SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
P Benedetto XVI e i capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme :  
pregare per la fine del conflitto nella striscia di Gaza e implorare giustizia e pace
per la Terra Santa.  

fonte : http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=256405

Ha ricordato quindi “le vittime, i feriti, quanti hanno il cuore spezzato, chi vive nell'angoscia e nel timore, perché Dio li benedica con la consolazione, la pazienza e la pace che vengono da Lui”:

“Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi. Lo conferma anche la storia più recente. Preghiamo, dunque, affinché ‘il Bambino nella mangiatoia... ispiri le autorità e i responsabili di entrambi i fronti, israeliano e palestinese, a un’azione immediata per porre fine all’attuale tragica situazione’”.

E il Papa all’Angelus ha esortato a contemplare, “dopo il frastuono dei giorni scorsi con la corsa all’acquisto dei regali”, il mistero del Natale di Cristo, “per coglierne ancor più il significato profondo e l’importanza per la nostra vita”. Spiegando il Prologo del Vangelo di San Giovanni ha sottolineato come l’evangelista sia stato un “testimone oculare” della “novità inaudita e umanamente inconcepibile” del Dio che si è fatto uomo: “Non è la parola dotta di un rabbino o di un dottore della legge, ma la testimonianza appassionata di un umile pescatore che, attratto giovane da Gesù di Nazareth, nei tre anni di vita comune con Lui e con gli altri apostoli ne sperimentò l’amore – tanto da autodefinirsi 'il discepolo che Gesù amava' – lo vide morire in croce e apparire risorto, e ricevette poi con gli altri il suo Spirito. Da tutta questa esperienza, meditata nel suo cuore, Giovanni trasse un’intima certezza: Gesù è la Sapienza di Dio incarnata, è la sua Parola eterna fattasi uomo mortale”.

“Per un vero Israelita, che conosce le Sacre Scritture – ha aggiunto - questo non è un controsenso, anzi, è il compimento di tutta l’antica Alleanza: in Gesù Cristo giunge a pienezza il mistero di un Dio che parla agli uomini come ad amici, che si rivela a Mosè nella Legge, ai sapienti e ai profeti”: “Ogni uomo e ogni donna ha bisogno di trovare un senso profondo per la propria esistenza. E per questo non bastano i libri, nemmeno le sacre Scritture. Il Bambino di Betlemme ci rivela e ci comunica il vero ‘volto’ di Dio buono e fedele, che ci ama e non ci abbandona nemmeno nella morte”.

La prima ad aprire il cuore e a contemplare “il Verbo che si fece carne” – ha sottolineato - è stata Maria, la Madre di Gesù: “Un’umile ragazza di Galilea è diventata così la ‘sede della Sapienza’! Come l’apostolo Giovanni, ognuno di noi è invitato ad ‘accoglierla con sé’ (Gv 19,27), per conoscere profondamente Gesù e sperimentarne l’amore fedele e inesauribile. E’ questo il mio augurio per ognuno di voi, cari fratelli e sorelle, all’inizio di questo nuovo anno”.

A Gaza il Vaticano alza bandiera bianca Hamas nega a Israele il diritto di esistere. Ma per la diplomazia pontificia lo stato ebraico sbaglia a difendere con le armi la propria vita. Il Custode della Terra Santa svela le ragioni che sottostanno alla politica della Chiesa nel Vicino Oriente .

di Sandro Magister -http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/213171-ROMA, 4 gennaio 2009 -

Nei giorni delle festività natalizie Benedetto XVI è intervenuto più volte contro la guerra che ha per epicentro Gaza. Ma le sue parole sono cadute nel vuoto. Insuccesso non nuovo per le autorità della Santa Sede, ogni volta che si confrontano con la questione di Israele. In più di tre anni di pontificato, Benedetto XVI ha innovato in ciò che riguarda i rapporti tra le due fedi, la cristiana e l'ebraica. Ha innovato anche a rischio di incomprensioni e contrarietà, sia tra i cattolici sia tra gli ebrei.

Ma nel frattempo poco o nulla sembra essere cambiato nella politica vaticana nei confronti di Israele. La sola variante, marginale, è negli accenti. Fino a un paio d'anni fa, con il cardinale Angelo Sodano segretario di stato e con Mario Agnes direttore dell'"Osservatore Romano", le critiche a Israele erano incessanti, pesanti, a tratti sfrontate. Oggi non più. Col cardinale Tarcisio Bertone la segreteria di stato ha ammorbidito i toni e sotto la direzione di Giovanni Maria Vian "L'Osservatore Romano" ha cessato di lanciare invettive e ha allargato gli spazi del dibattito religioso e culturale. Ma la politica generale è rimasta la stessa. Di certo le autorità della Chiesa cattolica non difendono l’esistenza di Israele – che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera, ultima posta in gioco del conflitto – con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alzano la voce in difesa dei principi “innegoziabili” riguardanti la vita umana. Lo si è visto nei giorni scorsi.

