SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Laicità in pericolo. Due cardinali accorrono in sua difesa.
Laicità e laicismo. Laicità e bene comune.

di Sandro Magister -http://chiesa.espresso.repubblica.it

Ecco come vedono il ruolo della Chiesa nella sfera pubblica: se essa tacesse, ad esempio, sulla vita e la morte, "non contribuirebbe al bene di tutti". In appendice, una disputa tra i professori Galli della Loggia e Pietro De Marco

Card.Ruini

ROMA, 23 febbraio 2009 – Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla "laicità", ossia sull'azione dei cristiani nella società civile. Due fatti accomunati da un'identica questione, riguardante la vita umana "dal concepimento alla morte naturale". Il primo di questi fatti è apparentemente minore. Mercoledì 18 febbraio, al termine dell'udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi , speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l'azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà.

Ma al termine dell'incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt'altro tenore: "Il papa ha colto l'occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento".

Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto. E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di "invadenza" del campo politico che tanti difensori della "laicità" lanciano contro la Chiesa.

Il secondo fatto è di dimensioni più ampie. Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio. Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c'è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico. La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla "laicità". Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali. Ma non solo. La polemica ha diviso anche il campo cattolico.

Per alcuni, il parlare e l'agire in difesa della vita di Eluana erano "indegni dello stile cristiano", uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno. La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano "La Stampa" di domenica 15 febbraio: Vivere e morire secondo il Vangelo
Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi. È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di "indegnità".

Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su "Avvenire" del 20 febbraio. Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della "laicità" a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica. E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007. Qui di seguito sono riprodotti, integrali, entrambi gli interventi: l'editoriale del cardinale Scola su "Avvenire" del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio. Sulla questione della "laicità" – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger. In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici. A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito. Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così. Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul "Corriere della Sera" del 15 febbraio. E De Marco gli ha replicato qui [ http://chiesa.espresso.repubblica.it ] e sul giornale on line "l'Occidentale".

1. Cattolici, laici e società civile

di Angelo Scola

"L'Occidente deve decidersi a capire quale peso ha la fede nella vita pubblica dei suoi cittadini, non può rimuovere il problema". Queste parole fulminanti, espresse da un vescovo mediorientale ad Amman durante il comitato scientifico internazionale della rivista "Oasis", mi sono tornate alla mente in questi giorni, nei quali si è acceso sui media un vivo dibattito circa l'azione dei cristiani nella società civile, il dialogo tra laici e cattolici – che secondo qualcuno sarebbe addirittura giunto al capolinea –, la presunta sconfitta del cristianesimo e l'ingerenza degli uomini di Chiesa nelle vicende pubbliche. In una parola, circa lo stile con cui i cattolici dovrebbero intervenire o meno sui delicati temi della vita comune, quali quelli della bioetica. Mi sembra che spesso si perda di vista il cuore della questione: ogni fede va sempre soggetta a un'interpretazione culturale pubblica. È un dato inevitabile. Da una parte perché, come scrisse Giovanni Paolo II, "una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta". Dall'altra, essendo la fede – quella giudaica e quella cristiana – frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell'amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell'azione civica. Perciò è essa stessa inevitabilmente investita da diverse letture culturali, che possono entrare in conflitto tra di loro. In questa fase di "post-secolarismo", nella società italiana si confrontano, in particolare, due interpretazioni culturali del cristianesimo. A me sembrano entrambe riduttive.

La prima è quella che tratta il cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per la nostra democrazia e per le democrazie europee in grave affanno. Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza.
L'altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il cristianesimo all'annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di "ogni altro". Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall'autentico messaggio di misericordia di Cristo. Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche.
Un simile atteggiamento produce una dispersione, una diaspora dei cristiani nella società e finisce per nascondere la rilevanza umana della fede in quanto tale. Al punto che di fronte ai drammi anche pubblici della vita si giunge a domandare un silenzio che rischia di svuotare il senso dell'appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi degli altri.

Nessuna di queste due interpretazioni culturali, secondo me, riesce ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell'incontro con l'avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale.

A me sembra più rispettosa della natura dell'uomo e del suo essere in relazione un'altra interpretazione culturale. Essa corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla diaspora e dal nascondimento. Propone l'avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza – irriducibile ad ogni umano schieramento –, ne mostra il cuore che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo. In che modo? Attraverso l'annuncio, ad opera del soggetto ecclesiale, di tutti i misteri della fede nella loro integralità, sapientemente compendiati nel catechismo della Chiesa. Giungendo però ad esplicitare tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano. Essi si intrecciano con le vicende umane di ogni tempo, mostrando la bellezza e la fecondità della fede per la vita di tutti i giorni. Solo un esempio: se credo che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, avrò una certa concezione della nascita e della morte, del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio e della famiglia. Concezione che inevitabilmente incontra e chiede di confrontarsi con l'esperienza di tutti gli uomini, anche dei non credenti. Qualunque sia il loro modo di concepire questi dati elementari dell'esistenza.

