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Il principio "speranza" di Benedetto l'Africano

di Sandro Magister http://chiesa.espresso.repubblica.it

L'offerta del papa al continente più povero del mondo: non oro né argento, ma "la parola di Cristo che guarisce, libera e riconcilia". Le ragioni della scommessa, nel discorso chiave del suo viaggio in Benin 


ROMA, 21 novembre 2011 – Come da pronostico, il momento saliente del viaggio di Benedetto XVI in Benin è stato il suo discorso nel palazzo presidenziale di Cotonou, davanti alle autorità politiche, a esponenti della società civile e della cultura, a vescovi e a rappresentanti di varie religioni.
Il discorso, chiaramente pensato e scritto quasi per intero personalmente dal papa, ha una parola chiave: "speranza". E tale parola egli l'ha applicata a due realtà: la vita sociopolitica ed economica del continente africano, e il dialogo interreligioso.

La parola "speranza" è carissima a papa Joseph Ratzinger. Ad essa ha dedicato un'intera enciclica, la "Spe salvi", la più "sua" delle tre finora pubblicate, scritta di suo pugno dalla prima parola all'ultima.
Ed è in particolare all'Africa che il papa associa tale parola: al continente che ha visto nell'ultimo secolo la più stupefacente espansione del cristianesimo, e che più potrebbe determinarne il futuro.

Ma di quale speranza parla Benedetto XVI? La sua risposta, nel discorso di Cotonou, è di inaudita semplicità:

"Parlare della speranza significa parlare del futuro, e dunque di Dio!".

È una semplicità da cui papa Ratzinger non si discosta neppure quando si riferisce alla vita sociopolitica ed economica dell'Africa:

"La Chiesa non offre alcuna soluzione tecnica e non impone alcuna soluzione politica".

Semplicemente

"accompagna lo Stato nella sua missione; vuole essere come l’anima di questo corpo indicando infaticabilmente l’essenziale: Dio e l’uomo. Essa desidera compiere, apertamente e senza paura, questo immenso compito di colei che educa e cura, e soprattutto che prega continuamente, che indica dove è Dio e dov’è il vero uomo".

Nell'esortare la Chiesa a questi suoi compiti propri, il papa ha rimandato a quattro passaggi del Vangelo, l'ultimo dei quali (Giovanni 19, 5) è quello in cui Pilato presenta alla folla Gesù coronato di spine e col mantello di porpora, dicendo: "Ecco l'uomo!".

Il giorno dopo, 20 novembre, era la domenica di Cristo Re, l'ultima dell'anno liturgico. E Benedetto XVI nell'omelia ha di nuovo affermato che questo, e non altro, è il "regnare" di Dio: dal legno della croce. Un regno che

"è veramente una parola di speranza, poiché il Re dell’universo s’è fatto vicinissimo a noi, servo dei più piccoli e dei più umili", per introdurci, lui risorto, "in un mondo nuovo, un mondo di libertà e di felicità".

Venendo al dialogo interreligioso, anche qui Benedetto XVI ha fondato la speranza insita in tale dialogo sull'assoluta centralità di Dio. Se si dialoga, ha detto, non dev'essere

"per debolezza, ma perché crediamo in Dio creatore e padre di tutti gli uomini. Dialogare è un modo supplementare di amare Dio ed il prossimo nell’amore della verità. Avere speranza non significa essere ingenui, ma compiere un atto di fede in Dio, Signore del tempo, Signore anche del nostro futuro".

Il papa si è riallacciato a quanto da lui voluto ad Assisi lo scorso 27 ottobre:

"La conoscenza, l’approfondimento e la pratica della propria religione sono essenziali al vero dialogo interreligioso. Questo non può cominciare che con la preghiera personale e sincera di colui che desidera dialogare. Che egli si ritiri nel segreto della sua camera interiore (cfr. Mt 6, 6) per domandare a Dio la purificazione del ragionamento e la benedizione per il desiderato incontro. Questa preghiera chiede anche a Dio il dono di vedere nell’altro un fratello da amare, e nella tradizione che egli vive un riflesso della verità che illumina tutti gli uomini. Conviene dunque che ognuno si ponga in verità davanti a Dio e davanti all’altro. Questa verità non esclude, e non è una confusione. Il dialogo interreligioso mal compreso porta alla confusione o al sincretismo. Non è questo il dialogo che si cerca". 

Nel concludere il discorso, il papa ha prima applicato alla speranza l'immagine della mano:

"La compongono cinque dita, diverse tra loro. Ognuna di esse però è essenziale e la loro unità forma la mano. La buona intesa tra le culture, la considerazione non accondiscendente delle une per le altre e il rispetto dei diritti di ciascuno sono un dovere vitale. Occorre insegnarlo a tutti i fedeli delle diverse religioni. L’odio è una sconfitta, l’indifferenza un vicolo cieco, e il dialogo un’apertura! Non è questo un buon terreno in cui saranno seminati dei semi di speranza? Tendere la mano significa sperare per arrivare, in un secondo tempo, ad amare. Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo. Essa può fare fiorire la speranza, soprattutto quando l’intelligenza balbetta e il cuore inciampa".

E infine si è poggiato su tre simboli di speranza delle Scritture:

"Secondo le Sacre Scritture, tre simboli descrivono la speranza per il cristiano: l’elmo (cfr. 1 Tesssalonicesi 5, 8), perché protegge dallo scoraggiamento, l’ancora sicura e salda che fissa in Dio (cfr. Ebrei 6, 19) e la lampada che permette di attendere l’aurora di un nuovo giorno (cfr. Luca 12, 35-36). Avere paura, dubitare e temere, porsi nel presente senza Dio, o non avere nulla da attendere, sono atteggiamenti estranei alla fede cristiana e, credo, ad ogni altra credenza in Dio. La fede vive il presente, ma attende i beni futuri. Dio è nel nostro presente, ma è anche nel futuro, 'luogo' della speranza. La dilatazione del cuore è non soltanto la speranza in Dio, ma anche l’apertura alla cura delle realtà corporali e temporali per glorificare Dio. Seguendo Pietro, di cui sono il successore, auguro che la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio. E’ questo l’augurio che formulo per l’Africa intera, che mi è tanto cara! Abbi fiducia, Africa, ed alzati! Il Signore ti chiama".

È la stessa logica che si ritrova nell'esortazione apostolica postsinodale "Africæ munus" che Benedetto XVI ha consegnato ai cattolici africani il 20 novembre. Ai paragrafi 148-149, dopo aver richiamato l'episodio evangelico del paralitico alla piscina di Betzatà (Giovanni 5, 3-9), il papa scrive: 

"L’accoglienza di Gesù offre all’Africa una guarigione più efficace e più profonda di tutte le altre. Come l’apostolo Pietro ha dichiarato negli Atti degli Apostoli (3, 6), ripeto che non è né d’oro, né d’argento che l’Africa ha bisogno innanzitutto. Essa desidera mettersi in piedi come l’uomo della piscina di Betzatà; desidera aver fiducia in se stessa, nella sua dignità di popolo amato dal suo Dio. È dunque questo incontro con Gesù che la Chiesa deve offrire ai cuori lacerati e feriti, desiderosi ardentemente di riconciliazione e di pace, assetati di giustizia. Dobbiamo offrire e annunciare la Parola di Cristo che guarisce, libera e riconcilia"
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