SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
«Gesù di Nazaret. Seconda parte» di Benedetto XVI

di Massimo Introvigne cesnur.it

Cristo, re del mondo e re della storia.

Esegesi storico-critica ed esegesi della fede

Quattro anni dopo il primo volume (Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007), Joseph Ratzinger - Benedetto XVI completa – ancorché prometta ancora un piccolo testo sull’infanzia di Gesù – la sua grande opera su Gesù Cristo con Gesù di Nazaret. Seconda Parte. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011: a questo testo rimandano tutti i successivi riferimenti tra parentesi). Come aveva chiarito nel primo volume, non si tratta di un atto magisteriale, ancorché molti temi trovino puntuali consonanze in testi del Magistero del regnante Pontefice.
La consonanza riguarda, anzitutto, il metodo con cui l’illustre autore si accosta alla Scrittura. «Una cosa – scrive in un brano della Premessa (pp. 5-10), non breve ma che vale la pena di citare integralmente perché definisce metodologicamente tutta l’opera – mi sembra ovvia: in 200 anni di lavoro esegetico, l’interpretazione storico-critica ha ormai dato ciò che di essenziale aveva da dare. Se l’esegesi biblica scientifica non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l’ermeneutica positivistica da cui essa prende le mosse non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un’ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo e può congiungersi con un’ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un’interezza metodologica. Naturalmente, questa congiunzione di due generi di ermeneutica molto differenti tra loro è un compito da realizzare sempre di nuovo. Ma tale congiunzione è possibile, e attraverso di essa le grandi intuizioni dell’esegesi patristica potranno in un contesto nuovo tornare a portar frutto […]. Non pretendo di asserire che nel mio libro questa congiunzione delle due ermeneutiche sia ormai cosa compiuta fino in fondo. Spero però di aver già fatto un buon passo in tale direzione. In ultima analisi si tratta di riprendere finalmente i principi metodologici per l’esegesi formulati dal Concilio Vaticano II (in Dei Verbum 12) – un compito finora purtroppo quasi per nulla affrontato» (pp. 6-7). 
Benché il libro sia stato completato prima dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, del 30 settembre 2010, il brano che ho appena citato sia riassume il tema centrale di tale documento di Benedetto XVI sia annuncia che il testo si propone di farne puntuale applicazione. La Verbum Domini è, in larga parte, una spiegazione e un’interpretazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II, e in particolare proprio del suo numero 12, richiamato anche in Gesù di Nazaret. Seconda Parte. L’esortazione, interpretando il documento conciliare, chiarisce che l’esegesi storico-critica può dare contributi validi purché non pretenda di essere l’unica o l’ultima chiave di lettura del testo biblico, che va sempre letto nel contesto della fede della Chiesa la cui definizione spetta al Magistero. LaVerbum Domini afferma precisamente che – se si rispettano queste premesse – congiungere un’ermeneutica «scientifica» e una «della fede» è possibile, e corrisponde sia allo spirito dell’impresa già avviata dai Padri della Chiesa sia alle vere intenzioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, purtroppo «quasi per nulla» rispettate nella crisi postconciliare. Qui – in quello che, ripetiamolo, non è un documento del Magistero – il Papa ribadisce la stessa prospettiva, ma insieme fa qualcosa di più: mostra come in concreto è possibile la «congiunzione delle due ermeneutiche» a proposito di aspetti centrali per la nostra fede della vicenda di Gesù Cristo.
Riassumere tutti i temi di questo ricchissimo volume è impossibile. Mi limiterò dunque, seguendo l’ordine dei capitoli, a segnalarne alcuni tra i principali.

