SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Nuove tendenze dellz cristologia : il Vaticano imbavaglia il gesuita Roger Haight.
La Notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede

di Sandro Magister -http://chiesa.espresso.repubblica.it-ROMA, 22 gennaio 2009

Il Vaticano imbavaglia il gesuita Roger Haight. Tutta colpa di Gesù Gli si contesta di occultare la divinità di Cristo, per renderlo più presentabile al mondo. Nel cuore della disputa c'è la Compagnia di Gesù. E anche un suo autorevolissimo membro, il cardinale Carlo Maria Martini .

Roger Haight, 72 anni, teologo, appartiene alla Compagnia di Gesù. Ma il Gesù dei suoi scritti è troppo lontano da quello professato nel Credo, a giudizio delle autorità vaticane che vigilano sulla retta dottrina. Già nel 2004, il 13 dicembre, la congregazione per la dottrina della fede presieduta all'epoca dal cardinale Joseph Ratzinger aveva emesso una notificazione di condanna delle tesi espresse da Haight nel suo libro di cinque anni prima "Jesus Symbol of God". E aveva concluso vietando al gesuita "l'insegnamento della teologia cattolica". Haight abbandonò la cattedra presso la Weston School of Theology di Cambridge, Massachusetts, retta dai gesuiti. Ma non smise di insegnare teologia. Passò allo Union Theological Seminar di New York, un istituto non cattolico, fondato dai presbiteriani nel 1836, in cui insegnarono teologi protestanti di prima grandezza come Reinhold Niebuhr e Paul Tillich, oggi indipendente dal controllo di singole denominazioni cristiane. E continuò a pubblicare libri di teologia che riproponevano le sue tesi di fondo. Due libri in particolare: "Christian Community in History", in tre volumi, e "The Future of Christology".

Ma ora le autorità vaticane sono di nuovo intervenute contro di lui. Gli hanno ingiunto di cessare di insegnare teologia ovunque, anche in istituti non cattolici, e di non pubblicare libri e saggi di soggetto teologico. Questo – come già nella precedente notificazione – "finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena conformità con la dottrina della Chiesa". Il nuovo provvedimento risale alla scorsa estate, ma solo ai primi di gennaio del 2009 è divenuto di dominio pubblico. Haight non l'ha commentato. L'esame delle posizioni di Haight, sia questa volta, sia prima della notifica del 2004, si è svolto secondo le procedure usuali. La congregazione vaticana per la dottrina della fede ha affidato il caso al preposito generale della Compagnia di Gesù e questi a sua volta ha attivato la provincia americana della Compagnia, alla quale l'inquisito appartiene. A Haight è stato chiesto di inviare chiarimenti e rettifiche sui punti indicati come erronei. E lui l'ha fatto. Senza però convincere i suoi giudici ad assolverlo.

Nel 2002 vi fu anche un curioso contrattempo. La risposta di Haight, arrivata in Vaticano in ritardo sui tempi stabiliti, generò dubbi sulla sua autenticità: non parve sicuro che fosse stata scritta effettivamente da lui. Gliela rimandarono indietro esigendo che tornasse firmata in ogni sua pagina. Le ragioni portate a sostegno della condanna di Haight non sono di poco conto. La notificazione del 2004 le elenca meticolosamente. A giudizio delle autorità vaticane Haight usa un metodo teologico che subordina i contenuti della fede alla loro accettabilità da parte della cultura postmoderna. E alle realtà oggettive definite dagli articoli del Credo sostituisce dei simboli. Di conseguenza, si svuotano di sostanza verità capitali della fede cristiana come la preesistenza del Verbo, la divinità di Gesù, la Trinità, il valore salvifico della morte di Gesù, l'unicità e universalità della mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa, la risurrezione di Gesù.

Su ciascuno di questi punti la notificazione vaticana dice come e perché Haight contraddice la dottrina cattolica. Haight si è sempre attenuto alle sanzioni ricevute, sia pure dilazionando un po' i tempi. Abbandonerà presto anche la cattedra allo Union Theological Seminary di New York. E sta preparando una nuova risposta scritta da inviare alla Santa Sede. In Vaticano sono seriamente preoccupati per questo caso. Non lo ritengono affatto circoscritto agli ambienti accademici. Haight è un teologo di notevole capacità comunicativa, è apprezzato dalla cultura "liberal" ben presente nei media, e gode di diffusi sostegni dentro la Chiesa, in particolare nella Compagnia di Gesù. Degli ultimi sette teologi inquisiti dalla congregazione per la dottrina della fede, quattro sono gesuiti. Oltre a Haight, gli altri sono stati Anthony De Mello, Jacques Dupuis e Jon Sobrino, quest'ultimo esponente di spicco della teologia della liberazione.

