SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
  A Firenze i cattolici riscrivono la loro storia

di Sandro Magister -http://chiesa.espresso.repubblica.it/

Il progressismo cattolico del Novecento, in Italia e nel mondo, ha avuto un suo epicentro nel capoluogo toscano. Un grande convegno su don Milani, La Pira e padre Balducci ha analizzato per la prima volta il fenomeno. Il professor Pietro De Marco ha aperto la discussione. Ecco le sue tesi


ROMA, 26 giugno 2008 – Nel corso del Novecento, la città e la diocesi di Firenze sono state la culla di una cattolicità straordinariamente viva e multiforme, con personalità di forte spicco.
Visse a Firenze Giorgio La Pira, sindaco della città negli anni Cinquanta e Sessanta, fervente profeta di pace messianica tra le nazioni e le religioni, di cui è in corso il processo di beatificazione.
Apparteneva alla diocesi di Firenze il sacerdote Lorenzo Milani, parroco e maestro in una scuola da lui ideata e creata in un piccolo paese di montagna, Barbiana, autore nel 1958 di un libro, "Esperienze pastorali", dalla visione apocalittica sul futuro del cristianesimo in Occidente, e poi nel 1967 di un altro libro, "Lettera a una professoressa", accolto in tutto il mondo come una rivoluzione educativa.
Operò a Firenze il religioso scolopio Ernesto Balducci, teologo e antropologo dei più ammirati, animatore di una rivista, "Testimonianze", divenuta con il Concilio Vaticano II la rivista-guida di una riforma della Chiesa in chiave progressista.
A queste tre personalità la Fondazione Magna Carta presieduta dal senatore Gaetano Quagliariello ha dedicato il 23 e il 24 maggio a Firenze, a Palazzo Vecchio, un convegno dal titolo: "La Pira, don Milani, padre Balducci. Il laboratorio Firenze nelle scelte pubbliche dei cattolici, dal fascismo a fine Novecento".
Il convegno è stato il primo che ha analizzato in profondità questo aspetto del cattolicesimo fiorentino. Sia nei suoi protagonisti, sia nell'influsso che esso ha esercitato sull'insieme della Chiesa italiana, sia nella sua opposizione a taluni indirizzi della gerarchia cattolica e del papato.
Opposizione tuttora viva in alcuni eredi spirituali delle personalità citate. Ad esempio è venuta da un gruppo di questi, un anno fa, una lettera di protesta contro le posizioni di Benedetto XVI e della conferenza episcopale italiana, di cui www.chiesa ha dato conto nel servizio del 26 giugno 2007 intitolato: "Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio".
Di queste turbolenze ha risentito anche il convegno indetto da Magna Carta. Ad esso hanno preso parte studiosi di diverso orientamento. Altri, però, hanno rifiutato, accusando i promotori del convegno di un intento "revisionista", piegato a interessi politici conservatori. Tra gli studiosi che hanno disertato spiccano i membri della Fondazione Balducci: gli scolopi Giuseppe Buonsanti e Annibale Divizia, il magistrato Pierluigi Onorato, i professori Umberto Allegretti, Bruna Bocchini, Piergiorgio Camaiani. Giuseppe Grazzini. Ma vi figurano anche seguaci di don Milani come Anna Maria Pizziolo; discepoli di La Pira come Gianni, Giorgio, Marco Pietro e Pietro Domenico Giovannoni; storici della Chiesa come Maria Paiano, Mario G. Rossi, Anna Scattigno, Giambattista Scirè.
Tra gli intellettuali di area progressista che invece hanno partecipato attivamente ai lavori figurano Severino Saccardi, attuale direttore di "Testimonianze", Emma Fattorini, Giovanni Gozzini, Carlo Prandi, Marco Boato, Corrado Corghi, Fabrizio Fabbrini.
Alla sessione di apertura – con relazioni introduttive di Michael Novak, Gaetano Quagliariello e Pietro De Marco – ha fatto da moderatore il professor Aldo Schiavone, docente di diritto romano, non cattolico ed editorialista del più diffuso quotidiano progressista italiano, "la Repubblica". Gli interi lavori sono stati trasmessi e videoregistrati da Radio Radicale.
Qui di seguito è riprodotta la relazione di De Marco, professore di sociologia della religione all'Università di Firenze e alla Facoltà teologica dell'Italia Centrale. In essa l'autore svolge un'originale analisi d'insieme della nascita negli anni Trenta del progressismo che ha caratterizzato nei decenni successivi larghi strati dell'intellettualità cattolica in Italia e in Europa, come anche dei suoi sviluppi e del suo attuale declino, con particolare attenzione alla figura di padre Ernesto Balducci:


Teologie politiche e "intelligencija" cattolica, dagli anni Trenta al pontificato di Giovanni Paolo IIdi Pietro De Marco

Nella quarta di copertina del libro di Yvon Tranvouez "Catholiques et communistes" – dedicato alla vicenda e alla crisi della "Quinzaine", periodico francese rappresentativo del progressismo cristiano dei primi anni Cinquanta – si legge:
"Le migliaia di cristiani che si riconoscevano [nella "Quinzaine"] si rifiutavano di essere degli stranieri nel mondo moderno. Invocavano la propria esperienza di un nuovo mondo di cui il movimento operaio e la rivoluzione comunista erano portatori. Ad essi sono stati opposti i principi immutabili del mondo cattolico, ponendoli così di fronte a un scelta impossibile, che condusse gli uni a un esilio senza ritorno, gli altri all’affermazione paradossale di una doppia fedeltà, alla Chiesa e alla classe operaia”.
La crisi del progressismo si conclude in Francia, formalmente e nel dibattito pubblico, attorno al 1955, ma le coordinate richiamate dalla copertina del libro continueranno a caratterizzare la vicenda progressista di una lunga stagione cattolica, almeno fino a tutti gli anni Settanta.
Tali coordinate sono anzitutto:

– l'assunto dell'estraneità del cristiano al mondo moderno, intesa come condizione inautentica e invalidante la fede stessa, cui è d'obbligo rimediare accogliendo, appunto, la Modernità;
– la diagnosi secondo cui vi è conflitto tra la necessaria conformità del cristiano all’uomo moderno (specialmente se portatore di una missione rivoluzionaria) e i “principi immutabili” riproposti dal potere ecclesiastico; conflitto ritenuto da alcuni progressisti insanabile;
– la tesi della coincidenza tra l'essere “uomini tra gli uomini” (ed anzi tra i migliori di essi: i poveri, il proletariato) con la "giovinezza della Chiesa".

Ma questi soli tratti, largamente penetrati nell’ethos cattolico, non bastano ad intendere la vicenda dei progressismi cattolici. Bisogna aggiungere ad essi altri due momenti.
L'uno caratteristico della cultura diffusa, ovvero:
– la sindrone di attesa dell’Età Nuova, che segnerà gli anni Sessanta.
L'altro interno alla Chiesa stessa, ovvero:
– l’accelerazione data dal Concilio Vaticano II al dibattito ecclesiologico, con effetti di radicalizzazione, e la rapida decostruzione del cosmo dottrinale cattolico nei secondi anni Sessanta per effetto, anche, di una inedita diffusione militante della cultura teologica.
* * *
Considerata col distacco del tempo e dell’analisi, la cultura progressista rappresenta il trasferimento di frammenti di esperienza in un mondo illusorio, anzi onirico, ove essi possono essere ordinati liberamente, fuori dai vincoli di realtà. Ha scritto a questo proposito Eric Voegelin:
"Con un atto di immaginazione l’uomo può ridurre se stesso a un io condannato ad essere libero. In quella che potremmo chiamare una riduzione o contrazione del sé, Dio è morto, il passato è morto, il presente è il volo dell’io [...] verso l’essere che esso non è, il futuro è il campo delle possibilità tra le quali l’io decide la progettualità dell’essere al di là della mera fatticità, e la libertà è la necessità di operare la scelta del proprio essere".