L’ingresso in Gerusalemme

Il primo capitolo dell’opera (pp. 11-34) presenta l’ingresso di Gesù in Gerusalemme e la purificazione del tempio con la cacciata dei mercanti. Emerge già qui il tema centrale del libro: Cristo è re, e la sua regalità – che ha anche una dimensione sociale – non è stata capita dai suoi contemporanei e talora non è compresa neppure da noi. Gesù «entra in città su un asino preso in prestito, che subito dopo farà riportare al suo padrone» (p. 13). La scelta dell’asino sottolinea l’umiltà di Gesù, ma insieme il Signore «rivendica il diritto regale della requisizione di mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l’antichità» (ibid.). «Anche il fatto che si tratti di un animale, sul quale non è ancora salito nessuno, rimanda a un diritto regale» (ibid.). Pubblicamente, «Gesù rivendica, di fatto, un diritto regale» (p. 15).
La cacciata dei mercanti dal tempio sarà imputata a Gesù nel processo, e sarà decisiva per la sua condanna, anche se secondo Benedetto XVI «è giusta la tesi, motivata minuziosamente soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del tempio» (p. 23). Contro la falsa interpretazione delle «teologie della rivoluzione» (p. 25), il Papa sottolinea che Gesù «non viene con la spada del rivoluzionario» (p. 34) né viola la legge. Ma Gesù sarà condannato non per le sue azioni nel tempio ma per la giustificazione che ne dà, dove rivendica una regalità messianica, per quanto si tratti di una regalità che non fa appello alla violenza ma alla verità e alla giustizia. Si tratta di un aspetto della regalità di Gesù che è opportuno richiamare oggi, quando «i risultati terribili di una violenza motivata religiosamente stanno in modo troppo drastico davanti agli occhi di tutti noi. La violenza non instaura il regno di Dio, il regno dell’umanesimo. È, al contrario, uno strumento preferito dall’anticristo – per quanto possa essere motivata in chiave religioso-idealistica. Non serve all’umanesimo, bensì alla disumanità» (ibid.). 
Nello stesso tempo, il fatto che Gesù s’interessi, cacciandone i mercanti, di quel «cortile dei gentili» che era riservato ai non ebrei interessati a conoscere qualcosa delle cerimonie del tempio – un tema che Benedetto XVI ha trattato in modo approfondito nelDiscorso alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi del 21 dicembre 2009 –, e che i Vangeli ci ricordino la presenza in quella sede di Greci, sottolinea il carattere universale della sua regalità. Questa non è limitata ai soli Ebrei, così che s’intende subito che è cosa diversa da quella restaurazione della monarchia d’Israele che alcuni attendevano.

Il discorso escatologico

Il secondo capitolo (pp. 35-64) si concentra sul discorso escatologico di Gesù sulla distruzione del tempio, «il testo più difficile in assoluto dei Vangeli» (p. 37). «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta» (Mt 23,37-38). L’avvento di Cristo Re comporta la fine del vecchio sistema religioso incentrato sul tempio: «Dio se ne va. Il tempio non è più il luogo dove Egli ha posto il suo nome. Sarà vuoto; ora è soltanto la “vostra casa”» (p. 36). 
In questo discorso il Pontefice distingue tre temi. Il primo è la profezia della distruzione del tempio nel 70 d.C. Non si tratta solo di un grande eccidio – qualche storico antico parla di un milione di morti, anche se la storiografia moderna ritiene più realisticamente che le vittime siano state circa ottantamila – ma di un fatto teologico. «Per il giudaismo, la cessazione del sacrificio, la distruzione del tempio dovette essere uno shock tremendo. Tempio e sacrificio stanno al centro della Torà. Ora non c’era più nessuna espiazione nel mondo, niente che potesse far da contrappeso al suo crescente inquinamento in conseguenza del male. E ancora: Dio, che su questo tempio aveva posto il suo nome e quindi, in modo misterioso, abitava in esso, ora aveva perso questa sua dimora sulla terra. Dove era l’alleanza? Dove la promessa? Una cosa è chiara: la Bibbia – l’Antico Testamento – doveva essere letta in un modo nuovo» (p. 44). 
Naturalmente, questa lettura nuova prende due strade molto diverse: quella rabbinica, per cui il ruolo del tempio è preso almeno provvisoriamente dalla scrupolosa osservanza della Legge, e quella cristiana, per cui del tempio non c’è più bisogno perché il vero tempio è ormai la persona regale di Gesù Cristo. «La cristianità nascente, molto prima della distruzione materiale del tempio, era convinta che il ruolo di esso nella storia della salvezza era giunto al termine – come Gesù aveva preannunciato con la parola sulla “casa lasciata deserta” e con il discorso sul nuovo tempio» (p. 49).« Gesù stesso ha preso il posto del tempio, è Lui il nuovo tempio» (p. 50).
Il secondo tema del discorso è l’annuncio dei tempi dei pagani, in cui il Vangelo deve arrivare non solo agli Ebrei ma a tutti i popoli. A questo serve il tempo intermedio fra la distruzione del tempio e la fine del mondo. Quanto durerà è oggetto di speculazioni infinite, ai tempi dei primi cristiani come oggi, ma secondo Benedetto XVI «è in fin dei conti secondario» (p. 55). Quello che conta è che «il Vangelo deve essere portato in tutto il mondo e a tutti gli uomini: solo dopo, la storia può raggiungere la sua meta» (p. 58). «Nel frattempo Israele conserva la propria missione. Sta nelle mani di Dio, che al tempo giusto lo salverà “interamente”, quando il numero dei pagani sarà completo» (ibid.).
Il terzo «elemento essenziale del discorso escatologico di Gesù è l’avvertimento contro gli pseudo messia e contro le fantasticherie apocalittiche» (p. 60). Il discorso della fine si concentra in Gesù: «il contesto cosmico diventa secondario e anche la questione cronologica perde di importanza» (p. 62). Quasi condannando in anticipo le tante speculazioni millenaristiche di cui sarà ricca la storia del cristianesimo, Gesù vuole «distoglierci dalla curiosità superficiale» (p. 64) su quando e come sarà la fine del mondo. Date e ore non sono più così importanti, se la Parola definitiva di Dio è già stata detta in Gesù Cristo. «In questa persona l’avvenire è ora presente. Il futuro, in fin dei conti, non ci porrà in una situazione diversa da quella che nell’incontro con Gesù è già realizzata» (ibid.).
Sono così negate le speculazioni cosmiche di tipo più o meno esoterico o astrologico. «Questa relativizzazione dell’elemento cosmico, o meglio: la sua centratura nella sfera personale, si mostra con particolare chiarezza nella parola finale della parte apocalittica: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc 13,31). La parola, quasi un nulla a confronto col potere enorme dell’immenso cosmo materiale, un soffio del momento nella grandezza silenziosa dell’universo – la parola è più reale e più durevole che l’intero mondo materiale. È la realtà vera ed affidabile: il terreno solido sul quale possiamo appoggiarci e che regge anche nell’oscurarsi del sole e nel crollo del firmamento. Gli elementi cosmici passano; la parola di Gesù è il vero “firmamento”, sotto il quale l’uomo può stare e restare» (p. 63).