Le autorità della Chiesa e lo stesso Benedetto XVI hanno levato la loro voce di condanna contro "la massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza" solo dopo che Israele ha iniziato a bombardare in quel territorio le postazioni del movimento terroristico Hamas. Non prima. Non quando Hamas consolidava il suo dominio feroce su Gaza, massacrava i musulmani fedeli al presidente Abu Mazen, umiliava le minuscole comunità cristiane, lanciava ogni giorno decine di missili contro le popolazioni israeliane dell'area circostante. Nei confronti di Hamas e della sua ostentata "missione" di cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra, di Hamas come avamposto delle mire egemoniche dell'Iran nel Vicino Oriente, di Hamas come alleato di Hezbollah e della Siria, le autorità vaticane non hanno mai acceso l'allarme rosso. Non hanno mai mostrato di giudicare Hamas un rischio mortale per Israele, un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese, oltre che un incubo per i regimi arabi dell'area, dall'Egitto alla Giordania all'Arabia Saudita.

Su "L'Osservatore Romano" del 29-30 dicembre, in un commento di prima pagina firmato da Luca M. Possati e controllato parola per parola dalla segreteria di stato vaticana, si è sostenuto che "per lo stato ebraico la sola idea di sicurezza possibile deve passare attraverso il dialogo con tutti, persino per chi non lo riconosce". Leggi: Hamas. E sullo stesso numero del giornale vaticano – in una dichiarazione anch'essa concordata con la segreteria di stato – il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, dopo aver deplorato la "sproporzionata" reazione militare di Israele, ribadiva lo stesso concetto: "Dobbiamo avere l'umiltà di sederci attorno a un tavolo e di ascoltarci l'uno con l'altro". Non una parola su Hamas e sul suo pregiudiziale rifiuto di accettare la stessa esistenza di Israele. Nessun rilievo, invece, ha dato "L'Osservatore Romano" alle contemporanee dichiarazioni del capo del governo della Germania, Angela Merkel, secondo cui "è un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio" e la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza è "chiaramente ed esclusivamente" di Hamas.
Affermando ciò, il cancelliere tedesco ha rotto il coro di deplorazione che si è levato puntualmente anche questa volta da molte cancellerie – e dal Vaticano – dopo che Israele aveva esercitato con le armi il suo diritto all'autodifesa.

In Italia, l'esperto di geopolitica che più ha dato risalto alla presa di posizione di Angela Merkel, sul quotidiano "La Stampa", è stato Vittorio E. Parsi, professore di politica internazionale all'Università Cattolica di Milano e fino a pochi mesi fa commentatore di punta di "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana. Su "Avvenire", Parsi aveva scritto due anni fa, all'epoca della guerra in Libano, un editoriale dal titolo "Le ragioni di Israele", nel quale diceva: "L'amara realtà è che, nella regione mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta 'provvisoria', e la garanzia della sopravvivenza dello stato ebraico è riposta – per quanto sia amaro dirlo – nella sua superiorità militare".

Il problema è che la "provvisorietà" dello stato di Israele è pensiero condiviso da una parte significativa della Chiesa cattolica. Ed è questo pensiero a influire sulla politica vaticana nel Vicino Oriente, a bloccarla su vecchie opzioni prive di efficacia e a impedirle di afferrare le novità che pur sono divenute evidenti in questi giorni, tra le quali la crescente, fortissima avversione ad Hamas dei principali regimi arabi e degli stessi palestinesi dei Territori, oggettivamente più vicini oggi alle ragioni di Israele di quanto non lo sia il Vaticano. * * * Sul concetto della "provvisorietà" di Israele e sul suo influsso nella Chiesa cattolica è illuminante un libro-intervista uscito in questi giorni in Italia con il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa.