Rispettando lo specifico compito dei fedeli laici in campo politico, è tuttavia evidente che se ogni fedele, dal papa all'ultimo dei battezzati, non mettesse in comune le risposte che ritiene valide alle domande che quotidianamente agitano il cuore dell'uomo, cioè se non testimoniasse le implicazioni pratiche della propria fede, toglierebbe qualcosa agli altri. Sottrarrebbe un positivo, non contribuirebbe al bene civile di edificare la vita buona. Oggi poi, in una società plurale e perciò tendenzialmente molto conflittuale, questo paragone deve essere a 360 gradi e con tutti, nessuno escluso. In un simile confronto, che porta i cristiani, papa e vescovi compresi, a dialogare umilmente ma tenacemente con tutti, si vede che l'azione ecclesiale non ha come scopo l'egemonia, non punta a usare l'ideale della fede in vista di un potere. Il suo vero scopo, a imitazione del suo Fondatore, è offrire a tutti la consolante speranza nella vita eterna. Una speranza che, già godibile nel "centuplo quaggiù", aiuta ad affrontare i problemi cruciali che rendono affascinante e drammatico il quotidiano di tutti. Solo attraverso questo instancabile racconto, teso al riconoscimento reciproco, rispettoso delle procedure pattuite in uno stato di diritto, si può mettere a frutto quel grande valore pratico che scaturisce dal fatto di vivere insieme.

2. Laicità e bene comune

di Camillo Ruini

Riflettere sulla laicità in rapporto al bene comune mi sembra un approccio fondamentale, e assai stimolante, in ordine alla comprensione e all'apprezzamento della laicità, in particolare per il discernimento e la valutazione dei vari e molto diversi significati che il concetto di laicità ha ormai assunto. A questo scopo, però, dobbiamo anzitutto avere un'idea il più possibile chiara e determinata del significato dell'espressione "bene comune", alla luce della quale cercheremo di renderci conto dei fondamenti e delle funzioni della laicità. Come è noto, "bene comune" è un concetto tipico – anche se non esclusivo – del pensiero sociale cattolico. Sembra giusto pertanto riferirsi al significato che gli viene attribuito in questo contesto. Il "Compendio della dottrina sociale della Chiesa", pubblicato nel 2004 dal pontificio consiglio della giustizia e della pace, considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa derivare "dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone". Esso indica anzitutto "l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente".

In concreto il bene comune è "bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo", dato che "la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere 'con' e 'per' gli altri". Il bene comune, pertanto, "non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro".

Pur essendo così fondato nella natura e dignità del nostro essere, il bene comune ha una sua evidente storicità: infatti "le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali" ("Compendio", nn. 164-166). Non è possibile, e forse non sarebbe nemmeno utile ai nostri fini, disporre di una determinazione altrettanto chiara e organica del concetto di laicità. È indispensabile però una precisazione iniziale: in questo contesto parliamo di "laicità" non nel senso teologico ed ecclesiale, per il quale, come dice il Concilio Vaticano II nella "Lumen gentium" (n. 31), "Col nome di laici si intendono... tutti i fedeli a esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso..., i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati in Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio... per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano". Dei laici così intesi è proprio e peculiare "il carattere secolare", nel senso che "per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio".

Questo carattere secolare e il rapporto con le realtà temporali costituiscono in qualche modo il ponte che consente un collegamento e un passaggio all'altro grande significato dei termini "laici" e "laicità", che è quello a cui ci riferiremo d'ora in poi. Qui laico e laicità sono infatti concetti che indicano e implicano un'autonomia e una distinzione da ciò che è ecclesiastico e che fa capo alla Chiesa, e più ampiamente al cristianesimo e ad ogni religione. Per la genesi di questo concetto resta fondamentale il grande studio di G. de Lagarde "La naissance de l'esprit laïque, au déclin du moyen âge". Indicativo della pluralità e anche del contrasto delle interpretazioni che vengono date oggi di tale concetto è il modo in cui Giovanni Fornero, nella terza edizione da lui stesso curata del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano, tratta la voce "Laicismo", che nel linguaggio comune sta ad indicare una versione dura, polemica ed "esclusiva" della laicità. Per Fornero con "laicismo" si intende "il principio dell'autonomia delle attività umane, cioè l'esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall'esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui esse si ispirano".

Ma questa autonomia è affermata, in termini formalmente assai simili, dal Concilio Vaticano II ("Gaudium et spes", n. 36), che afferma: "Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e la stessa società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di un'esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte".

È anche assai interessante che Fornero riconduca l'origine del concetto di laicismo a papa Gelasio I il quale, alla fine del V secolo, formula con chiarezza il principio della distinzione dei due poteri del papa e dell'imperatore e su queste basi rivendica l'autonomia della sfera religiosa da quella politica. In termini simili si esprime l'allora cardinale Joseph Ratzinger, nel libro "Senza radici" (pp. 51-52), che individua qui anche la matrice di una profonda differenza tra cristianesimo d'Occidente e d'Oriente, tra cattolicesimo e ortodossia, nella quale invece l'imperatore era capo anche della Chiesa e questa appariva quasi identificata con l'impero.

Ma questa convergenza, o consenso, sul principio della laicità non può nascondere le divergenze che si sono formate nella storia e che oggi emergono sempre di nuovo. Il tornante decisivo è quel "nuovo scisma" – per usare le parole del cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp. 56-57) – che si è verificato soprattutto in Francia tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX e che tuttora è tipico soprattutto dei paesi latini di matrice cattolica. È qui che la rivendicazione della ragione e della libertà affermatasi con l'illuminismo assume un volto decisamente ostile alla Chiesa e, non di rado, chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente.