La lavanda dei piedi

Il terzo capitolo (pp. 65-90) entra in quella che l’autore chiama l’«ora di Gesù» (p. 66), cominciando dai testi che precedono e accompagnano l’episodio della lavanda dei piedi. «Gesù qui, come anche altre volte nel Vangelo di Giovanni, parla del suo essere uscito dal Padre e del suo ritorno a Lui» (p. 67). Vi è stato certo il rischio di un’interpretazione neo-platonica, in quanto la coppia uscita-ritorno «potrebbe suscitare il ricordo dell’antico schema dell’exitus reditus, dell’uscita e del ritorno, come è stato elaborato specialmente nella filosofia di Plotino [203 o 205-270]» (ibid.). È molto importante per il Papa mostrare che non è così, perché la posta in gioco è una corretta valutazione dell’umanità e della carne, contro ogni disprezzo neoplatonico o gnostico. «L’uscire e tornare illustrato da Giovanni, però, è totalmente diverso da ciò che è pensato nello schema filosofico. Poiché in Plotino come nei suoi seguaci, l’“uscire”, che lì prende il posto dell’atto divino della creazione, è una discesa che alla fine diventa un declino: dall’elevatezza dell’“unico” in giù verso zone sempre più basse dell’essere. Il ritorno consiste poi nella purificazione dalla sfera materiale, in una graduale risalita e in purificazioni che tolgono ciò che è inferiore e infine riconducono nell’unità del divino. L’uscire di Gesù invece presuppone innanzitutto la creazione non come declino, ma come atto positivo della volontà di Dio. È poi un processo dell’amore che, proprio nella discesa, dimostra la sua vera natura – per amore verso la creatura, per amore verso la pecorella smarrita – rivelando così nel discendere ciò che è veramente divino. E il Gesù di ritorno non si sbarazza affatto della sua umanità come se fosse una cosa contaminante. Lo scopo della sua discesa era di accettare e di accogliere l’umanità intera, il ritorno insieme con tutti gli uomini – il ritorno di “ogni carne”. In questo ritorno si realizza una novità: Gesù non ritorna da solo. Non abbandona la carne, ma attira tutti a sé» (pp. 67-68). 
Nello stesso episodio della lavanda dei piedi ritorna il contrasto con le prospettive neoplatoniche e gnostiche che svalutano il corpo. Per Plotino diventa puro chi «si purifica dalla componente materiale» (p. 72). Al contrario Gesù purifica «la» (ibid.) componente materiale, così che non è giustificato nessun «sospetto nei confronti della sfera materiale, del corpo» (p. 73). 
Sulla lavanda dei piedi il richiamo comune nell’esegesi è quello all’importanza dei rituali di purificazione nel mondo ebraico. È vero che a questi rituali Gesù dà un senso nuovo, ma occorre – insiste il Papa – essere attenti a non leggere la novità in un senso semplicemente moralistico. «L’esegesi liberale ha detto che Gesù avrebbe sostituito la concezione rituale della purità con quella morale: al posto del culto e del suo mondo subentrerebbe la morale. Allora il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale, una specie di “riarmo” etico. Ma con ciò non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento» (p. 70). Non sarebbe neppure corretto dire che il Signore ha sostituito alla morale della Legge una morale più elevata e nuova. «Al posto della purezza rituale non è semplicemente subentrata la morale, ma il dono dell’incontro con Dio in Gesù Cristo» (p. 72). 
La lavanda dei piedi è pure, rileva il Papa, un’allusione – certo ancora velata – alla confessione sacramentale: ci siamo già lavati (nel Battesimo) ma dobbiamo sempre lavarci di nuovo (nella confessione). 
Sullo sfondo, comincia pure a emergere la figura inquietante di Giuda, così come si mostrano le reticenze e le incomprensioni di Pietro. I Vangeli vogliono mostrarci, profeticamente, che «la rottura dell’amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono “il suo pane” e lo tradiscono» (p. 81). Vediamo come Giuda «attraverso una serie di forme apparentemente minute di infedeltà, decada spiritualmente e così alla fine, uscendo dalla luce, entri nella notte e non sia più capace di conversione. In Pietro vediamo un’altra specie di minaccia, anzi di caduta, che però non diventa diserzione e può quindi essere risanata mediante la conversione» (p. 83).