Non sorprende che un anno fa, mentre la Compagnia di Gesù era riunita per eleggere il suo nuovo preposito generale, le autorità vaticane richiamassero i suoi teologi ed esegeti a una maggiore fedeltà dottrinale e a un più effettivo "sentire cum Ecclesia". Naturalmente, non tutti i teologi gesuiti sono sotto sospetto. Ve ne sono di di riconosciuta grandezza e di indubitabile ortodossia. Uno di questi era il cardinale Avery Dulles. Per convincere Haight a correggere le sue posizioni la provincia americana della Compagnia di Gesù chiese aiuto anche a lui, nonostante la sua età avanzata e la salute precaria. Il cardinale Dulles è morto a New York lo scorso 12 dicembre. Ma è indubbio che la teologia di Haight trovi dentro la Compagnia di Gesù un ambiente complessivamente ospitale. Egli abita a New York nella casa dei gesuiti che pubblicano "America", rivista di punta del cattolicesimo progressista.

Nel marzo del 2008, quando già era interdetto dall'insegnamento ed erano in arrivo su di lui le nuove sanzioni, ha pubblicato su "America" un ampia ricognizione della teologia cattolica di fine Novecento, con i maggiori teologi classificati in sette correnti efficacemente descritte e valutate. Il tutto per mostrare che il futuro della teologia cattolica si gioca sulla sua capacità di ripresentare gli articoli del Credo in una forma comprensibile per la cultura dominante nell'Occidente. Un'altra rivista cattolica americana schierata a sostegno di Haight è "Commonweal". Nel gennaio del 2007 ha pubblicato un'appassionata apologia del suo pensiero dal titolo: "Not So Heterodox. In Defense of Roger Haight". Ne era autore un teologo molto quotato, Paul Lakeland, docente alla Fairfield University, Connecticut, una delle 28 università gestite dai gesuiti negli Stati Uniti, e primo titolare della cattedra di studi cattolici intitolata in questa università al teologo gesuita Aloysius P. Kelley.

Altri teologi americani hanno invece espresso severe critiche nei confronti di Haight, che per alcuni anni fu anche presidente della Catholic Theological Society of America. Tra i critici si ricordano William Loewe, della Catholic University of America di Washington, D. C., e John Cavadini, della Notre Dame University di South Bend, Indiana, consulente della commissione dottrinale della conferenza dei vescovi degli Stati Uniti. Un altro critico delle posizioni di Haight è anche lui gesuita e anche lui insegna in una università della Compagnia di Gesù, la più importante del mondo. È Gerald O'Collins, professore di teologia sistematica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, specialista in cristologia. Di O'Collins si ricorda questa battuta, dopo la notizia della prima condanna di Haight: "Per il Gesù di Roger Haight non darei mai la vita. È un trionfo del conformismo sull'ortodossia".

Insomma, Haight tanto più preoccupa i vertici della Chiesa in quanto esprime la diffusa tendenza a sottomettere la figura di Gesù ai canoni di comprensione della cultura secolare, esaltandolo come uomo insigne e operatore di giustizia, ma offuscando la sua divinità. Un'efficace espressione di questa tendenza – meno teologica, più discorsiva – è vista nell'ultimo libro di un altro gesuita famoso, il cardinale Carlo Maria Martini: "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede". È un Gesù, quello tratteggiato dal cardinale Martini, di sicuro successo, stando alle vendite di questo suo libro. In ogni caso lontanissimo dal Gesù vero Dio e vero uomo del libro "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI. Ancora una volta, è Gesù salvatore il grande segno di contraddizione su cui la fede cattolica sta o cade.

Ed è singolare che nel cuore di questa disputa ci sia proprio la Compagnia di Gesù.

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
NOTIFICAZIONE SUL LIBRO JESUS SYMBOL OF GOD DI PADRE ROGER HAIGHT, S.J.