Il "nuovo scisma" è pertanto tra cattolici e "laici", dove la parola "laico" assume un significato di opposizione alla religione che prima non aveva. È interessante notare che uno scisma analogo non si è verificato nel mondo protestante, perché il protestantesimo, che fin dall'inizio ha concepito se stesso come un movimento di liberazione e purificazione dai vincoli dell'autorità ecclesiastica, ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l'illuminismo, con il rischio però – e a volte non soltanto il rischio – di svuotare dall'interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico.

Il terreno più immediatamente sensibile – anche se a mio parere non il più profondo – delle tensioni tra cristianesimo e illuminismo è stato quello dei rapporti tra Chiesa e Stato. E qui si è sviluppata una seconda e importantissima divaricazione, anzitutto all'interno del mondo protestante. Mentre in Europa le Chiese nate dalla Riforma si sono costituite come Chiese di Stato, in una maniera assai più pregnante di quel che è avvenuto nel cattolicesimo, dove le Chiese di Stato hanno sempre dovuto fare i conti con l'unità e l'universalità transnazionale della Chiesa cattolica, del tutto diversa è la vicenda degli Stati Uniti d'America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti. In questo senso si può dire che alla base della società americana c'è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero.

Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da papa Gelasio I. Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente "ostile" alla religione e tendente a subordinare le Chiese allo Stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito. Per conseguenza, tutto il sistema dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale. In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, nonostante le resistenze di quell'ideologia che voleva riservare la piena titolarità "nordamericana" soltanto ai protestanti. In concreto i cattolici hanno riconosciuto ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l'importanza della libertà religiosa così garantita.

Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto, ma come affermazione di un diritto, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana. Non per caso la dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa, che afferma chiaramente tale diritto – evitando però di fondarlo su di un approccio relativistico che metta in forse la verità del cristianesimo –, è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani. Il Vaticano II non si è limitato a togliere di mezzo l'ostacolo riguardante la libertà religiosa, ma ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo a cui ho accennato in precedenza. Esso infatti ha posto le basi di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità e della riscoperta della profonda corrispondenza che esiste tra cristianesimo e illuminismo.

In concreto, il Concilio ha fatto propria la "svolta antropologica" che fin dall'inizio dell'età moderna aveva posto l'uomo al centro: ha mostrato infatti le radici cristiane di questa svolta e l'infondatezza dell'alternativa tra centralità dell'uomo e centralità di Dio. Analogamente ha affermato, come si è visto, la legittima autonomia delle realtà terrene, i diritti e le libertà degli uomini e dei popoli, riconoscendo al contempo la validità del grande sforzo che l'umanità sta compiendo per trasformare il mondo. Con il Vaticano II, pertanto, è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle. Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno "sensibile" dei rapporti tra Chiesa e Stato. Con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno, infatti, la giustificazione di principio di una "religione di Stato", che aveva costituito l'ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni. Anche la differenza tra regimi "concordatari" e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati – come mostra esemplarmente l'accordo di revisione del Concordato stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984 – si pongono ormai espressamente al di fuori di un'ottica di religione di Stato. Si legge infatti nel protocollo addizionale di tale accordo, in relazione all'articolo 1: "Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano".

Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità. A ben vedere, tuttavia, l'oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni. A questo riguardo infatti la distinzione e l'autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l'apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell'altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.

Oggetto di quest'ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili. Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell'uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l'uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell'evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all'universo fisico.

Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica. In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell'Occidente: quando cioè sembrava fuori dall'orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno della Chiesa italiana a Loreto, nell'ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire "il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell'uomo e per il bene dell'Italia, nel pieno rispetto, anzi, nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica". Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di "operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi – anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata – un ruolo-guida e un'efficacia trainante nel cammino verso il futuro".

Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d'altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo. Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l'uomo sia integralmente riconducibile all'universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo.

Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato "la dittatura del relativismo", una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell'umanità. Proprio questo taglio radicale è però lontano dall'essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare "il mondo laico". Anzi, molti "laici" ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo. L'allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri "dev'essere relativizzata" ("Senza radici", pp. 111-112). In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recente pubblicazione del libro di quest'ultimo "Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica", Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo. Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato "una proposta ai laici": sostituire la formula di Ugo Grozio "etsi Deus non daretur" – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, "veluti si Deus daretur" – come se Dio esistesse –.

Anche chi non riesce a trovare la via dell'accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: "Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno" (J. Ratzinger, "L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture", pp. 60-63).

È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l'apertura cordiale a questo genere di laici. Non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici. Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell'etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall'emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.

L'analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune. Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall'autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell'Europa moderna a partire dalle guerre di religione. Ernst-Wolfgang Böckenförde, nel suo classico saggio su "La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione", è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l'indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti. Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell'intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo, oltre che a quel "senso religioso" nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza. Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente. Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su "Fede e democrazia" pubblicato sulla rivista "Aspenia" nel 2008 (pp. 206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all'uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all'origine delle predette interpretazioni della laicità. È l'uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.

In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall'inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non "come" vivere, ma "perché" vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.

Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita "sana" e "positiva", che congiunga all'autonomia delle attività umane e all'indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l'apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del "senso religioso" che portiamo dentro di noi. Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l'intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.

Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve

3. Il dovere dei laici: misurarsi col cattolicesimo nella sua integrità

di Pietro De Marco

Improvvisamente, almeno per me (ve ne saranno state avvisaglie, ma mi sono sfuggite), Ernesto Galli della Loggia ha annunciato il tramonto della "stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici”. L'ha fatto sul "Corriere della Sera" di domenica 15 febbraio . Si tratta naturalmente di una prognosi ragionata, su cui vorrei anch’io ragionare.

Galli della Loggia evoca due date: i primi anni Novanta (per comodità, la scomparsa della DC storica) e l’11 settembre 2001, come acceleratore del convergere dialogico. Eventi e soglie storiche che "aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi... riguardanti l’Italia e il mondo”, dalla rivoluzione delle tecnoscienze alle nuove situazioni geopolitiche, tali da far "immaginare una nuova collocazione e una nuova missione politica”, per i cattolici e per quei laici. Una nuova libertà nel rivolgersi ai problemi critici accomunava quei cattolici e laici; per la prima volta nella storia italiana, l’intreccio tra "la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico” vi è stato, e produttivo. Galli della Loggia rileva però, da un lato, stanchezza e ripetitività, dall’altro il sopraggiungere, congiunturale ma potenzialmente distruttivo, di "nuove ostilità” tra le parti. Così appare a lui irraggiungibile, oggi più di ieri, l’obiettivo di "una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso”.

Quello che a Galli della Loggia sembra una seria crisi avrebbe, però, origine interna, il che spiegherebbe la vulnerabilità dell’incontro tra laici e cattolici nella recente congiuntura bioetica (qualcuno dice piuttosto biopolitica). Cos’è avvenuto? A suo giudizio, sul lato cattolico gli interlocutori sono stati, nel laicato, prevalentemente i "giovani intellettuali dei movimenti”, spesso radicali e instabili nel loro contributo al dialogo. Sarebbe prevalsa in effetti una partnership ecclesiastica, gerarchica. Galli della Loggia non fa nomi, ma tutti pensiamo al ruolo di primo rilievo, in questo "incontro”, del cardinale Camillo Ruini. La prevalente partnership gerarchica avrebbe implicato due effetti negativi per l’incontro: non avrebbe ricevuto "l’apporto di energie vaste e profonde”, fatte salve appunto quelle ecclesiastiche, e lo avrebbe trasformato in un confronto diretto con la Chiesa, etichettabile come politico e tale da suscitare un fuoco di interdizione (che Galli della Loggia giudica "alla fine efficace”) da settori del mondo cattolico e dalle sinistre. Devo proseguire la mia parafrasi, perché possono sfuggire al lettore dei passaggi importanti dell’argomentazione.

Il ruolo preponderante assunto nel dialogo dalla Chiesa come tale, dice Galli della Loggia, in realtà da pochi uomini della gerarchia cattolica, sarebbe sintomo di un "ulteriore fattore negativo”: "l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli ad improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente”. L’autoreferenzialità si manifesterebbe nella troppo variabile e contraddittoria disponibilità della gerarchia ora a colloquiare con i "laici di orientamento liberale”, ora a dare visibilità e voce in convegni e giornali (persino con maggiore convinzione, pensa Galli della Loggia) ai loro aspri critici ed avversari di sinistra, critici ed avversari dei laici liberali proprio per il loro dialogo con la Chiesa! Avversari trasversali, potrei aggiungere, perché ad essi si sommano dei cattolici, e non solo entro il laicato, critici della stessa gerarchia coinvolta nel dialogo. Tale "autoreferenzialità”, indotta dalle condizioni di storica separatezza della Chiesa e del "retroterra sociale che fa capo ad essa” nella società nazionale, avrebbe oggi una evidenza ed un costo proprio nella manifesta impossibilità della stessa Chiesa "di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”. Su questa mancata scelta della Chiesa a favore di un mondo laico (quello liberale, dialogico e favorevole) rispetto ad un altro (ostile e scarsamente dialogico), una mancata scelta che all’editorialista del "Corriere" pare anzitutto espressione di spregiudicatezza politica, il dialogo tra cattolici e laici liberali starebbe naufragando. La diagnosi e la prognosi di Galli della Loggia mi trovano, una volta tanto, in dissenso. Potrei essere d’accordo su dettagli che però, rispetto alla questione centrale, ritengo poco rilevanti, o contingenti. Propongo quindi un mio riesame dei termini, che riguardi, nei seguenti tre punti: il laicato cattolico italiano, la Chiesa come "societas" e nella società, e i laici liberali e la loro precomprensione dell’interlocutore cattolico.