La preghiera sacerdotale

Il quarto capitolo (pp. 91-118) commenta la «preghiera sacerdotale» di Gesù, espressione, come ci ricorda il Papa, oggi comune coniata nel secolo XVI dal teologo luterano David Chytraeus (1530-1600). Tra gli esegeti contemporanei, nota il Papa, è stato soprattutto padre André Feuillet P.S.S. (1909-1998) a offrire «la chiave per la giusta comprensione di questo grande testo […]. Egli dimostra che questa preghiera è comprensibile solo sullo sfondo della liturgia della festa giudaica dell’Espiazione (Yom kippùr)» (p. 91). Nella vicenda di Gesù il rito dello Yom Kippùr diventa reale: avviene realmente, non più soltanto in modo simbolico. In questa festa dell’Espiazione ogni anno il Sommo Sacerdote pronuncia il nome di Dio – normalmente indicibile – e ridà a Israele, dopo un anno di trasgressioni, il suo carattere di popolo santo. Così, restaura l’armonia del mondo perché per l’ebraismo il mondo esiste non per se stesso ma come spazio per l’alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele. 
Gesù è insieme re e Sommo Sacerdote. «La preghiera di Gesù Lo manifesta come il sommo sacerdote del grande giorno dell’Espiazione. La sua croce e il suo innalzamento costituiscono il giorno dell’Espiazione del mondo, in cui l’intera storia del mondo, contro tutta la colpa umana e tutte le sue distruzioni, trova il suo senso, viene introdotta nel suo vero “perché” e “dove”» (pp. 93-94). 
Il Papa sottolinea qui «il tema della consacrazione e del consacrare – il tema che indica nel modo più forte la connessione con l’evento della riconciliazione e col sommo sacerdozio» (p. 100). Nella preghiera sacerdotale c’è «una triplice “consacrazione”: il Padre ha consacrato il Figlio e lo ha mandato nel mondo; il Figlio consacra se stesso e chiede che, a partire dalla sua consacrazione, i discepoli siano consacrati nella verità» (p. 101). La consacrazione nella verità porta all’unità per cui Gesù prega. Ma «l’unità invisibile della “comunità” non basta» (p. 113). Il Pontefice critica in particolare il teologo luterano Rudolf Bultmann (1884-1976), secondo cui l’unità della preghiera sacerdotale si riferirebbe a un’unità invisibile e morale fra i cristiani che prescinde da una struttura o da una Chiesa. Si tratta invece dell’unità visibile nell’unica Chiesa di Gesù Cristo. Perché «la tradizione venga mantenuta» (p. 115), scrive il Papa, sono necessarie tre cose: la Scrittura, il Simbolo della fede e la successione apostolica. In questa preghiera dunque veramente «si compie l’istituzione della Chiesa, anche se la parola “Chiesa” non viene usata» (p. 117).