Entro il paradigma progressista l’equivoco principale riguarda, comunque, la Modernità come indiscussa portatrice di valore, e di un valore intrinsecamente cristiano. È molto più che l’ottimismo verso il mondo di cui si è accusata la costituzione conciliare "Gaudium et spes". Questa inedita progressione cattolica verso l’accettazione del paradigma del Moderno, sembra avere più fasi:
una prima fase in cui la Modernità portatrice di valore è quella anti-borghese del movimento operaio e delle sue avanguardie, delle culture sindacaliste e comuniste; per gli uomini della Mission de France il mondo moderno è, esemplarmente, il mondo della fabbrica;
una seconda fase in cui la Modernità alla quale assimilare l’ethos cattolico è l'insieme dei valori secolari: autonomia, ragione, libertà, liberazione. È in questo quadro che si apre il dialogo col marxismo teorico e specialmente con l’ateismo, come espressioni eminenti della ragione moderna, come eccessi rivelatori dei valori del Moderno;
una terza fase, a partire dagli anni Ottanta, in cui si profila il revival del sacro e delle identità “altre”. Qui la nuova “grande narrazione” sarà quella del Sud del mondo, della globalizzazione e dell’epica no-global, dei diritti umani, della pace universale. La modulazione progressista delle pratiche di rinnovamento della Chiesa si adegua a questa narrazione.

L'autocritica cattolica per l'essere “stranieri nel mondo” è dunque un enunciato mobilitante, che interpreta la realtà e detta alle avanguardie intellettuali la Verità con cui interpretare se stesse e guidare l’azione di trasformazione della realtà alienata.
La fortuna dirompente che ebbe dai primi anni Settanta la formula di Dietrich Bonhoeffer del “mondo” divenuto “adulto” anzi, propriamente, “maggiorenne” – ovvero di una condizione umana adulta e autonoma, in sé buona, maturata fuori e contro il cristianesimo – è sintomatica di questa deriva militante del paradigma progressista cristiano, nelle prime due fasi. Eppure non poteva sfuggire (e non sfuggì a molti cattolici, condannati però a marginalità) che il "mondo adulto" bonhoefferiano era teologicamente l'opposto dell' "amartía tou kósmou" del Vangelo di Giovanni. Invece che mondo del peccato, il mondo moderno veniva giudicato dai ripetitori di Bonhoeffer in sé capace di perfezionamento e di salvezza, indipendentemente dalla Città di Dio come fede, come sacramento, come ordine.
Divorati dalle pratiche militanti, i cattolici progressisti non si avvedevano delle implicazioni di queste loro formule, micidiali per la sostanza della fede cattolica. E anche oggi, molti anni dopo la conclusione di quelle vicende, l'indebolimento delle teologie continua a rendere difficile una forte presa di coscienza retrospettiva.

I fenomeni qui tratteggiati in termini generali hanno visto a Firenze interpretazioni e mobilitazioni politico-religiose pubbliche e paradigmatiche, che hanno avuto influsso in Italia e oltre, negli anni Sessanta e Settanta.
Resta la domanda: perché avvenne tutto questo?

UNA TESI STORIOGRAFICA

Prendo le mosse da un ordine e da una emergenza, ambedue degli anni Venti-Trenta del Novecento, nello straordinario intermezzo tra le due guerre mondiali.
L’ordine è quello di un’intelligenza cattolica ricostruita dopo la crisi modernista d'inizio Novecento. Un’intelligenza sostenuta da un linguaggio teologico rigoroso, spesso definita dall’equilibrio di due “scolastiche”, la tomista e l’agostiniana, e governata dal prestigio e dalla ragione della Chiesa di Roma. Penso agli anni tra le due guerre mondiali, sia in Europa che negli Stati Uniti.

La teologia insegnata nelle facoltà teologiche e le “filosofie cristiane” allora in formazione sono ormai addestrate a riconoscere i rischi del modernismo: la storicizzazione del dogma e della Scrittura, la psicologizzazione della fede, la contrapposizione dell'esperienza alla ragione. D’altronde l'opera riformatrice di Pio X (della cui grandezza Carlo Fantappiè ha dato di recente una ricostruzione innovativa nei due volumi del saggio "Chiesa romana e modernità giuridica") aveva offerto alla Chiesa uscita dalla prima guerra mondiale un sicuro baluardo di dottrina (il Catechismo di Pio X), la certezza del diritto, l’equilibrio esegetico tra scienza biblica e tradizione, la fiducia nella natura razionale e nella necessità ecclesiale della ricerca dogmatica, ma anche l’apertura personalista della filosofia e della teologia morale, e infine una letteratura religiosa (specialmente di lingua francese) di qualità memorabile. Non sorprende che in quegli anni una grande teologia si applichi a studiare la liturgia.