Introduzione

La Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo uno studio accurato, ha giudicato che il libro Jesus Symbol of God (Maryknoll: Orbis Books, 1999) di Padre Roger Haight S.J. contiene gravi errori dottrinali nei confronti di alcune fondamentali verità di fede. È stato pertanto deciso di pubblicare in proposito la presente Notificazione, che conclude la relativa procedura d'esame.

Dopo una prima valutazione da parte di esperti, si decise di affidare direttamente il caso all'Ordinario dell'Autore. Il 14 febbraio 2000 fu trasmessa una serie di Osservazioni a Padre Peter-Hans Kolvenbach, Preposito Generale della Compagnia di Gesù, invitandolo a far conoscere all'Autore gli errori presenti nel libro, e chiedendogli di sottoporre i necessari chiarimenti e rettifiche al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr Regolamento per l'esame delle dottrine, cap. II).

La risposta di Padre Roger Haight S.J., presentata il 28 giugno 2000, né chiariva né rettificava gli errori segnalati. Per tale motivo, e tenendo anche conto del fatto che il libro era abbastanza diffuso, fu deciso di procedere ad un esame dottrinale (cfr Regolamento per l'esame delle dottrine, cap. III), prestando particolare attenzione al metodo teologico dell'Autore. Dopo la valutazione dei teologi Consultori della Congregazione per la Dottrina della Fede, la Sessione Ordinaria del 13 febbraio 2002 confermò che Jesus Symbol of God conteneva affermazioni erronee, la divulgazione delle quali era di grave danno ai fedeli. Si decise pertanto di seguire la "procedura d'urgenza" (cfr Regolamento per l'esame delle dottrine, cap. IV). Al riguardo, conformemente all'art. 26 del Regolamento per l'esame delle dottrine, il 22 luglio 2002 fu trasmesso al Preposito Generale della Compagnia di Gesù l'elenco delle affermazioni erronee e una valutazione generale della visione ermeneutica del libro, chiedendogli di invitare Padre Roger Haight S.J. a consegnare, entro due mesi utili, una chiarificazione della sua metodologia ed una correzione, in fedeltà all'insegnamento della Chiesa, degli errori contenuti nel suo libro.

La risposta dell'Autore, consegnata il 31 marzo 2003, fu esaminata dalla Sessione Ordinaria della Congregazione, l'8 ottobre 2003. La forma letteraria del testo era tale da sollevare dubbi sulla sua autenticità, se fosse cioè veramente una risposta personale di Padre Roger Haight S.J.; si chiese pertanto una sua risposta firmata. Tale risposta sottoscritta giunse il 7 gennaio 2004. La Sessione Ordinaria della Congregazione il 5 maggio 2004 la prese in esame e ribadì il fatto che il libro Jesus Symbol of God conteneva affermazioni contrarie alle verità della fede divina e cattolica appartenenti al primo comma della Professio Fidei, riguardanti la preesistenza del Verbo, la divinità di Gesù, la Trinità, il valore salvifico della morte di Gesù, l'unicità e l'universalità della mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa, e la risurrezione di Gesù.

La valutazione negativa riguardò anche l'uso di un metodo teologico improprio. Si ritenne, quindi, necessaria la pubblicazione di una Notificazione in proposito.

I. Metodo teologico

Nella Prefazione del suo libro, Jesus Symbol of God, l'Autore afferma che oggi la teologia dovrebbe essere realizzata in dialogo con il mondo postmoderno, ma dovrebbe anche "rimanere fedele alla rivelazione originaria ed alla costante tradizione" (p. xii), nel senso che i dati della fede costituiscono la norma e il criterio per l'ermeneutica teologica. Egli afferma anche che si deve stabilire una "correlazione critica" (cfr pp. 40-47) tra questi dati e le forme e le qualità del pensiero postmoderno, caratterizzato in parte da una storicità radicale e da una coscienza pluralistica (cfr pp. 24, 330-334): "La tradizione deve essere criticamente recepita nella situazione di oggi" (p. 46). Questa "correlazione critica", però, si traduce, di fatto, in una subordinazione dei contenuti della fede alla loro plausibilità ed intelligibilità nella cultura postmoderna (cfr pp. 49-50, 127, 195, 241, 249, 273-274, 278-282, 330-334).