L’Ultima Cena

Per il Papa, in questo libro, è sempre importante una rivendicazione «della reale storicità degli avvenimenti essenziali. Il messaggio neotestamentario non è soltanto un’idea; per esso è determinante proprio l’essere accaduto nella storia reale di questo mondo: la fede biblica non racconta storie come simboli di verità meta-storiche, ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra» (p. 119). «Se Gesù non ha dato ai discepoli pane e vino come suo corpo e suo sangue, allora la Celebrazione eucaristica è vuota – una devota finzione, non una realtà che fonda la comunione con Dio e degli uomini tra loro» (pp. 119-120). Utilizzando il metodo proposto all’inizio del volume possiamo essere certi che l’Ultima Cena – cui è dedicato il quinto capitolo (pp. 119-163) – è un evento storico realmente accaduto, e «guardare tranquillamente le ipotesi esegetiche che, da parte loro, troppo spesso si presentano con un pathos di certezza che viene confutato già dal fatto che posizioni contrarie vengono proposte continuamente con lo stesso atteggiamento di certezza scientifica» (p. 121). 
Questo non significa che non rimangano problemi ermeneutici aperti. Il primo e il più discusso dagli esegeti riguarda la data: fu davvero una cena pasquale o no? I tre Vangeli sinottici collocano l’Ultima Cena al giovedì, vigilia della Pasqua che quell’anno cadeva di venerdì. Per san Giovanni l’Ultima Cena accade invece prima della vigilia di Pasqua. Nel giorno della vigilia si celebra il processo, così che Gesù per san Giovanni muore nel momento in cui gli agnelli pasquali sono immolati. 
«Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l’immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica» (p. 125). In effetti, è improbabile che un processo complesso come quello di Gesù sia stato celebrato dalle autorità ebraiche e romane nel giorno di festa della Pasqua. 
E tuttavia l’Ultima Cena sembra proprio una cena pasquale. Come conciliare le due prospettive? Il Papa ricorda i lavori della storica francese Annie Jaubert (1912-1980), secondo cui erano qui all’opera due diversi calendari. I discepoli ne seguivano uno arcaico – adottato dagli Esseni di Qumran – per cui Pasqua cadeva al mercoledì e non al venerdì. Dunque per loro il giorno dell’Ultima Cena era la vigilia di Pasqua – come ci dicono i sinottici – ma per le autorità, che seguivano il calendario nuovo, non lo era, come lascia intendere san Giovanni. Ma secondo il Papa le tracce, pure esistenti, secondo cui gli apostoli sarebbero stati vetero-calendaristi «sono troppo deboli per poter convincere» (p. 127) totalmente. Il Papa espone la tesi della Jaubert perché la giudica suggestiva e non impossibile. Ma ultimamente preferisce l’interpretazione dello storico statunitense don John Paul Meier, secondo il quale bisogna ultimamente scegliere fra la cronologia sinottica e quella giovannea, e la più probabile delle due è quella di Giovanni. 
Ma perché allora l’Ultima Cena ha un carattere pasquale? «La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua» (p. 130). 
L’Ultima Cena ha un’importanza decisiva nella nostra vita di cristiani perché è il momento dell’istituzione dell’Eucarestia. Di questa abbiamo vari resoconti, di cui il più antico cronologicamente è quello di san Paolo, in quanto «la Prima Lettera ai Corinzi fu scritta nell’anno 56 circa» (p. 132) ed è più antica dei Vangeli. Le differenze testuali fra le versioni sono interessanti, ma non cruciali. La questione più grave è l’obiezione di molti teologi moderni secondo cui «ci sarebbe una contraddizione irrisolvibile tra il messaggio di Gesù circa il regno di Dio e l’idea della sua morte espiatoria in funzione vicaria» (p. 135). 