In effetti, gli interpreti del sentire cattolico sono, negli anni tra le due guerre mondiali, teologi classici e spirituali, scrittori e filosofi. Sono gli uomini della grande visione del mondo cattolica, della santità del corpo mistico, della cultura alta europea, cristianamente ordinata. Da Romano Guardini all’anglocattolico T.S. Eliot, da Giuseppe De Luca e Giovanni Papini a Christopher Dawson, dagli Inklings, C.S. Lewis e gli altri, a Louis Massignon, dall’ambiente di “Hochland” a Étienne Gilson ecc. Sullo sfondo, un ordinato processo di formazione del clero e di costruzione e ricambio della gerarchia nel laboratorio universalistico di Roma, dei suoi istituti, collegi e facoltà. Questo il quadro, di qualità forse insuperata, del cattolicesimo tra le due guerre.

L’emergenza è invece, per definizione, congiunturale, nonché prevalentemente endogena rispetto al sistema della Chiesa cattolica, e mette la Chiesa alla prova del “secolo delle ideologie”. Nel corso degli anni Trenta prende forma, infatti, lo schierarsi militante – chiamato, appunto, “trentismo” – di intellettuali e scrittori, il loro passaggio all’ideologia rivoluzionaria e, spesso, all'adesione al comunismo sovietico. Il principale reagente di questo processo sarà la guerra civile di Spagna e in generale la minacciosa affermazione in Europa delle rivoluzioni naziste e fasciste, carismatico-autoritarie e antisemite. La costellazione intellettuale “engagée” si collega e si ramifica; una "société de pensée" esce dalla latenza e si incrementa attraverso una sequenza di conversioni alla militanza "contro-reazionaria" (come definita recentemente da Pierre-André Taguieff), e questa milizia compenetra come disposizione, atteggiamento e linguaggio anche l'intelligencija cattolica e i quadri ecclesiastici impegnati in pastorali di frontiera.
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Conosciamo la figura storica delle "sociétés de pensée", ovvero di quelle formazioni che uniscono e moltiplicano gli intellettuali "critici" nell'opposizione soprattutto verbale al Sovrano, quale esso sia. Le "sociétés de pensée" furono individuate e studiate nella storia della Francia prima della Rivoluzione, e così denominate, da Augustin Cochin all'inizio del Novecento. Le "sociétés de pensée" sono un reticolo militante di colti, diffuso sul territorio nazionale, una “contro-aristocrazia” che si oppone al Sovrano. Le "sociétés" tendono a parlare a nome dell’intero e più autentico corpo sociale di cui si fanno interpreti. Anzi, tendono a porsi come “la” società.

Chi le guida? Certo, una regìa seleziona le parole d’ordine e dà il ritmo alla mobilitazione. Ma è una regìa molto particolare. Piuttosto che a una direzione esterna, una "société de pensée" è riconducibile a un meccanismo autogeneratore. Il profilo sociale di questa connessione è una convergenza di spontaneismo e di calcolo strategico. Quanto allo stile pubblico, già Cochin sottolineava una risorsa endogena dell'intelligencija illuminata: la capacità tattica nel drammatizzare emotivamente la congiuntura storica e nel demonizzare l'avversario. Negli anni Trenta e oltre, fino ad oggi, l’uso scriteriato della categoria negativa di fascismo è una di queste esagerazioni dell'intelligencija militante.
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Ho detto che anche nella cultura cattolica prendono forma, nello stesso periodo, inedite reti militanti. Specialmente in Francia.
La spinta "trentista", accelerata dalla seconda guerra mondiale, agisce in particolare nel clero intellettuale. Essa si radica tra i teologi poiché il militantismo intellettuale ha bisogno di competenze dottrinarie che allora erano rare tra i laici cattolici. Il nuovo compito trasforma parti del ceto teologico in intelligencija; nel corso degli anni Quaranta generazioni di teologi e di laici al loro seguito assumono questa personalità di corpo, questo nuovo "noi" politico.

