SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
La vita umana è un bene assoluto per lo Stato ma non per la Chiesa .
A proposito di imposizioni etiche.

di Antonio Socci -“Libero” 15 febbraio 2009

TUTTAVIA PER LA CHIESA LA VITA TERRENA NON E’ UN BENE ASSOLUTO.
LO SONO INVECE LA SALUTE DELL’ANIMA E LA VITA ETERNA

Adriano Sofri mi ha fatto riflettere. Sabato sulla Repubblica e sul Foglio ha messo in discussione, con argomenti seri, la mozione del Pdl approvata in Parlamento sul “fine vita” (a proposito della legge in discussione sul cosiddetto “testamento biologico”).
Può uno Stato disporre “la nutrizione dei suoi sudditi umani”?
O ancora: “riuscite a immaginare che qualcuno, a voi maggiorenni e capaci di intendere, venga a intimare di mangiare e bere?”. Questa domanda già posta da Gad Lerner, da Emma Bonino e da Pier Luigi Bersani, secondo Sofri, non ha avuto risposta.

In effetti anche a me è sembrato di non sentire risposte totalmente esaurienti. E’ sensato allora, in vista della legge (contro cui già si annuncia un referendum), continuare a difendere un principio simile che sembra ledere la libertà personale e, a prima vista, pure il buon senso? Pare di no. Sennonché lo stesso Sofri indica intanto un’eccezione: l’ “alimentazione forzata” si può disporre solo “in casi di accertata necessità psichiatrica… come sa chi fa i conti con la tragedia dell’anoressia nervosa”. E’ vero. Ma perché allora non potrebbe valere lo stesso, poniamo, per una persona malata di Alzheimer? Ci sono casi in cui questi malati rifiutano anche le medicine: ebbene, i familiari che premurosamente inseriscono le rifiutate pasticche nel cibo per curare i propri cari commettono reato? Si badi bene, è sacrosanto il diritto di rifiuto delle cure, ma in casi come questo? O per i minori?

La vita concreta è più problematica dell’astrazione giuridica. Torniamo al cibo. Nella concretezza quanti sono coloro che rifiutano alimentazione e idratazione? Casomai una persona gravemente ammalata e molto sofferente che vuole farla finita potrà arrivare a chiedere l’eutanasia, ma non credo che chieda la cessazione di alimentazione e idratazione perché ciò da solo non rappresenterebbe certo la fine delle sofferenze. Anzi. Allora sembra una questione solo ideologica che non ha riscontri nella pratica e che si solleva solo perché non si osa proporre l’eutanasia. Peraltro anche le richieste di eutanasia (cioè l’idea di una morte veloce e indolore che metta fine alle sofferenze) sono pochissime fra i malati terminali, contrariamente a quanto si pensa, perché le cure palliative che cancellano il dolore (insieme al soccorso dell’amore umano) spesso danno ai pazienti molta forza per affrontare il decorso della malattia.

Mi accosto in punta di piedi a questi drammi ben conoscendo la mia personale fragilità di fronte alla malattia e al dolore fisico, davanti al quale – senza l’aiuto del Cielo – mi smarrirei completamente. Quindi propongo queste considerazioni con umiltà, assoluto rispetto e comprensione verso chi pensa diversamente. Rispetto reciproco che talora nella vicenda recente non si è avuto (per inciso, io trovo ammirevole la dignità con cui il signor Englaro ha difeso la figlia dalla spettacolarizzazione del dolore anche rifiutando la proposta di un fotografo di ritrarre il suo volto sofferente).

Torniamo alla legge. Secondo Sofri se uno non può più fare della propria vita ciò che vuole, si configura all’orizzonte il profilo mostruoso dello “Stato etico” che ci obbliga pure a mangiare. C’è di che riflettere. E’ un timore serio. Tuttavia constato che i veri “stati etici” del Novecento (i totalitarismi), hanno sempre legiferato contro la vita umana. E noto che il principio per cui il bene della vita è indisponibile anche a se stessi è da sempre uno dei principi della nostra laica legislazione democratica (non è affatto un’idea clericale che oggi verrebbe “imposta” dalla Chiesa). E’ per questo che lo Stato democratico e repubblicano mi obbliga, per esempio, a mettere le cinture di sicurezza quando salgo in macchina o a indossare il casco se vado in moto o nel caso in cui lavori come muratore in un cantiere. Cioè non mi dà la libertà di farmi del male. Chi pensa che ognuno deve poter disporre della sua vita a piacimento, doveva insorgere anche per queste norme che invece ha condiviso.

