scuole pubbliche.

Dice l’articolo 1 del progetto di legge: “Nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici è proibito portare segni o abiti con i quali gli alunni manifestino ostentatamente [in francese: ostensiblement] un’appartenenza religiosa”.

Il divieto non si limita al velo islamico ma riguarda anche le croci cristiane di una certa dimensione, la kippah ebraica, il turbante dei sikh e, secondo il ministro dell’istruzione, Luc Ferry, “una certa pelosità”, vale a dire la barba lasciata crescere secondo alcune prescrizioni del diritto musulmano.

Ma è il velo islamico al centro della disputa. È esso che ha dato origine alla proposta di legge che lo proibisce nelle scuole. Tra gli oppositori del divieto, in Francia, si è schierato l’arcivescovo di Parigi, cardinale Jean-Marie Lustiger.

Anche Giovanni Paolo II, da Roma, ha fatto sentire, indirettamente, la sua voce di dissenso. Nel suo discorso del 12 gennaio al corpo diplomatico ha condannato la laicità che si fa “laicismo”.

Il cardinale Mario F. Pompedda, prefetto della segnatura apostolica e quindi la più alta autorità giuridica della Santa Sede, in un articolo su “il Giornale” del 29 gennaio, ha indicato proprio nel divieto francese del velo un esempio lampante di tale laicità deviata: “un principio di libertà che si converte in un rifiuto della libertà delle singole persone”, peggio, in “una sorta di divinità che deve dominare tutta la vita”.

Ma in campo cattolico non tutti vedono le cose sotto la stessa luce. In un’intervista del 23 gennaio al quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”, l’autorevole islamologo Samir Khalil Samir, gesuita, ha detto che “il velo è la punta di iceberg di un progetto radicale che rifiuta l'integrazione e che, di fronte alla crisi dell'Europa laica e cristiana, rilancia l'islam come alternativa globale, religiosa e politica”.

Dietro all’ostentazione del velo – ha aggiunto p. Samir – “c'è la pretesa di modellare la società secondo principi islamici, anche sfruttando il multiculturalismo come un cavallo di Troia che consente una penetrazione in stile politically correct". Fa bene quindi il governo della Francia ad “arginare le derive radicali dell’islam” e a difendere “quella laicità che i francesi sentono come un patrimonio consolidato e irrinunciabile”.

Preoccupazioni simili a quelle esposte da p. Samir affiorano anche in campo musulmano, tra i più avversi alle correnti estremiste.

Al Cairo il rettore dell’università di Al-Azhar, Muhammad Sayyid Tantawi, ha dichiarato libera dall’obbligo di portare il velo la donna musulmana che vive in uno stato non islamico che lo proibisce.

In Francia, mentre migliaia di donne manifestavano contro il progetto di legge, il mufti di Marsiglia, Soheib Bensheikh, le ha accusate di fare il gioco di “quei falsi religiosi che usano la laicità come un cavallo di Troia per favorire l’islamismo politico e oscurantista”.

Ma il velo femminile è o no un obbligo inerente alla religione musulmana? E se non lo è, perché lo si indossa? La risposta a queste domande è premessa necessaria a qualsiasi discussione sul tema. Ecco qui di seguito che cosa ha scritto in proposito, su “la Repubblica” del 22 gennaio, Khaled Fouad Allam, professore di islamologia alle università di Trieste e di Urbino, algerino di nascita, musulmano, molto ascoltato anche in ambienti ecclesiastici:


La legge del Corano non impone il velo-di Khaled Fouad Allam

Storicamente, lo hijab non ha mai rappresentato un dogma nell'islam, un'obbligazione giuridica o un simbolo religioso, anche se oggi lo si vuol far passare come tale.

I giuristi dell'islam classico – quelli all'origine della formulazione del diritto musulmano per le quattro grandi scuole giuridiche dell'islam – non hanno mai teorizzato sul velo. Il celebre giurista Qayrawin, morto nel 996, fondatore dell'università teologica di Fez in Marocco, parla del velo soltanto in riferimento alla preghiera rituale, quando le donne si recano in moschea per la preghiera del venerdì: e la parola che usa è khimar, un velo che copre la donna dalla testa ai piedi. Egli non usa mai la parola hijab; lo stesso avviene per gli altri autori di quel periodo.

Tutto ciò ha una ragione. Nel periodo dell'islam classico i giuristi non avvertono il bisogno di costruire sul velo una teoria del diritto, semplicemente perché l'universo medievale della donna è un universo di clausura: essa non esce di casa, la sua vita si svolge entro il perimetro dello spazio privato, e quando, molto raramente, esce, lo deve fare con l'autorizzazione di una figura maschile – il padre, il marito o i fratelli – e per motivi eccezionali come cerimonie o pellegrinaggi.