1. IL LAICATO CATTOLICO ITALIANO

Negli anni Novanta, la formula dell’incontro tra laici e cattolici si presentava, concettualmente, ambiziosa e indeterminata. Lo dico avendo seguito la vicenda in riviste, incontri, libri. Se la chiamata non poteva non essere per tutti, forze e uomini in campo erano ben circoscritti. Penso alla terna composta da Ferdinando Adornato, Galli Della Loggia, Giorgio Rumi, e agli interlocutori delle prime annate di "Liberal". Si trattava di alcuni laici liberali e di alcuni cattolici, dunque, prevalentemente uomini di cultura. E quelli che avevano accolto l’iniziativa e frequentato gli spazi di "Liberal" erano singoli cattolici "conservatori” (nel senso di Roger Scruton), non "i cattolici” in senso lato. Galli della Loggia sa bene, ma non dà alla cosa giusto peso nell’articolo, che i cattolici eredi delle antiche sinistre, di quella già democristiana come di quella già del partito comunista (i numerosi cattolici "berlingueriani”), giudicarono gli intellettuali e le tesi di "Liberal", come le personali tesi di Galli della Loggia, marcate a destra, "revisionistiche”, confinanti e presto coincidenti con lo spirito del nuovo centrodestra politico. Il compianto Rumi collaborava a "Liberal" per la sua grande libertà e intelligenza, coraggioso outsider.

In quell’incontro tra laici e cattolici, di fatto tra due minoranze uscite a fatica da maggioranze molto condizionanti, operò una comune geometria di distacchi e di revisioni. Per i cattolici il distacco dall’eredità democristiana, l’emancipazione dalle derive culturali del postconcilio, l’affinità col programma di Giovanni Paolo II; per i laici liberali l’emancipazione da mezzo secolo di Italia repubblicana a metamorfica dominante gramsciana (nel senso di Augusto Del Noce). Ma un dialogo tra queste minoranze, dotate di una insorgente forza critica, poteva ragionevolmente porsi obiettivi di breve periodo? Galli della Loggia attribuisce il "fallimento” dell’incontro al mancato intervento del laicato intellettuale cattolico e alla spregiudicatezza della parte ecclesiastica. Ma chiedo: le attese laico-liberali, ed anche quelle in certo modo cattolico-liberali presenti, erano per parte loro ben registrate sulla complessità cattolica? Devo insistere su un chiarimento (ne ho scritto in www.chiesa dell'11 settembre 2008). Se per "laici cattolici” si intendono i quadri del laicato di Azione Cattolica o simili, non era pensabile, proprio allora, in quegli anni Novanta di mobilitazione per la "difesa della costituzione” e di risorgente dossettismo, trovare in essi dei dialoganti con Galli della Loggia o con Adornato, o con iniziative autonome ma non divergenti, come quelle di Marcello Pera!

In più, e più profondamente, va ricordato che l’incontro del laicato cattolico "qualificato” con la laicità dei tempi moderni, avviato negli anni del Concilio, si era già consumato negli anni Settanta, sotto i traumi e i vincoli del dopo Sessantotto. Sappiamo tutti, e non fu mai nascosto, che per tanti cattolici il riconoscimento dei valori laici ebbe allora i caratteri della scoperta dei "valori moderni" e dell'immersione in essi. Le opzioni prevalenti ed esemplari di quel laicato furono sempre a sinistra, entro, fuori e oltre la DC, prima e dopo della sua scomparsa. Per questo laicato la proposta di "Liberal", l’incontro tra liberali e cattolici erano e appaiono tuttora anacronistici, e segnati per di più dall’incombere di un nuovo "rischio di destra”. Ma il laicato cattolico non è esclusivamente quel laicato "qualificato”, ordinariamente definito da un rapporto di collaborazione unitaria, diretta, organizzata, con i pastori. E non tanto perché vi sono altre forme di pratica cattolica intensa, di comunità, di movimenti. Ma perché, costitutivamente, il laicato cattolico è la totalità dei "christifideles", sia militanti (nel senso di un’attiva disponibilità e mobilitazione) che non militanti.

La maggioranza degli italiani costituisce tuttora il laicato; o, se si preferisce, una costellazione di laicati cattolici "sui generis", composti o meno di "virtuosi” (nel senso weberiano) comunque diversi tra loro, ma portatori di pratica, spiritualità e ethos cattolici. Da questa costellazione, che permea la stratificazione sociale e generazionale, vengono anche gli uomini e donne che sono oggi fulcro del voto di centrodestra. Sono, naturalmente, gli "strani cristiani” deprecati dalle sinistre anticlericali; ma la ricerca sociologica sulla religiosità degli italiani, se non viene messa a servizio della sindrome "minoritaria”, parla diversamente. Per gli "strani cristiani”, un orizzonte di "nuovi compiti per cattolici e laici” (parole di Galli della Loggia) diversi da quelli della stagione democristiana e del dissenso cattolico è, infatti, banco di prova dell’avvenuta emancipazione dal blocco culturale dell’Italia postbellica. Ma, osserverebbe Galli della Loggia, questi laicati cattolici non conformi alla tipologia "catto-comunista”, questi cattolici non "clericali” (nel senso che tale parola ha in Del Noce) e non "progressisti”, come si manifestano? Ai fini del dialogo appaiono a lui assenti.