Mutano, nell’operare militante dell’intelligencija teologica, la gerarchia degli obiettivi e l’obiettivo ultimo del lavoro teologico e pastorale. Si accentua fino alla sfida il conflitto col centro, con Roma e con l’autorità gerarchica della Chiesa. La Chiesa stessa diventerà il supremo bersaglio, ad un tempo come autorità da limitare e spazio da conquistare. Hans Küng farà da modello, già prima dell’apertura del Concilio.

Sottolineo un aspetto sociologico di cui oggi si ha scarsa consapevolezza. Dopo una fase di preparazione, i “nuovi” teologi divengono i protagonisti della cultura cattolica pubblica prendendo il posto, dalla fine degli anni Cinquanta, dei maestri prevalentemente laici della prima metà del Novecento: narratori, poeti, filosofi, saggisti cattolici. Non sorprende, allora, che a partire dal primo decennio postbellico, si crei una frattura tra intelligencija teologica e sentire cattolico. La distanza tra il sentire cattolico, comunicante col sentire dell’alta cultura umanistica europea (quella del "non possiamo non dirci cristiani"), e la nuova effervescenza teologica militante è un indicatore importante del definirsi e organizzarsi nella Chiesa di una intelligencija che si muove spesso con le regole di un ideologia moderna.

La frattura tra cultura cattolica e intelligencija teologica si approfondisce sintomaticamente dopo il Concilio Vaticano II. Al vertice di questo distanziamento polemico, per acutezza di diagnosi critica premonitrice, vi è "Le paysan de la Garonne" di Jacques Maritain, pubblicato nel 1967.

"SOCIÉTÉ DE PENSÉE" CATTOLICA, FASCISMO, MODERNISMO

Finora ho tratteggiato un processo. Ma il coinvolgimento dell’intelletto cattolico nel momento "trentista" richiede non solo molta ricerca storica, ma qualche supplemento interpretativo. Il difficile equilibrio dell’ordine cattolico degli anni Trenta risente dell’avvenuta condanna, il 29 dicembre 1926, dell’Action Française di Charles Maurras.

Con la condanna di Maurras, la Santa Sede emette un giudizio e compie un atto assolutamente autorevole di discernimento. Con ciò Pio XI conferma e incoraggia una forte autonomia teorica e pratica del corpo cattolico e dell’intelletto cattolico. Se l'agnostico Maurras sa promuovere una visione del mondo cattolica, a maggior ragione il corpo cattolico può e deve operare ed esercitare la ragione politica con le proprie risorse. Questo il papa lo afferma contro l’orientamento di teologi vicini all’Action Française come il domenicano Réginald Garrigou-Lagrange e i gesuiti Pedro Descoqs e Joseph de Tonquédec, intelligenze di primissimo piano e di sicura autorità a Roma.

Ma gli anni Trenta, in piena “guerra civile europea”, esibiscono le perverse dialettiche di una competizione senza quartiere e, al tempo stesso, di uno scambio imitativo destra-sinistra che segnano il Novecento, a partire dalla Grande Guerra.
La decisione di Pio XI non riesce, così, a impedire che nell’arco di un decennio si produca nell’intelligenza e nel clero cattolico una vicenda militante opposta all'Action Française, quella dell’avvicinamento alle culture politiche progressiste.
Queste alleanze si danno giustificazioni etiche: giustizia, antifascismo, antifranchismo, ma anche il martirio del proletariato, la richiesta di un nuovo ordine. Di fatto esse negano la sufficienza e la esistenza stessa di una teologia politica cattolica.