Padre Pizzaballa, in carica dal 2004, è assieme al nunzio e al patriarca latino di Gerusalemme uno dei più autorevoli rappresentanti della Chiesa cattolica in Israele. Ed è anche quello che si esprime con più libertà. Ebbene, premesso che i cristiani in Terra Santa sono oggi solo l'1 per cento della popolazione e sono quasi tutti palestinesi, padre Pizzaballa ricorda che "i cristiani sono stati protagonisti fino a pochi decenni fa delle cosiddette lotte risorgimentali arabe" in Palestina, in Libano, nella Siria. Oggi essi "non contano più nulla, politicamente, nel conflitto israelo-palestinese", dove hanno molto più peso le componenti islamiste. I cristiani hanno però conservato quel "rifiuto ad accettare Israele" che persiste in una larga parte del mondo arabo.

Una prova di questo rifiuto, aggiunge Pizzaballa, è stata l'opposizione agli accordi fondamentali e allo scambio di rappresentanze diplomatiche stabiliti nel 1993 tra la Santa Sede e lo stato d'Israele: "Non è stato facile per la Chiesa locale accettare la svolta. Il mondo cristiano di Terra Santa è prevalentemente arabo-palestinese, quindi non era così scontato il consenso. E questo rende il gesto della Santa Sede ancor più coraggioso. Ricordo molto bene i problemi che ci furono, le paure, i commenti che non erano affatto entusiastici. Sembrava quasi un tradimento delle ragioni dei palestinesi, perché da parte palestinese si è sempre vista la storia di Israele come la negazione delle proprie ragioni".

E ancora: "Nel febbraio 2000 c'è stato l'accordo della Santa Sede anche con l'Autorità Palestinese, che ha un po' calmato quella paura". Ma un'idea di fondo è rimasta: "Quando si dice che se Israele non ci fosse non ci sarebbero tutti questi problemi, sembra quasi che Israele sia la fonte di tutti i mali del Medio Oriente. Non credo che sia così. È un dato di fatto, comunque, che Israele non è ancora stato accettato dalla stragrande maggioranza dei paesi arabi".

Se Israele non ci fosse, o se comunque non agisse come agisce...

Va tenuto conto che simili pensieri corrono non soltanto tra i cristiani arabi, ma anche tra esponenti di rilievo della Chiesa cattolica che vivono fuori della Terra Santa e a Roma. Uno di questi, ad esempio, è il gesuita Samir Khalil Samir, egiziano di nascita, islamologo tra i più ascoltati in Vaticano, che in un suo "decalogo" di due anni fa per la pace in Medio Oriente ha scritto: "La radice del problema israelo-palestinese non è religiosa né etnica; è puramente politica. Il problema risale alla creazione dello stato d’Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione organizzata sistematicamente contro gli ebrei – decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa. È questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebrea mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei".

Detto questo, padre Samir sostiene comunque che l'esistenza di Israele è oggi un dato di fatto che non può essere rifiutato, indipendentemente dal suo peccato d'origine. Ed è questa anche la posizione ufficiale della Santa Sede, da tempo favorevole ai due stati israeliano e palestinese. In subordine all'accettazione di Israele, permane tuttavia, in Vaticano, una ulteriore riserva. Non sull'esistenza dello stato, ma sui suoi atti. Tale riserva è espressa nelle forme e nelle occasioni più varie e consiste nel ripetere, ogni volta che scoppia un conflitto, il giudizio che gli arabi sono vittime e gli israeliani oppressori.

Anche il terrorismo islamista è ricondotto a questa causa di fondo: "Molti problemi attribuiti oggi quasi esclusivamente alle differenze culturali e religiose trovano la loro origine in innumerevoli ingiustizie economiche e sociali. Ciò è vero anche nella complessa vicenda del popolo palestinese. Nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell'uomo viene calpestata; l'odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento". Ad esprimersi così – ultimo tra le autorità vaticane – è stato il cardinale Renato Martino, presidente del pontificio consiglio della giustizia e della pace, in un'intervista a "L'Osservatore Romano" del 1 gennaio 2009. Non una parola sul fatto che Israele si è ritirato da Gaza nell'estate del 2005 e che Hamas vi ha preso il potere con la forza nel giugno del 2007. __________

Il libro: Pierbattista Pizzaballa, "Terra Santa", intervista di Giorgio Acquaviva, Editrice La Scuola, Brescia, 2008, pp. 122, euro 9,00.

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
XLII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Giovedì, 1° gennaio 2009

Venerati Fratelli, Signori Ambasciatori, cari fratelli e sorelle!