A ben vedere, no. Direi anzitutto: non sono questo laicato cattolico "sui generis" molti uomini e donne dei quadri politici e intellettuali del centrodestra? Non sono cattolici, e quindi laicato, parte degli uomini e delle donne che operano con "Magna Carta", che scrivono su "il Foglio", sull’attuale "Liberal" e su vari altri periodici oppure scrivono, intervengono, dibattono sui tanti forum on line? Senza contare la morfologia di piccoli gruppi, centri di cultura, associazioni, riviste, bollettini, che confermano l’originalità storica con cui l’ecclesiosfera (bella formula di Émile Poulat) si dispone negli interstizi delle società complesse. Questo mondo è laicato cattolico attivo e permeabile nell’incontro che sta a cuore a Galli della Loggia. Questo differenziato interlocutore, nelle sue varietà estranee alla classica formazione di Azione Cattolica ma spesso anche a quella di altri movimenti o associazioni, è oggi capace di esistere politicamente e di conservare una conformità cattolica fuori dell’unità politica e associativa dei cattolici "qualificati". Ma va saputo riconoscere e legittimare come interlocutore. Ho arrischiato altrove il giudizio che queste culture e generazioni, questi soggetti dell’ecclesiosfera, sono spesso più in sintonia con l’episcopato e con Roma dei laicati "virtuosi” che prestano opera nelle parrocchie, plasmati nei decenni dalla "vague" postconciliare; dei laicati, cioè, che si alimentano alla diuturna lettura di Enzo Bianchi o del cardinale Carlo Maria Martini. Insomma, è una ecclesiosfera (meglio, un vasto sottoinsieme della ecclesiosfera totale) al di là del movimento cattolico.

Ritenere che questo laicato cattolico non abbia consistenza intellettuale, non faccia cultura, non partecipi al dibattito pubblico, è un errore simmetrico a quello dei "cattolici democratici”, anzi, indotto dalla loro diagnosi: secondo la quale ci sarebbe un generale "silenzio del laicato” che in realtà è solo il loro silenzio, conseguenza della loro perdita di autorità e influenza. La stessa gerarchia ecclesiastica non ha sempre il polso di questa complessità cattolica. I dati delle ricerche socioreligiose vengono letti con le lenti di un pastoralismo pessimistico associato a dubbie ecclesiologie microcomunitarie, che considerano il praticante discontinuo e di modesta formazione religiosa qualcosa come un’entità non più cattolica, perduta. Con la conseguenza di indurre i vescovi a muoversi nella direzione di una specie di nichilismo minoritarista. Come non bastasse lo spettacolo delle rovine di quelle grandi Chiese nazionali europee che hanno battuto questa strada. Forse l’incontro tra cattolici e laici liberali può servire anche su questo fronte.

2. LA CHIESA COME "SOCIETAS" E NELLA SOCIETÀ

Se la configurazione del laicato cattolico risulta complicata, un'altra dimensione del ragionamento autorizza ad un giudizio inequivoco. Galli della Loggia ritiene che una secolare autoreferenzialità strategica e tattica renda ancora oggi impossibile alla Chiesa una decisa, univoca, scelta di strategia culturale e politica. Direi di no. Anzitutto, quella che egli chiama autoreferenzialità e che sarebbe in corso "da due secoli” è forse piuttosto la condizione di fatto e di diritto di un corpo ecclesiastico spinto dagli ordinamenti e dalle ideologie moderne verso una condizione formale di marginalità rispetto all’ordinamento statuale, ai suoi poteri e valori, nell’attesa che tale marginalità, dettata unilateralmente da un ordinamento, divenisse un fatto. Questo tentativo della modernità politico-giuridica non ha avuto successo con la Chiesa cattolica, che non solo ha conservato la sua "perfectio" e la sua peculiare giurisdizione sui fedeli, sviluppando contemporaneamente l’alta dottrina dello "ius ecclesiasticum publicum", ma ha nel tempo stesso ridefinito e rafforzato la sua missione universale, "erga omnes". Anche per ragioni sostanziali, dunque, il termine "autoreferenziale” non va.

Se la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli si riconfigura come una vasta forma militante certamente coesa e gerarchica, vigile su quanto avviene al proprio interno, la sua azione resta essenzialmente ordinata "ad extra". La stessa Chiesa militante di Pio XI e Pio XII, le cui fondazioni sono nell’età di Leone XIII e di Pio X, è sotto questo aspetto tutt’altro che rivolta su di sé. Appare molto più autoreferenziale, piuttosto, la Chiesa delle insofferenti autonomie parrocchiali di oggi. La contemporanea condizione ecclesiastica è cosciente di sé, ordinata e ordinante, universalistica. La fine della stagione del partito e del movimento cattolico ha liberato la Chiesa anche dalla pressione proveniente da una sua cultura interna, la quale, negli anni Settanta e oltre, la spingeva a presentarsi illuministicamente come una forza mondiale di progresso e giustizia, magari di rivoluzione: una suggestiva drammatica tentazione alla perdita di sé.

L’uscita dal Novecento ha rafforzato entro l’ecclesiosfera la manifestazione della varietà, quella che insisto a chiamare, con i classici, la "complexio oppositorum" cattolica, che è tutt'altra cosa dal pluralismo istituzionale, che in linea di diritto è incompatibile con la natura della Chiesa. Siamo oggi a mio avviso in una imprevista situazione di nuova cristianità: una cristianità postmilitante (almeno finché non vengano dal moderno sovrano attentati ai princìpi), entro una società complessa ossia ad alta differenziazione sociale. È una tale recuperata "complexio" cattolica sul terreno sociale e politico-religioso che richiede alla gerarchia la riproposizione pubblica diretta e immediata di paradigmi di fede, criteri di giudizio, implicazioni di condotta, a "christifideles" così variamente radicati nella fede cattolica e diversi (o in conflitto) tra di loro nello spazio pubblico.