Si dirà che lo Stato impone tali norme di sicurezza per risparmiare sull’eventuale costo di cure mediche e assistenza. Ma la risposta non convince e appare francamente meschina. Anzitutto perché il principio di libertà, se è affermato come assoluto, prevale sull’obiettivo di limitazione della spesa (altrimenti, per la stessa ragione economica, si potrebbero abolire le elezioni e pure il Parlamento), in secondo luogo perché spesso con incidenti di auto o sul lavoro si provoca la propria morte (quindi non c’è problema di assistenza), in terzo luogo perché in tante regioni ben poche sono le spese di assistenza che si accolla l’ente pubblico, in quarto luogo se quella economica fosse stata la ragione di tali norme, si sarebbe potuto, più fondatamente, riconoscere il diritto alle cure pagate dal sistema pubblico solo laddove si sono osservate le regole di sicurezza. Ma invece la legge qua impone “sic et simpliciter” l’obbligo della cintura e del casco, cioè ci impone di proteggere la nostra vita. Se ne deduce che per la nostra laica legislazione la vita umana è indisponibile anche a se stessi, tanto è vero che un cittadino che riesce a scongiurare un suicidio, che io sappia, non viene incriminato per violenza privata. Ma anzi è ritenuto un benemerito.

Non solo. Lo Stato impone varie altre cose – come l’istruzione obbligatoria dei nostri figli – che di per sé rappresentano un costo per la comunità. Così si tutela il nostro bene anche contro la nostra volontà. Sarà discutibile quanto volete, ma questa è la filosofia del nostro sistema costituzionale e repubblicano. Al punto che l’Italia – su idea dei Radicali - si è fatta promotrice della moratoria internazionale per la pena di morte, in base al principio dell’intangibilità assoluta della vita umana (anche la vita dei criminali), e non mi risulta sia stata prevista l’eccezione in cui un condannato – per desiderio di espiazione – chieda lui stesso di subire la condanna a morte. Vi parrà una fattispecie astratta, inesistente nella pratica (se non nei romanzi di Dostoevskij), ma, fino a prova contraria, si può ritenere astratto pure il rifiuto lucido e consapevole di alimentazione e idratazione.

Tutto questo fa pensare che il principio dell’indisponibilità assoluta della vita umana sia un principio laico, della nostra legislazione, non della Chiesa. Chè, anzi, nella dottrina cattolica la vita biologica non è affatto un bene assoluto. La salute dell’anima è più importante della salute fisica, tanto quanto la vita eterna vale più della vita terrena. Infatti la Bibbia proclama: “La Tua Grazia vale più della vita” (Salmo 62). Non a caso padre Kolbe ha donato la sua stessa vita per amore di Dio e del prossimo e così è stato fatto santo e ha conquistato la vita eterna. Non a caso Gesù ci mette in guardia dall’assolutizzare i beni terreni con queste parole: “chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà. Che giova infatti al’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8,35-36). La Chiesa in questi anni ha accentuato il richiamo al rispetto della vita umana, come bene sacro e inviolabile, per le tragedie storiche che nel Novecento hanno portato a una tremenda sua svalorizzazione. La Chiesa così si oppone alle ideologie.

Ma il cardine dell’annuncio cristiano – che forse a volte viene dimenticato – è anzitutto (e deve essere sempre) la salvezza dell’anima e la vita eterna. Il male assoluto, per la Chiesa, è il rifiuto di Cristo (il peccato), non la morte fisica. E il bene supremo non è la vita terrena, ma la salvezza dell’anima e la conseguente risurrezione del corpo che finalmente non sarà più sottoposto alla malattia, al dolore e alla morte. Allora “la carezza del Nazareno” – come dice l’Apocalisse – “tergerà ogni lacrima dai nostri occhi” e avremo l’eterna giovinezza e una felicità inimmaginabile, che non passa.

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