Per il Papa è importante rendersi conto che «la ragione di questo non sta nei dati storici: come abbiamo visto, i testi eucaristici appartengono alla tradizione più antica. In base ai dati storici niente può esservi di più originale che proprio la tradizione della cena. Ma l’idea di un’espiazione è cosa inconcepibile per la sensibilità moderna» (p. 136). In realtà dunque «la discussione è solo apparentemente un dibattito storico» (ibid.): non si crede all’Eucarestia non perché manchino i riferimenti testuali – che sono, al contrario, certissimi – ma perché urta contro il razionalismo moderno. Per capire le parole e i gesti di Gesù occorre dunque «la disponibilità di non semplicemente contrapporre al Nuovo Testamento in modo “critico-razionale” la nostra saccenteria, ma di imparare e di lasciarci guidare: la disponibilità a non travisare i testi secondo i nostri concetti, ma a lasciar purificare ed approfondire i nostri concetti dalla sua parola» (p. 137).
A urtare la mentalità moderna non è solo il miracolo del pane e del vino. È l’idea stessa che per salvarci il Figlio di Dio abbia dovuto morire sulla croce. Si sono dunque elaborate spiegazioni secondo cui Dio avrebbe offerto a Israele la fede nel Signore e, se questa offerta non fosse stata rifiutata, si sarebbe entrati subito nel regno messianico di Gesù Cristo senza passare per la croce. «Nel 1929, Erik Peterson [1890-1960], nel suo articolo sulla Chiesa – un articolo che ancora oggi vale assolutamente la pena di leggere – ha sostenuto la tesi che la Chiesa esiste solo sulla base del presupposto “che gli Ebrei come popolo eletto di Dio non hanno accolto la fede nel Signore”. Se avessero accettato Gesù, “il Figlio dell’uomo sarebbe ritornato e il regno messianico, in cui gli Ebrei avrebbero occupato il posto più importante, avrebbe preso inizio” (Theologische Traktate, p. 247). Romano Guardini [1885-1968] nelle sue opere su Gesù ha accolto e modificato questa tesi. Per lui il messaggio di Gesù comincia chiaramente con l’offerta del regno; il “no” di Israele avrebbe suscitato la nuova fase della storia della salvezza, di cui fanno parte morte e risurrezione del Signore e la Chiesa delle genti» (p. 139). 
Che cosa pensare di queste tesi? Per quanto frutto dell’ingegno di autori illustri e bene intenzionati, secondo il Papa esse non possono essere accolte. Al contrario, il già citato don John Paul Meier – la cui opinione Benedetto XVI approva e fa sua – ha mostrato che una distinzione cronologica è in questo senso impossibile e che la Croce è presente fin dall’inizio. «Non esiste una contraddizione tra il lieto messaggio di Gesù e la sua accettazione della croce quale morte per i molti, al contrario: solo nell’accettazione e trasformazione della morte, il lieto annuncio raggiunge tutta la sua profondità» (p. 142). 
Dalle interpretazioni di Peterson e di Guardini vanno poi distinte le tesi meramente razionaliste secondo cui l’Eucarestia sarebbe un’invenzione dei primi cristiani. Queste tesi, spiega il Pontefice, sono semplicemente assurde. «L’idea del formarsi dell’Eucaristia nell’ambito della “comunità” è anche dal punto di vista storico assolutamente assurda. Chi avrebbe potuto permettersi di concepire un tale pensiero, di creare una tale realtà? Come avrebbe potuto essere che i primi cristiani – evidentemente già negli anni 30 – accettassero una simile invenzione senza fare obiezioni?» (ibid.).