Si afferma, per esempio, che a causa dell'odierna coscienza pluralistica, "non si può continuare ad affermare ancora [...] che il cristianesimo sia la religione superiore o che Cristo sia il centro assoluto al quale tutte le altre mediazioni storiche sono relative. [...] Nella cultura postmoderna è impossibile pensare [...] che una religione possa pretendere di essere il centro al quale tutte le altre devono essere ricondotte" (p. 333). Per quanto riguarda, in particolare, il valore delle formule dogmatiche, specialmente cristologiche, nel contesto culturale e linguistico postmoderno, diverso da quello in cui furono elaborate, l'Autore afferma che esse non vanno trascurate, ma neppure acriticamente ripetute perché "nella nostra cultura non hanno lo stesso significato di quando furono elaborate. [...] Pertanto, si deve fare riferimento ai Concili classici ed anche interpretarli esplicitamente per il nostro presente" (p. 16). Di fatto, però, questa interpretazione non si concretizza in proposte dottrinali che trasmettono il senso immutabile dei dogmi inteso dalla fede della Chiesa, né li chiariscono, arricchendone la comprensione.

L'interpretazione dell'Autore risulta essere, invece, una lettura non solo diversa, ma contraria al vero significato dei dogmi. Per quanto riguarda, in particolare, la cristologia, l'Autore afferma che, al fine di superare un "ingenuo positivismo di rivelazione" (p. 173, n. 65), essa dovrebbe essere iscritta nel contesto di una "teoria generale della religione in termini di epistemologia religiosa" (p. 188). Un elemento fondamentale di questa teoria sarebbe il simbolo, quale concreto mezzo storico: una realtà creata (ad es. una persona, un oggetto o un evento) che fa conoscere e rende presente un'altra realtà, che è allo stesso tempo all'interno e distinta dal mezzo stesso, come la realtà trascendente di Dio, a cui essa rimanda (cfr pp. 196-198). Il linguaggio simbolico, strutturalmente poetico, immaginativo e figurativo (cfr pp. 177, 256), esprimerebbe e produrrebbe una determinata esperienza di Dio (cfr p. 11), ma non fornirebbe informazioni oggettive su Dio stesso (cfr p. 9, 210, 282, 471). Queste posizioni metodologiche conducono ad un'interpretazione gravemente riduttiva e fuorviante delle dottrine della fede, dando luogo ad affermazioni erronee. In particolare, l'opzione epistemologica della teoria del simbolo, così come viene intesa dall'Autore, mina alla base il dogma cristologico che, a partire dal Nuovo Testamento, proclama che Gesù di Nazaret è la persona del Figlio/Verbo divino fattasi uomo [1].

II. La preesistenza del Verbo

L'impostazione ermeneutica di partenza conduce l'Autore anzitutto a non riconoscere nel Nuovo Testamento la base per la dottrina della preesistenza del Verbo, neppure nel prologo di Giovanni (cfr pp. 155-178), ove, a suo dire, il Logos dovrebbe essere inteso in senso puramente metaforico (cfr p. 177). Inoltre, egli legge nel pronunciamento del Concilio di Nicea solo l'intenzione di affermare "che niente di meno che Dio era ed è presente e all'opera in Gesù" (p. 284; cfr p. 438), ritenendo che il ricorso al simbolo "Logos" sarebbe da considerarsi semplicemente come presupposto [2], e perciò non oggetto di definizione, e infine non plausibile nella cultura postmoderna (cfr p. 281; 485). Il Concilio di Nicea, afferma l'Autore, "utilizza la Scrittura in un modo che oggi non è accettabile, e cioè come una fonte di informazioni direttamente rappresentativa di fatti o di dati oggettivi, circa la realtà trascendente" (p. 279). Il dogma di Nicea non insegnerebbe, pertanto, che il Figlio o il Logos eternamente preesistente sarebbe consustanziale al Padre e da Lui generato. L'Autore propone "una cristologia dell'incarnazione, nella quale l'essere umano creato o la persona di Gesù di Nazaret è il simbolo concreto che esprime la presenza nella storia di Dio come Logos" (p. 439). Questa interpretazione non è conforme al dogma di Nicea, che afferma intenzionalmente, anche contro l'orizzonte culturale del tempo, la reale preesistenza del Figlio/Logos del Padre, incarnatosi nella storia per la nostra salvezza [3].