In effetti, per la cultura cattolica progressista la scelta tra sinistra e destra, tra comunismo e fascismo, discende, come nella gran parte del "trentismo", da valori che andrebbero piuttosto definiti, con François Furet, illusioni. Come non essere favorevoli ai militanti operai e ai combattenti di sinistra? Come non considerarli compagni di strada e modelli? Il legame tra teologi cattolici e l’Action Française era stato fondato su un esplicito terreno comune, che era la visione cattolica della società e dell’ordine. In quel momento ricostruttivo di teologia politica razionale cattolica, Maurras, con tutte le sue sgradevolezze, era stato dunque oggettivamente maestro di intelligenza. Maritain stesso lo riconobbe. Invece, nella militanza a sinistra è proprio la visione cristiana a divenire irrilevante. Né vi era la possibilità di condividere alcunché con le culture comuniste, in termini di concezione del mondo e dell’uomo. Si potevano condividere solo sentimenti e volontà. L’irrilevanza pratica della cultura cristiana e il suo accantonamento, di fronte a dottrine decisamente anticristiane, non potrà che generare assottigliamento del paradigma cattolico e subalternità operativa.

Il colpo è forte e verrà avvertito come tale a Roma; tanto più insidioso perché esso si convalida nell’antifascismo militante delle Resistenze europee e si nutre della vittoria delle democrazie e delle lotte operaie del dopoguerra. Agli occhi lungimiranti di Roma, l’opzione progressista svuota la politicità salvifica dell'agostiniana Città di Dio.
Viene da ricordare la perfetta diagnosi di Alain Besançon in "Le malheur du siècle":
“Una parte importante del pensiero cristiano [...] è stata tanto più tentata di fondersi (fusionner) con l’umanitarista (humanitaire) in quanto egli si presentava più autenticamente cristiano, e animato da un entusiasmo e da un fervore che avevano abbandonato la religione tradizionale. Diventare comunista dava il senso di portare a compimento finalmente in modo reale il comandamento di amore per il prossimo e, ad un tempo, la ragione [del cristiano] era tranquillizzata, in quanto nuovamente posta sulla base certa della scienza”.
Siamo in presenza di un pensiero cristiano che cerca un nuovo fondamento nella ragione rivoluzionaria, nella sintesi di Rousseau e Marx. Su questo dato di fatto a Roma non si coltivava nessuna illusione, mentre qualcuna ce n'era nell’episcopato francese. Le condanne delle esperienze cattolico-comuniste, dei preti operai e della Mission de France, vanno intese in questo orizzonte.
* * *
I paradigmi degli anni Trenta e Quaranta hanno conseguenze nel dopoguerra fino agli anni Sessanta e oltre. Esercitano una pressione entro o a fianco del Concilio, su più fronti, tra cui quello del “primato dei poveri” non è il più critico.
Nella vicenda con eco mondiale di don Lorenzo Milani – dottrinalmente cauto perché fatto esperto dalla crisi dei preti operai – l’orizzonte della visione cristiana si contrae, si “essenzializza” o piuttosto si impoverisce. Contemporaneamente, nella Chiesa universale la materia sociale, dalla "Gaudium et spes" alla "Populorum progressio", si enuncia in competizione col modernismo rivoluzionario, in un quadro teologico-politico cattolico divenuto estremamente fragile.

È questo il terreno ideale (come aveva mostrato con anticipo la cultura dei preti operai e della Mission de France) dell’autocolpevolizzazione del credente e del collasso del paradigma antropologico e storico cristiano. Abbattute le odiate mura della Città di Dio, la "civitas hominum" diviene nelle versioni progressiste – a dominante comunista o sessantottina – il paradigma salvifico. Oramai, non il cristianesimo deve giustificare la storia, ma deve piuttosto giustificare se stesso di fronte alla storia, secondo la tagliente formula di Augusto Del Noce.

QUALCHE TESI SU FIRENZE E PADRE ERNESTO BALDUCCI

La situazione di Firenze è peculiare, nel quadro della Chiesa cattolica italiana del Novecento. Vi si combinano una insolita concentrazione di élite intellettuali e una società e una diocesi secolarizzate, alle quali dagli anni Trenta si dedica l'opera pastorale di un grande vescovo, il cardinale Elia Dalla Costa. Questo complesso di fattori avrà conseguenze nella vita intellettuale e civile cattolica del dopoguerra fiorentino, quindi nella costruzione delle "sociétés de pensée" cattoliche nelle loro diverse fasi.