Nel primo giorno dell’anno, la divina Provvidenza ci raduna per una celebrazione che ogni volta ci commuove per la ricchezza e la bellezza delle sue corrispondenze: il Capodanno civile s’incontra con il culmine dell’ottava di Natale, in cui si celebra la Divina Maternità di Maria, e questo incontro trova una sintesi felice nella Giornata Mondiale della Pace. Nella luce del Natale di Cristo, mi è gradito rivolgere a ciascuno i migliori auguri per l’anno appena iniziato. Li porgo, in particolare, al Cardinale Renato Raffaele Martino ed ai suoi collaboratori del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, con speciale riconoscenza per il loro prezioso servizio. Li porgo, al tempo stesso, al Segretario di Stato, Cardinale Tarcisio Bertone, e all’intera Segreteria di Stato; come pure, con viva cordialità, ai Signori Ambasciatori presenti oggi in gran numero. I miei voti fanno eco all’augurio che il Signore stesso ci ha appena indirizzato, nella liturgia della Parola. Una Parola che, a partire dall’avvenimento di Betlemme, rievocato nella sua concretezza storica dal Vangelo di Luca (2,16-21), e riletto in tutta la sua portata salvifica dall’apostolo Paolo (Gal 4,4-7), diventa benedizione per il popolo di Dio e per l’intera umanità.

Viene così portata a compimento l’antica tradizione ebraica della benedizione (Nm 6,22-27): i sacerdoti d’Israele benedicevano il popolo "ponendo su di esso il nome" del Signore. Con una formula ternaria – presente nella prima lettura – il sacro Nome veniva invocato per tre volte sui fedeli, quale auspicio di grazia e di pace. Questa remota usanza ci riporta ad una realtà essenziale: per poter camminare sulla via della pace, gli uomini e i popoli hanno bisogno di essere illuminati dal "volto" di Dio ed essere benedetti dal suo "nome". Proprio questo si è avverato in modo definitivo con l’Incarnazione: la venuta del Figlio di Dio nella nostra carne e nella storia ha portato una irrevocabile benedizione, una luce che più non si spegne e che offre ai credenti e agli uomini di buona volontà la possibilità di costruire la civiltà dell’amore e della pace. Il Concilio Vaticano II ha detto, a questo riguardo, che "con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo" (Gaudium et spes, 22). Questa unione è venuta a confermare l’originario disegno di un’umanità creata ad "immagine e somiglianza" di Dio. In realtà, il Verbo incarnato è l’unica immagine perfetta e consustanziale del Dio invisibile. Gesù Cristo è l’uomo perfetto. "In Lui - osserva ancora il Concilio - la natura umana è stata assunta…, perciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime" (ibid.). Per questo la storia terrena di Gesù, culminata nel mistero pasquale, è l’inizio di un mondo nuovo, perché ha realmente inaugurato una nuova umanità, capace, sempre e solo con la grazia di Cristo, di operare una "rivoluzione" pacifica.

Una rivoluzione non ideologica ma spirituale, non utopistica ma reale, e per questo bisognosa di infinita pazienza, di tempi talora lunghissimi, evitando qualunque scorciatoia e percorrendo la via più difficile: la via della maturazione della responsabilità nelle coscienze. Cari amici, questa è la via evangelica alla pace, la via che anche il Vescovo di Roma è chiamato a riproporre con costanza ogni volta che mette mano all’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace. Percorrendo questa strada occorre talvolta ritornare su aspetti e problematiche già affrontati, ma così importanti da richiedere sempre nuova attenzione. E’ il caso del tema che ho scelto per il Messaggio di quest’anno: "Combattere la povertà, costruire la pace". Un tema che si presta a un duplice ordine di considerazioni, che ora posso solo brevemente accennare. Da una parte la povertà scelta e proposta da Gesù, dall’altra la povertà da combattere per rendere il mondo più giusto e solidale. Il primo aspetto trova il suo contesto ideale in questi giorni, nel tempo di Natale. La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. La scena che i pastori videro per primi, e che confermò l’annuncio fatto loro dall’angelo, è quella di una stalla dove Maria e Giuseppe avevano cercato rifugio, e di una mangiatoia in cui la Vergine aveva deposto il Neonato avvolto in fasce (cfr Lc 2,7.12.16). Questa povertà Dio l’ha scelta.

Ha voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e anche morire così. Perché? Lo spiega in termini popolari sant’Alfonso Maria de’ Liguori, in un cantico natalizio, che tutti in Italia conoscono: "A Te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e fuoco, o mio Signore. Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più m’innamora, giacché ti fece amor povero ancora". Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero. In questa stessa linea possiamo citare l’espressione di san Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: "Conoscete infatti – egli scrive – la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (8,9). Testimone esemplare di questa povertà scelta per amore è san Francesco d’Assisi. Il francescanesimo, nella storia della Chiesa e della civiltà cristiana, costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana. Ritornando alla stupenda sintesi di san Paolo su Gesù, è significativo – anche per la nostra riflessione odierna – che sia stata ispirata all’Apostolo proprio mentre stava esortando i cristiani di Corinto ad essere generosi nella colletta in favore dei poveri.