III. La divinità di Gesù

La posizione erronea dell'Autore sulla preesistenza del Figlio/Logos di Dio ha come conseguenza una comprensione altrettanto erronea della dottrina circa la divinità di Gesù. Egli in verità usa espressioni quali: Gesù "deve essere considerato divino" (p. 283) e "Gesù Cristo [...] deve essere vero Dio" (p. 284). Si tratta, tuttavia, di affermazioni che vanno intese alla luce della sua posizione su Gesù quale "mediazione" simbolica ("medium"): Gesù sarebbe "una persona finita" (p. 205), "una persona umana" (p. 296) e "un essere umano come noi" (p. 205; 428). Il "vero Dio e vero uomo" andrebbe perciò reinterpretato, secondo l'Autore, nel senso che "vero uomo" significherebbe che Gesù sarebbe "un essere umano come tutti gli altri" (p. 259), "un essere umano e una creatura finita" (p. 262); mentre "vero Dio" significherebbe che l'uomo Gesù, in qualità di simbolo concreto, sarebbe o medierebbe la presenza salvifica di Dio nella storia (cfr pp. 262; 295): solo in questo senso egli potrebbe essere considerato come "veramente divino o consustanziale con Dio" (p. 295). La "situazione postmoderna in cristologia", aggiunge l'Autore, "comporta un cambiamento di interpretazione che va al di là della problematica di Calcedonia" (p. 290), precisamente nel senso che l'unione ipostatica, o "enipostatica", sarebbe da intendere come "l'unione di niente di meno che Dio come Verbo con la persona umana Gesù" (p. 442). Questa interpretazione della divinità di Gesù è contraria alla fede della Chiesa, che crede in Gesù Cristo, Figlio eterno di Dio, fattosi uomo, così come è ripetutamente confessato in vari concili ecumenici e nella costante predicazione della Chiesa [4].

IV. La Santissima Trinità

Come conseguenza della suddetta interpretazione dell'identità di Gesù Cristo, l'Autore sviluppa una dottrina trinitaria erronea. A suo giudizio "l'insegnamento del Nuovo Testamento non [deve] essere interpretato alla luce delle successive dottrine di una Trinità immanente" (p. 474). Queste sarebbero da considerare l'esito di una inculturazione successiva, che avrebbe portato ad ipostatizzare, vale a dire, a ritenere come "entità reali" in Dio, i simboli "Logos" e "Spirito" (cfr p. 481), che in quanto "simboli religiosi", sarebbero metafore di due diverse mediazioni storico-salvifiche dell'uno ed unico Dio: quella esteriore, storica, attraverso il simbolo Gesù; quella interiore, dinamica, compiuta dalla comunicazione di Dio come Spirito (cfr p. 484). Una simile visione, corrispondente alla teoria dell'esperienza religiosa in generale, porta l'Autore ad abbandonare la corretta comprensione della Trinità stessa, interpretata "come una descrizione di una differenziata vita interiore di Dio" (p. 484). Conseguentemente, "una nozione di Dio come comunità, l'idea di ipostatizzare le differenziazioni in Dio e di chiamarle persone, in modo tale che esse siano in reciproca comunicazione dialogica, vanno contro il punto principale della dottrina stessa" (p. 483), e cioè "che Dio è uno ed unico" (p. 482). Questa interpretazione della dottrina trinitaria è erronea e contraria alla fede circa l'unicità di Dio nella Trinità delle Persone, che la Chiesa ha proclamato e confermato in numerosi e solenni pronunciamenti [5].