Quando parlerà della morte di Gesù, il Papa noterà ancora la stessa obiezione. «Sempre di nuovo si dice: Non è forse un Dio crudele colui che richiede un’espiazione infinita? Non è questa un’idea indegna di Dio? Non dobbiamo forse, a difesa della purezza dell’immagine di Dio, rinunciare all’idea di espiazione?» (p. 258). Ma la sporcizia c’è nel mondo, e c’è per colpa nostra, per colpa del peccato degli uomini. «Non può essere semplicemente ignorata, deve essere smaltita. Ora, tuttavia, non è che da un Dio crudele venga richiesto qualcosa di infinito. È proprio il contrario: Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza. Dio stesso “beve il calice” di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore, che attraverso la sofferenza trasforma il buio» (pp. 258-259). Ulteriormente approfondito e compreso dalla comunità cristiana attraverso la riflessione sul sacrificio dei martiri, anche oggi «il mistero dell’espiazione non deve essere sacrificato a nessun razionalismo saccente» (p. 267).
Nel capitolo quinto, il Pontefice affronta quindi la dibattuta questione del pro multis, che ha preoccupato soprattutto i liturgisti: il sangue di Gesù Cristo è stato versato «per molti» come risulta da Matteo 26,28 e da Marco 14,24, o «per tutti», come sentiamo dire in Italia nella versione in lingua italiana della formula della consacrazione nella Messa? Il Papa cita il teologo luterano tedesco Joachim Jeremias (1900-1979), il quale «ha cercato di mostrare che la parola “molti” nei racconti sull’istituzione sarebbe un semitismo e che quindi dovrebbe essere letta non a partire dal significato della parola greca, ma in base ai corrispondenti testi veterotestamentarii. Egli cerca di dimostrare che la parola “molti” nell’Antico Testamento significa “la totalità” e quindi in realtà sarebbe da tradurre con “tutti”» (p. 153), sulla base soprattutto di un parallelo con Isaia 53. 
La tesi di Jeremias, ricorda il Papa, «si è allora presto affermata ed è divenuta una comune convinzione teologica. In base ad essa, nelle parole della consacrazione, il “molti” è stato tradotto in diverse lingue con “tutti”. “Versato per voi e per tutti”, così in vari Paesi i fedeli durante la Celebrazione eucaristica sentono oggi le parole di Gesù» (ibid.). Senonché, mentre i liturgisti facevano il loro lavoro, «questo consenso tra gli esegeti si è nuovamente frantumato. L’opinione prevalente tende oggi verso la spiegazione che “molti” inIsaia 53 e anche in altri punti, pur significando una totalità, non possa essere semplicemente equiparato con “tutti”» (ibid.). 
Più recentemente si è affermata la tesi dello storico della liturgia cattolico Joseph Paschler (1893-1979) secondo cui il «versato» si riferisce non al sangue di Gesù Cristo, in effetti versato per tutti, ma al calice, che raggiungerà i «molti» che parteciperanno all’Eucarestia ma non «tutti» gli uomini. Per quanto questa spiegazione, nota il Papa, sia più persuasiva per il Vangelo di Marco che per quello di Matteo, nel contesto generale dei Vangeli e della Chiesa primitiva «si rende sempre più evidente che Egli [Gesù] di fatto è morto per tutti» (p. 156), così com’è chiaro che non tutti accettano o accetteranno la chiamata nella Chiesa.
È certo che Gesù abbia chiesto ai suoi discepoli di ripetere il gesto dell’Ultima Cena: ma «qual è precisamente la cosa che il Signore ha ordinato di ripetere?» (p. 157). Non il banchetto o la cena in quanto tale, ma il sacrificio. A fronte di equivoci o incertezze, questo punto secondo il Papa va sistematicamente ribadito. Il Pontefice cita un’espressione di padre Josef Andreas Jungmann S.J. (1889-1975), che definisce «grande studioso della storia della Celebrazione eucaristica e uno degli architetti della riforma liturgica», secondo cui «ciò che la Chiesa celebra nella Messa non è l’ultima cena, ma ciò che il Signore, durante l’ultima cena, ha istituito ed affidato alla Chiesa: la memoria della sua morte sacrificale (Messe im Gottesvolk, p. 24)» (p. 160). Lo stesso liturgista nota, ricorda il Papa, che nella Chiesa «fino alla Riforma del secolo XVI, per la celebrazione dell’Eucaristia non viene mai usato un nome che significhi “convito” ([ibid.], p. 23, nota 73)» (p. 161). No, la Messa cattolica non è una semplice cena.