La vicenda di padre Ernesto Balducci (1922-1992), religioso scolopio, è esemplare per gli effetti che le "sociétés de pensée" in cui si coinvolge nella stagione del Concilio producono sulla sua formazione teologica. La recente pubblicazione dei suoi "Diari" degli anni di seminario (1940-1944), presso il "Calasanctianum", lo studentato filosofico-teologico degli scolopi a Roma, rivela in Balducci una formazione tipica di quell’ordine intellettuale cattolico e di quella somma di fattori di cui parlavo. Resterà in lui una matrice esistenzialistica e coscienzialistica il cui limite è, forse, la difficoltà a capire istituzioni e oggettività storiche.

Balducci scriverà poi di aver accolto la ragione moderna attraverso la teologia evoluzionista del gesuita Pierre Teilhard de Chardin. Ma l’evoluzionismo di Balducci, negli anni del Concilio, sa ancora “umiliarsi” di fronte alla figura di papa Giovanni XXIII, in occasione della morte:
“Noi diciamo con parole grosse piccole cose; egli ha detto con povere parole cose grandi ed ha tratteggiato con i suoi gesti [...] le linee maestre dell’avvenire. Abbiamo capito perché quel certo progressismo di cui eravamo infetti toglieva la pace a noi e agli altri; non perché fosse veramente a conoscenza delle leggi del progresso, ma perchè tentava le vie dell’avvenire senza averne la chiave. [...] Le stesse cose che avevamo pensato con orgoglio egli le ha fatte con semplicità e con sovrabbondanza di coraggio. Ma perché? [...] La sua grande fede lo ha liberato totalmente da se stesso e perfino dal suo programma”.

Tra stilemi letterari, in questo brano Balducci disegna un papa Roncalli che fa cose grandi e universali a patto di spogliarsi totalmente di sé. Sarà anche la lettura che Balducci farà di san Francesco.
Ma pochi mesi dopo, sempre in pieno Concilio, Balducci afferma:
”La nostra è un’epoca nuova, ha caratteri profondamente nuovi e il cristiano che voglia parlare col suo mondo e nel suo mondo deve prendere atto di questa realtà nuova, altrimenti il suo discorso è svilito, è vacuo. Lo sentiamo, questo, noi sacerdoti [...]. È cambiato l’orecchio dell’uomo moderno, il suo atteggiamento interiore, il suo rapporto con le cose, il suo dolore e la sua speranza: e io, prima di rovesciargli addosso la mia verità soprannaturale, devo aver compiuto l’atto modesto della conoscenza della sua realtà naturale”.

Colpisce l’idea dell’uomo moderno come realtà naturale, estraneo alla condizione soprannaturale di peccato e grazia, dotato di uno statuto neutro tra le due città di Dio e degli uomini. Il contrappunto è rilevante non tanto come preludio di quella che sarà in Balducci, con la fine degli anni Sessanta, l’eclissi del linguaggio teologico e della sostanza dogmatica, ma per l’irrompere del Moderno come idea normativa.
Mentre in Italia, nei primi anni Sessanta, un'effettiva “modernizzazione” sollecitava nuove iniziative pastorali nelle diocesi e le prime ricerche di sociologia religiosa, sarebbe stato agevole a una cultura teoricamente solida proseguire la critica novecentesca della Modernità come progresso di emancipazione, libertà e ragione. Ma questa eredità critica cessò di operare.

Luciano Martini ha richiamato l'attenzione su un passo autobiografico di Balducci risalente al 1979, nel libro "Il terzo millennio", nel quale egli distingue di sé tre periodi:
“In questo dopoguerra potrei distinguere tre momenti di progressivo [mio] distacco dalla vecchia matrice [della ragione cattolica]. Il primo è stato quello dell’accettazione della ragione moderna, secondo lo statuto che essa si è data nella fase del positivismo evoluzionistico. La formalizzazione di questo trapasso è avvenuta soprattutto con la lettura di Teilhard de Chardin e, in modo compiuto e tranquillo, con la grande lezione del Concilio”.

Fermiamoci su questo primo momento. Che Balducci potesse individuare e accettare come modello della ragione moderna il positivismo evoluzionistico sembra in lui il prodotto di un equivoco sui termini. Teilhard non fu realmente un positivista evoluzionista, ma un mistico che ricostruisce una rischiosa teologia cristiana sull’evoluzione cosmica: la letteratura su di lui usa spesso il termine “mistico”, nel senso di una religiosità panica, di una visionarietà del Tutto.