Le implicazioni di questo modello sul ragionamento di Galli della Loggia mi paiono evidenti. Poiché né lui né io siamo interessati all’aneddotica, non importa veramente chi e in quali contesti particolari abbia oggi promosso il dialogo tra cattolici e laici liberali e domani dato voce ai suoi oppositori, siano questi laici anticlericali oppure provenienti dal laicato cattolico e ideologicamente parenti dei primi (i cattolici, ad esempio, che nella discussione pubblica militano dal lato di Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky). Importa, piuttosto, capire quanto sia incompatibile con la struttura profonda della Chiesa l'obbligo di darsi un'unica "visione strategica” nella sfera pubblica, consistente nel "fare scelte nette e conseguenti", nello "scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”, per usare le parole stesse di Galli della Loggia.

Persino la Chiesa di Pio XII, dotata per vitale necessità di visione strategica unitaria e di nette alleanze, non fu univoca nello scegliere "i propri amici culturali”. Quanto ai recenti, critici, anni Novanta e oltre, Galli della Loggia sa che neppure la grande personalità che ha guidato l’episcopato italiano nella transizione, cioè il cardinale Ruini, ha scelto univocamente. Ha invece aperto innovativamente la riflessione cattolica anche ad "amici culturali” nuovi, quali appunto i laici liberali non legati alle "sociétés de pensée" laiciste e di sinistra. Lo stesso Galli della Loggia e altri sono stati e sono oggi ascoltati con attenzione. Così il lavoro di Giuliano Ferrara è seguito e accolto spesso con ammirazione. Ad alti livelli il dialogo tra Joseph Ratzinger, cardinale poi papa, e Marcello Pera è stato davvero importante. Tutto questo non è senza conseguenze, già avvertibili, nella formazione dell’ethos cattolico. Ce ne danno prova, in negativo, i modi sprezzanti, assieme alla mancata riflessione teorica e storica, con cui i laici liberali aperti al dialogo sono stati trattati dai due fronti d'avanguardia del cattolicesimo della conclusa stagione del secondo Novecento, quello sociale-politico e quello "critico” della milizia postconciliare. Un trattamento di disprezzo che si è mosso in parallelo con l'opposizione al governo del cardinale Ruini, col festeggiamento della presunta "irreversibile fine” della stagione ruiniana della Chiesa italiana, insomma, con la complessiva "damnatio" di quanto ho descritto fino qui.

3. I LAICI LIBERALI E LA LORO PRECOMPRENSIONE DELL'INTERLOCUTORE CATTOLICO

Un ultimo punto, appena un poco "ad hominem". Galli della Loggia perdonerà, conosce la mia stima. Avvezzo com’ero a un sostanziale accordo con lui, mi colpì un suo intervento sul "Corriere della Sera" del 23 marzo del 2000, dal titolo "Il mea culpa dimenticato". L’editoriale si rammaricava di una mancata richiesta di perdono (nella congiuntura giubilare del grande rito del mea culpa, celebrato da Giovanni Paolo II il 12 marzo) per la condanna nel 1907 dei modernisti, e riprendeva con accenti personali un giudizio non nuovo sulle conseguenze di quella condanna: "L’Italia [cui aveva attribuito, qualche riga prima, una 'povertà di vita religiosa e il suo essere storicamente soverchiata dalla gerarchia'] è rimasta un paese privo di una vera cultura religiosa, dove a lungo la coscienza moderna si è fatta un vanto di sottrarsi all’indispensabile dialogo con la voce misteriosa che viene dal fondo dei tempi e che pretende all’eterno”.

Ho trovato sintomatica in Galli della Loggia, nonostante l’esibito realismo storiografico, questa valorizzazione delle potenzialità dei modernismi cattolici e di una "riforma religiosa” (che giudico una ancora inguaribile sindrome dei liberali, laici e cattolici). Conosco l’autorità e l’influenza del modello di Arturo Carlo Jemolo: "riforma religiosa e laicità dello stato”, anche se dubito sia pertinente invocarlo oggi (di Jemolo l’editrice Morcelliana ha riproposto di recente in un piccolo volume, "Coscienza laica", a cura di Carlo Fantappiè, pagine importanti e poco accessibili). Ma l’incontro con i cattolici non può pretendere la "riforma” della Chiesa: non lo può pretendere di diritto, ovviamente, ma nemmeno di fatto, e questo è per uno storico l’argomento principe. Il dialogo con un cristianesimo riformato è già avvenuto, ed è stato quello del liberalismo con il protestantesimo nelle sue diverse espressioni. Quella vicenda è conclusa, e possiamo giudicarla: le eredità protestanti liberali sono oggi indistinguibili dalle laicità etico-politiche agnostiche; il loro richiamo a Cristo e alla Chiesa è talmente impoverito nei suoi fondamenti cristologici e trinitari (sono una "fides qua" senza "fides quae") da poter essere condiviso da chiunque senza conseguenze che dichiarino la differenza cristiana.