Lo hijab è un'invenzione del XIV secolo e non ha un effettivo fondamento nel testo coranico. Nel Corano la parola hijab, che deriva dalla radice hjb, non indica un oggetto ma un'azione: quella di velarsi, di tirare una tenda, di creare un'opacità che impedisca lo sguardo indiscreto.

Il passaggio della parola hijab dall’indicare un'azione all’indicare un oggetto avviene nel XIV secolo con il giurista Ibn Taymiyya. Egli è il primo ad utilizzare la parola hijab per riferirsi al velo in quanto oggetto, un velo che distingue le donne musulmane dalle non musulmane: esso diventa segno distintivo dell'identità e dell'appartenenza.

Ibn Taymiyya afferma che la donna libera ha l'obbligo di velarsi, mentre la schiava non è obbligata a farlo. Egli giustifica queste affermazioni basandosi su una interpretazione massimalista del versetto 31 della sura 24 del Corano, traendo da una frase dal contenuto generico un'affermazione di principio, cui inoltre attribuisce valore normativo. Ma tutto ciò, è bene sottolinearlo, rimane un'interpretazione. Un'interpretazione che inventa una norma.

Questo mutamento linguistico e sociale rappresenta il sintomo di una crisi in seno al mondo musulmano del XIV secolo: la fine dei grand i imperi dell'islam e l'invasione di Baghdad ad opera di un popolo ad esso estraneo, i mongoli di Gengis Khan. La umma, la comunità dei credenti, deve quindi confrontarsi e scontrarsi con ciò che ora chiamiamo un principio d'alterità; essa si pone il problema – che si ripropone oggi – di come essere musulmani in una società dominata da non musulmani. Il velo manifesta la reazione difensiva di una comunità, che enfatizza le regole giuridiche non per creare spazi di libertà, bensì per istituire un controllo: un controllo dell'islam su se stesso.

Non è quindi un caso che la figura di Ibn Taymiyya (morto nel 1328) rappresenti uno dei punti di riferimento dell'odierno discorso neofondamentalista.

Ma il decisivo mutamento semantico e giuridico nella questione dello hijab avviene nel XX secolo, soprattutto nella seconda metà. Nei paesi musulmani, dopo la fase di decolonizzazione, i processi di modernizzazione mettono in crisi le strutture tradizionali delle società. Appaiono due fenomeni inediti: con l'alfabetizzazione di massa, le donne accedono alla scuola; e accedono al mondo del lavoro, escono di casa, il loro universo di riferimento diventa anche il mondo esterno.

Di fronte a una tale trasformazione sociale, molti esegeti dell'islam reagiscono in modo neoconservatore, inventando un apparato giuridico che legittima e prescrive l'uso dello hijab. Il velo diventa così segno distintivo dell'identità islamica e della separazione fra i sessi. L'introduzione del velo nello spazio pubblico favorisce infatti la costruzione di una frontiera di genere che oggi non si limita al velo ma investe in alcuni paesi anche una divisione negli spazi e nei trasporti pubblici (alcuni architetti di tendenza neofondamentalista hanno immaginato persino ascensori separati per uomini e donne); lo spazio pubblico, anziché sancire un principio di uguaglianza, enfatizza quindi la discriminazione fra i sessi.

Tutti questi mutamenti nell'uso e nella pratica del velo si innestano però su quella che è una costante nella prassi delle società musulmane: la dicotomia fra puro e impuro, e il divieto come fondamento della norma nell'islam.

Il frequente sottolineare, nei testi sacri, che la donna non deve fare nulla per guardare e per farsi guardare, che deve nascondere le sue forme, ha fatto sì che nell'inconscio collettivo musulmano la femminilità sia associata al desiderio, in modo che il sesso femminile diviene sinonimo di caos, di disordine; su di esso incombe sempre il rischio dell'impurità. A ragione del suo ruolo riproduttivo la donna è investita di un certo carattere sacrale: perciò trasgredire il divieto – vale a dire mostrarsi – significa contaminare la purezza originaria.

Questo tabù definisce una società puritana e articola un sistema giuridico di controllo. Le società musulmane sono ossessionate dalla questione dell'impurità; e il velo tende simbolicamente a preservare le frontiere fra puro e impuro.

Il velo assume oggi il significato di un'identità in crisi: oltre a esprimere un malessere generalizzato nelle società islamiche, esso occulta il loro cambiamento e ne esacerba le paure. Chi lo indossa, soprattutto in occidente, lo fa per coercizione, per condizionamento, per rivendicazione o per libera scelta. Le letture possibili sono molte, ma tutte rimandano a una serie di conflitti irrisolti: il conflitto fra islam e occidente, il conflitto dell'islam con se stesso, il conflitto fra diritto e cultura.