“Il secondo [momento] – prosegue Balducci – coincide con gli anni della grande deflagrazione culturale, alla fine degli anni Sessanta, che ha comportato l’abbandono dell’ottimismo progressista e l’accettazione dell’analisi di classe come chiave di lettura. [...] Il terzo e ultimo è di questi anni apocalittici, in cui il collasso della civiltà produttiva ha messo allo scoperto le radici dell’uomo occidentale, svelando, tra l’altro, la stretta correlatività dello stesso marxismo all’assetto capitalistico”.
Questo linguaggio – riproposto più volte da Balducci fino alla sua morte nel 1992 – si compendia nella cifra del profetismo, anzi della “profezia laica”, che rappresenta bene l'estrema fase militante della teologia politica a Firenze.
Riguardo alla laicità, nel 1987, a Napoli, in una conferenza all’Istituto Orientale, Balducci dice sintomaticamente: “L’uomo così com’è, l’uomo laico”.
È un radicale equivoco. L’uomo laico non è l’uomo di natura, secondo una male applicata tesi scolastica; è un'invenzione della modernità europea recente, a partire dalla lotta contro gli ordinamenti di cristianità per la loro parziale secolarizzazione in religione civile.
Dalle successive metamorfosi della sua riflessione si salva in Balducci solo il canone dell’immanenza umanistico-laica, che adotta l’agenda della mobilitazione pacifista e quartomondista, in forte e singolare analogia con la laicità del protestantesimo secolarizzante, senza più religione né teologia.

Balducci resterà oramai, e sino alla fine, intelligencija, cioè un intellettuale "contro". Nella conferenza all’Orientale di Napoli, imputa alla terminologia che distingue ciò che è religioso o cristiano da ciò che non lo è, di essere un linguaggio della guerra, “in cui la religione è un universo simbolico funzionale alla società”. Vi contrappone una “rilettura del messaggio evangelico totalmente nuova e totalmente fedele". Così:
"Il tratto essenziale di questo nuovo modo di esprimersi della fede è la laicità totale. Il Vangelo [...] è una profezia, la cui validità non si dimostra concettualmente. [...] Il Dio di guerra è un Dio che si dimostra, [...] ma il Dio di Gesù non si dimostra se non con la vita e la testimonianza. Non è una verità oggettivabile. [...] Ogni definizione porta in sé un contagio ideologico, è funzionale a qualche obiettivo che con Dio non ha niente a che fare”.

Un progetto iconoclastico sul Logos e contro il Logos, dunque, quello di Balducci. Perseguito retoricamente più che teoreticamente, ma penetrato nelle menti di tanti cattolici per il tramite delle reti dei militanti. Aggiungeva ancora Balducci:
“Quella di Gesù [...] è un’esemplarità che si pone dinanzi, una condizione di esistenza in cui l’uomo realizza in pieno il compito umano, prende il proprio destino e ne fa un’offerta per il futuro dell’umanità intera. [...] Parlo un linguaggio volutamente laico, perchè si capisca come ciò che ci viene detto investe la totalità”.
La piena realizzazione dell’umano in Cristo, qui enunciata, potrebbe avvicinarsi alla dottrina dei Padri greci sulla divinizzazione, se solo nel pensiero di Balducci fossero rimaste intatte la destinazione soprannaturale dell'uomo e la trascendenza del Regno. Ma, poiché la destinazione è "il futuro dell’umanità" e il linguaggio per dirlo è quello “laico”, l’implicazione ultima è la caduta nell'immanenza. Ennesima conferma del teorema gnostico di Voegelin.

In questo percorso tipico dell’intelligencija militante cattolica – che per un paio di decenni troverà in Firenze un suo epicentro – l’ottimismo della salvezza cristiana è ridotto alla ingenua speranza nella bontà e nell'autoriscatto dell’uomo moderno e della sua storia. Un “vangelo naturale”, un “vangelo in atto” ancora cristiani?
La sfera pubblica occidentale si alimenta così di una iper-morale senza trascendenza, anche grazie al contributo della lunga deriva dell’intelligencija teologica.

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