V. Il valore salvifico della morte di Gesù

Nel libro Jesus Symbol of God l'Autore asserisce che "l'interpretazione profetica" spiegherebbe nel modo migliore la morte di Gesù (cfr p. 86, n. 105). Afferma, inoltre, che non sarebbe necessario "che Gesù abbia considerato se stesso come un salvatore universale" (p. 211) e che l'idea della morte di Gesù come "una morte sacrificale, espiatoria e redentiva" sarebbe solo il risultato di una graduale interpretazione dei suoi seguaci alla luce dell'Antico Testamento (cfr p. 85). Si afferma anche che il linguaggio ecclesiale tradizionale "di Gesù che soffre per noi, che si offre in sacrificio a Dio, che ha accettato di subire la punizione per i nostri peccati, o di morire per soddisfare la giustizia di Dio, non ha senso per il mondo di oggi" (p. 241). Questo linguaggio andrebbe abbandonato perché "le immagini associate a questi modi di parlare offendono la sensibilità postmoderna e creano una repulsione ed una barriera ad un apprezzamento positivo di Gesù Cristo" (p. 241). Tale posizione dell'Autore si oppone in realtà alla dottrina della Chiesa, che ha sempre riconosciuto in Gesù un'intenzionalità redentrice universale riguardo alla sua morte. La Chiesa vede nelle affermazioni del Nuovo Testamento, che si riferiscono specificamente alla salvezza, e in particolare nelle parole dell'istituzione dell'Eucaristia, una norma della sua fede circa il valore salvifico universale del sacrificio della croce [6].

VI. Unicità e universalità della mediazione salvifica di Gesù e della Chiesa

Per quanto riguarda l'universalità della missione salvifica di Gesù, l'Autore afferma che Gesù sarebbe "normativo" per i cristiani, ma "non-costitutivo" per le altre mediazioni religiose (p. 403). Afferma, inoltre, che "solo Dio opera la salvezza e la mediazione universale di Gesù non è necessaria" (p. 405): infatti "Dio agisce nella vita degli uomini in diversi modi al di là di Gesù e della realtà cristiana" (p. 412). L'Autore insiste sulla necessità di passare dal cristocentrismo al teocentrismo, che "elimina la necessità di legare la salvezza di Dio solamente a Gesù di Nazaret" (p. 417). Per quanto riguarda la missione universale della Chiesa, egli ritiene che sarebbe necessario avere "la capacità di riconoscere altre religioni come mediazioni della salvezza di Dio allo stesso livello del cristianesimo" (p. 415). Inoltre, per lui "è impossibile nella cultura postmoderna pensare che [...] una religione possa pretendere di essere il centro al quale tutte le altre devono essere ricondotte. Questi miti o concezioni metanarrative sono semplicemente superate" (p. 333). Questa posizione teologica nega fondamentalmente la missione salvifica universale di Gesù Cristo (cfr At 4, 12; 1 Tim 2, 4-6; Gv 14, 6) e, di conseguenza, la missione della Chiesa di annunciare e comunicare il dono di Cristo salvatore a tutti gli uomini (Mt 28, 19; Mc 16, 15; Ef 3, 8-11), entrambe testimoniate con chiarezza dal Nuovo Testamento e proclamate sempre dalla fede della Chiesa, anche in documenti recenti [7].

VII. La risurrezione di Gesù

La presentazione che l'Autore fa della risurrezione di Gesù è guidata dalla sua concezione del linguaggio biblico e teologico come "simbolico di un'esperienza che è storicamente mediata" (p. 131) e dal principio che "ordinariamente non si dovrebbe supporre che sia accaduta nel passato una cosa oggi impossibile" (p. 127). Così intesa, la risurrezione è presentata come l'affermazione che "Gesù è ontologicamente vivo, come un individuo nella sfera di Dio [...], la dichiarazione di Dio che la vita di Gesù è una vera rivelazione di Dio e un'autentica esistenza umana" (p. 151; cfr p. 124). La risurrezione è descritta come "una realtà trascendente che può essere riconosciuta nel suo valore solamente da un atteggiamento di fede e di speranza" (p. 126). I discepoli, dopo la morte di Gesù, si sarebbero ricordati ed avrebbero riflettuto sulla sua vita e il suo messaggio, particolarmente sulla rivelazione di Dio come buono, misericordioso, preoccupato dell'essere umano e della salvezza. Questo ricordarsi - del fatto che "ciò che Dio ha iniziato nell'amore, a causa della illimitatezza di quell'amore, continua ad esistere in quell'amore sopravvivendo perciò al potere ed alla definitività della morte" (p. 147) - insieme con un intervento di Dio come Spirito, progressivamente fece nascere questa nuova fede nella risurrezione, e cioè che Gesù era vivo ed esaltato nella potenza salvifica di Dio (cfr p. 146). Inoltre, secondo l'interpretazione dell'Autore, "la storicità della tomba vuota e i racconti delle apparizioni non sono essenziali alla fede-speranza nella risurrezione" (p. 147, n. 54; cfr pp. 124, 134). Piuttosto, questi racconti sarebbero "modi di esprimere e di insegnare il contenuto di una fede già formatasi" (p. 145). L'interpretazione dell'Autore conduce ad una posizione incompatibile con la dottrina della Chiesa. Essa è elaborata sulla base di presupposti erronei e non sulla base delle testimonianze del Nuovo Testamento, secondo cui le apparizioni del Risorto e la tomba vuota sono il fondamento della fede dei discepoli nella risurrezione di Cristo e non viceversa.