Egli spiega: "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza" (8,13). E’ questo un punto decisivo, che ci fa passare al secondo aspetto: c’è una povertà, un’indigenza, che Dio non vuole e che va "combattuta" – come dice il tema dell’odierna Giornata Mondiale della Pace; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica. In questa accezione negativa rientrano anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nelle società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e spirituale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2009, 2). Nel mio Messaggio ho voluto ancora una volta, sulla scia dei miei Predecessori, considerare attentamente il complesso fenomeno della globalizzazione, per valutarne i rapporti con la povertà su larga scala. Di fronte a piaghe diffuse quali le malattie pandemiche (ivi, 4), la povertà dei bambini (ivi, 5) e la crisi alimentare (ivi, 7), ho dovuto purtroppo tornare a denunciare l’inaccettabile corsa ad accrescere gli armamenti. Da una parte si celebra la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e dall’altra si aumentano le spese militari, violando la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna a ridurle al minimo (cfr art. 26). Inoltre, la globalizzazione elimina certe barriere, ma può costruirne di nuove (Messaggio cit., 8), perciò bisogna che la comunità internazionale e i singoli Stati siano sempre vigilanti; bisogna che non abbassino mai la guardia rispetto ai pericoli di conflitto, anzi, si impegnino a mantenere alto il livello della solidarietà.

L’attuale crisi economica globale va vista in tal senso anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo. Occorre allora cercare di stabilire un "circolo virtuoso" tra la povertà "da scegliere" e la povertà "da combattere". Si apre qui una via feconda di frutti per il presente e per il futuro dell’umanità, che si potrebbe riassumere così: per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali. Più in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di "fare uguaglianza", riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di sobrietà, scelte peraltro obbligate dall’esigenza di amministrare saggiamente le limitate risorse della terra. Quando afferma che Gesù Cristo ci ha arricchiti "con la sua povertà", san Paolo offre un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un valore in sé, ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà.

Quando Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, fa una scelta di testimonianza ispiratagli direttamente da Dio, ma nello stesso tempo mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza. Così, nella Chiesa, il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito. Ecco dunque il messaggio da raccogliere oggi: la povertà della nascita di Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione umana. Cari fratelli e sorelle, penso che la Vergine Maria si sia posta più di una volta questa domanda: perché Gesù ha voluto nascere da una ragazza semplice e umile come me? E poi, perché ha voluto venire al mondo in una stalla ed avere come prima visita quella dei pastori di Betlemme? La risposta Maria l’ebbe pienamente alla fine, dopo aver deposto nel sepolcro il corpo di Gesù, morto e avvolto in fasce (cfr Lc 23,53). Allora comprese appieno il mistero della povertà di Dio. Comprese che Dio si era fatto povero per noi, per arricchirci della sua povertà piena d’amore, per esortarci a frenare l’ingordigia insaziabile che suscita lotte e divisioni, per invitarci a moderare la smania di possedere e ad essere così disponibili alla condivisione e all’accoglienza reciproca.

A Maria, Madre del Figlio di Dio fattosi nostro fratello, rivolgiamo fiduciosi la nostra preghiera, perché ci aiuti a seguirne le orme, a combattere e vincere la povertà, a costruire la vera pace, che è opus iustitiae. A Lei affidiamo il profondo desiderio di vivere in pace che sale dal cuore della grande maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ancora una volta messe a repentaglio dalla massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza. Anche la violenza, anche l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – "da combattere". Che esse non prendano il sopravvento! In tal senso i Pastori di quelle Chiese, in questi tristi giorni, hanno fatto udire la loro voce. Insieme ad essi e ai loro carissimi fedeli, soprattutto quelli della piccola ma fervente parrocchia di Gaza, deponiamo ai piedi di Maria le nostre preoccupazioni per il presente e i timori per il futuro, ma altresì la fondata speranza che, con il saggio e lungimirante contributo di tutti, non sarà impossibile ascoltarsi, venirsi incontro e dare risposte concrete all’aspirazione diffusa a vivere in pace, in sicurezza, in dignità. Diciamo a Maria: accompagnaci, celeste Madre del Redentore, lungo tutto l’anno che oggi inizia, e ottieni da Dio il dono della pace per la Terrasanta e per l’intera umanità. Santa Madre di Dio, prega per noi. Amen.


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