A conclusione del percorso si dovrebbe dire: "reformata reformanda". Quando nei titoli di un giornale laico come "la Repubblica" si vede comparire la formula polemica: "la Chiesa del dogma”, come se il rimando al canone della fede fosse una strana reviviscenza di qualcosa andato in desuetudine, non si può non sorridere. Cosa ha autorizzato questi laici a pensare che la Chiesa cattolica abbia abbandonato il Credo, la tradizione dei Concili, la dottrina dei suoi dottori (intelletti tra i più alti della storia mondiale) e dei suoi spirituali? E credono davvero questi laici che sarebbe stato meglio così? Che ne è dell’Europa protestante e della cattolica che ne segue le tracce, dove i cristiani balbettano solo il credo del politicamente corretto e dei diritti individuali? Galli della Loggia non ha niente a che fare col pensiero di Scalfari e Zagrebelsky, né con la concezione ottocentesca di una Chiesa che nel suo stesso esistere, come istituzione e dottrina, tradirebbe la predicazione di Gesù. Ma nell’elogio delle istanze modernistiche pare non intendere, neppure lui, la necessità cristiana della "Chiesa del dogma”. Infatti, è essenzialmente sul fronte del dogma, della "fides quae", che gli odierni eredi della tentazione modernistica appaiono disorientati e vulnerabili; così come i loro maestri (i Tyrrell, i Loisy) furono decisamente nell’errore. Condannandoli, Pio X fece ciò che doveva, secondo l’imperativo della funzione di Pietro: il "confirma fratres tuos”.

Il dialogo con i cattolici, quindi, non può oggi essere condotto dai laici nell’attesa di trovarsi ancora di fronte cattolici "della riforma”, ennesimi "sempiterni riformatori”, come scriveva tra ironia e irritazione Delio Cantimori, di fronte a questo inguaribile topos storiografico, concomitante con quello ideologico della "riforma mancata”. Non perché dei "sempiterni riformatori” in campo cattolico non ve ne siano; hanno anzi influenzato la cultura ecclesiale per decenni. Ma proprio perché cattolici di questo tipo non hanno alcun interesse a dialogare con dei laici liberali. Sono loro i primi ad essere ostili, come lo è sempre stata la cultura laica di sinistra, a ciò che Galli della Loggia va proponendo da decenni.

Più a fondo, se vuole dialogare, la modernità liberale deve darsi il compito nuovo, cui si è sottratta negli ultimi due secoli, di misurarsi sul cattolicesimo nella sua ingtegrità, che è anche la compiutezza del canone occidentale; non sulle sue semplificazioni modernizzanti. Deve misurarsi su di un cristianesimo che è Tradizione e "confessio fidei" pubblica, con un patrimonio di fede determinato e fondante, non "liquido”, e con una gerarchia che presiede alla trasmissione e interpretazione autentica. Deve misurarsi su enunciati di fede che sono enunciati di realtà, congeniali al "Logos" e non bei simboli e buoni sentimenti.

È naturalmente un impegno che si può desiderar di evitare, poiché esige un riesame critico della struttura profonda del paradigma liberale moderno. Ma è l’unico impegno utile, e credo vitale, per il liberalismo presente e per il suo futuro. Tutto il resto è già stato sperimentato, e nei laici delle correnti radicali ha come pietrificato obiettivi e convincimenti irreversibili. La strada di Galli della Loggia e di altri è aperta e promettente, per tutti. Ma dobbiamo tornare, nell’incontro tra laici e cattolici, sulla frattura moderna più insidiosa, che individuo nella "Lettera sulla tolleranza" di Locke. Là dove si affianca, e di fatto si condiziona, la neutralità del magistrato al carattere congregazionale ("a free and voluntary society”) di una Chiesa e alla sua "innocuità” sociale, di cui il magistrato civile sarebbe giudice. La Chiesa cattolica non è questo per essenza, né è riducibile a questo; né come mistero dell’incorporazione in Cristo (il dono trinitario della "historia salutis" non dipende davvero dalla nostra "libera volontà”), né come istituzione conforme alla sua originaria chiamata universalistica. Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l'Occidente, non lo è divenuta dopo Lutero o dopo Locke, né dopo la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento. Non lo è oggi, con un’evidenza tanto più forte quanto più alcuni sviluppi postconciliari volgerebbero, senza il saldo governo di Roma, verso "autonomie” congregazionalistiche e privatistiche.

Attenzione, dunque, al paradosso per cui i cattolici che dispiacciono a Galli della Loggia sono per l’appunto i cattolici più ratzingeriani e sono ad un tempo quelli che già hanno dialogato con i liberali. Altri cattolici, i più "laici” ad esempio sul fronte della legislazione in materie bioetiche, non hanno interesse al dialogo da lui proposto. Non si tratta del "fallimento” del dialogo; si tratta di capire che i cattolici con cui dialogare non possono essere dei neomodernisti; né si può accettare che la norma del credere sia un "bonum" sociale definito da altri (che è il significato autentico della "religione civile” di Locke e Rousseau).

Si tratta di capire, anche, che un certo attraente neomodernismo cristiano odierno non è liberale ma "laico” alla maniera delle grandi firme di "la Repubblica" e sostanzialmente invisibile nella sfera pubblica. La "ratio" di un dialogo con esso è già risolta, dissolta. È preferibile attraversare francamente il terreno indicato dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, anche in questi giorni.

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