Conclusione

Nel rendere pubblica questa Notificazione, la Congregazione per la Dottrina della Fede si sente obbligata a dichiarare che le suddette affermazioni contenute nel libro Jesus Symbol of God di Padre Roger Haight S.J. sono da qualificare come gravi errori dottrinali contro la fede divina e cattolica della Chiesa. Di conseguenza, è vietato all'Autore l'insegnamento della teologia cattolica finché le sue posizioni non siano rettificate così da essere in piena conformità con la dottrina della Chiesa. Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nell'Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Notificazione, decisa nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 13 dicembre 2004, Memoria di S. Lucia, Vergine e Martire. JOSEPH Card. RATZINGER
Prefetto ANGELO AMATO, S.D.B. Arcivescovo tit. di Sila Segretario

Note [1] Cfr Concilium Nicaenum, Professio fidei: DH 125; Concilium Chalcedonense, Professio fidei: DH 301, 302; Concilium Constantinopolitanum II, Canones: DH 424, 426. [2] L'autore parla di "ipostatizzazione" e di "ipostasi" del Logos e dello Spirito: intende cioè dire che le "metafore" bibliche "Logos" e "Spirito" successivamente sarebbero diventate "entità reali" nel linguaggio della Chiesa ellenistica (cfr p. 475). [3] Cfr Concilium Nicaenum, Professio fidei: DH 125. La confessione nicena, riconfermata in altri concili ecumenici (cfr Concilium Constantinopolitanum I, Professio fidei: DH 150; Concilium Chalcedonense, Professio fidei: DH 301, 302), costituisce la base delle professioni di fede di tutte le confessioni cristiane. [4] Cfr Concilium Nicaenum, Professio fidei: DH 125; Concilium Constantinopolitanum I, Professio fidei: DH 150; Concilium Chalcedonense, Professio fidei: DH 301, 302. [5] Cfr Concilium Constantinopolitanum I, Professio fidei: DH 150; Quicumque: DH 75; Synodus Toletana XI, Professio fidei: DH 525-532; Synodus Toletana XVI, Professio fidei: DH 568-573; Concilium Lateranense IV, Professio fidei: DH 803-805; Concilium Florentinum, Decretum pro Iacobitis: DH 1330-1331; Concilium Vaticanum II, Const. Dogm. Lumen gentium, nn. 2-4. [6] Cfr Concilium Nicaenum, Professio fidei: DH 125; Concilium Tridentinum, Decretum de iustificatione: DH 1522, 1523; De poenitentia: DH 1690; De Sacrificio Missae: DH 1740; Concilium Vaticanum II, Const. Dogm. Lumen gentium, nn. 3, 5, 9; Const. Pastor. Gaudium et spes, n. 22; Ioannes Paulus II, Litt. Encycl. Ecclesia de Eucharistia, n. 12. [7] Cfr Innocentius XI, Const. Cum occasione, n. 5: DH 2005; Sanctum Officium, Decr. Errores Iansenistarum, n. 4: DH 2304; Concilium Vaticanum II, Const. Dogm. Lumen gentium, n. 8; Const. Pastor. Gaudium et spes, n. 22; Decr. Ad gentes, n. 3; Ioannes Paulus II, Litt. Encycl. Redemptoris missio, nn. 4-6; Congregatio pro Doctrina Fidei, Decl. Dominus Iesus, nn. 13-15. Per quanto riguarda l'universalità della missione della Chiesa cfr Lumen gentium, nn. 13, 17; Ad gentes, n. 7; Redemptoris missio, nn. 9-11; Dominus Iesus, nn. 20-22.

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