Il Getsemani

Il sesto capitolo (pp. 165-187) è dedicato al Getsemani. Il nome Getsemani, spiega il Papa, indicava «una fattoria con un frantoio in cui le olive venivano spremute» (p. 168). Ma san Giovanni nel suo Vangelo (18,1 e 19,41) usa ripetutamente la parola «giardino», e non lo fa per caso. «È evidente che Giovanni con la parola “giardino” allude al racconto del Paradiso e del peccato originale. Vuole dirci che qui quella storia viene ripresa. Nel “giardino” avviene il tradimento, ma il giardino è anche il luogo della risurrezione. Nel giardino, infatti, Gesù ha accettato fino in fondo la volontà del Padre, l’ha fatta sua e così ha capovolto la storia». 
Ma a questa volontà hanno difficoltà a conformarsi perfino i discepoli più vicini. Si può dire di Pietro che «il suo atteggiamento rispecchi la tentazione continua dei cristiani, anzi anche della Chiesa: senza la croce arrivare al successo» (p. 171). L’appello, poi – inascoltato –, ai discepoli perché veglino e preghino per non cadere in tentazione «pur riferendosi proprio a quell’ora […] rimanda in anticipo alla storia futura della cristianità. La sonnolenza dei discepoli rimane lungo i secoli l’occasione favorevole per il potere del male. Questa sonnolenza è un intorpidimento dell’anima, che non si lascia scuotere dal potere del male nel mondo, da tutta l’ingiustizia e da tutta la sofferenza che devastano la terra. È un’insensibilità che preferisce non percepire tutto ciò; si tranquillizza col pensiero che tutto, in fondo, non è poi tanto grave, per poter così continuare nell’autocompiacimento della propria esistenza soddisfatta. Ma questa insensibilità delle anime, questa mancanza di vigilanza sia per la vicinanza di Dio che per la potenza incombente del male conferisce al maligno un potere nel mondo» (pp. 172-173). 
Si è molto insistito sull’angoscia di Gesù nel Getsemani, ma secondo il Papa è importante non perdere mai di vista chi è Gesù, il re del mondo e della storia, in modo da contrastare ogni interpretazione meramente psicologica. Nel Getsemani «egli vede con estrema chiarezza l’intera marea sporca del male, tutto il potere della menzogna e della superbia, tutta l’astuzia e l’atrocità del male, che si mette la maschera della vita e serve continuamente la distruzione dell’essere, la deturpazione e l’annientamento della vita. Proprio perché è il Figlio, Egli sente profondamente l’orrore, tutta la sporcizia e la perfidia che deve bere in quel “calice” a Lui destinato: tutto il potere del peccato e della morte. Tutto questo Egli deve accogliere dentro di sé, affinché in Lui sia privato di potere e superato» (p. 175). 
Siamo dunque su un piano diverso da quello della semplice paura della morte. «L’angoscia di Gesù è una cosa molto più radicale di quell’angoscia che assale ogni uomo di fronte alla morte: è lo scontro stesso tra luce e tenebre, tra vita e morte – il vero dramma della scelta che caratterizza la storia umana. In questo senso possiamo con [Blaise] Pascal [1623-1662] in modo tutto personale applicare l’avvenimento del Monte degli ulivi anche a noi: anche il mio peccato era presente in quel calice spaventoso. “Quelle gocce di sangue, le ho versate per te”, sono le parole che Pascal sente rivolte a sé dal Signore in agonia sul Monte degli ulivi (cfr Pensées, VII 553)» (p. 176).
L’episodio del Getsemani è sempre stato considerato dalla Chiesa una finestra privilegiata per guardare all’interno del mistero di Gesù e delle sua natura insieme umana e divina, e nello stesso tempo unica e indivisa. «In nessun’altra parte della Sacra Scrittura guardiamo così profondamente dentro il mistero interiore di Gesù come nella preghiera sul Monte degli ulivi. Non per caso, quindi, la ricerca appassionata della Chiesa antica per la comprensione della figura di Gesù Cristo ha trovato la sua forma conclusiva nella riflessione, guidata dalla fede, sulla preghiera del Monte degli ulivi» (pp. 177-178). 
Com’è noto, questa lunga riflessione sfocia nel Concilio di Calcedonia (451) e nella formula definitiva secondo cui Gesù Cristo è un’unica persona con una duplice natura, umana e divina. Ma «la recezione di Calcedonia – nota il Papa – è avanzata in modo molto intricato e tra accaniti litigi» (p. 179), determinando gli scismi dell’Egitto e della Siria, che sono ancora il centro di Chiese separate da Roma chiamate, anche se l’etichetta è contestata, «pre-calcedoniane». 
La Chiesa, nota il Papa, ha percepito nei secoli successivi a Calcedonia come eresia particolarmente insidiosa quella del «monotelismo» (dal greco monos telos, una sola volontà) secondo cui in Gesù vi sarebbe un’unica volontà, quella divina. Ma un uomo senza volontà umana rischia di non essere veramente uomo. Fu san Massimo il Confessore (579 o 580-662), ricorda Benedetto XVI, a dare un contributo decisivo alla confutazione dell’eresia, mostrando che nell’uomo Gesù non vi sono due volontà giustapposte, ma quella perfetta sinergia fra volontà umana e volontà di Dio che si sarebbe realizzata in ogni uomo creato a immagine e somiglianza di Dio se non fosse intervenuto il peccato originale.

Il processo di Gesù

Il settimo capitolo (pp. 189-225) presenta il processo di Gesù. Il Papa affronta qui una questione molto delicata, che è quella del rapporto fra religione e politica. «Si è tentati di dire che il motivo per il procedere contro Gesù sia stata una preoccupazione politica in cui, da punti di partenza diversi, si sono incontrati l’aristocrazia sacerdotale e i farisei» (p. 191), gruppi in contrasto tra loro ma entrambi preoccupati che Gesù realizzasse, con il suo movimento di sempre maggiore successo, «il distacco della dimensione religiosa da quella politica» (ibid.) che nella mentalità ebraica erano invece «assolutamente inseparabili l’una dall’altra» (ibid.). «Si è tentati», appunto. Ma le cose sono più complicate. 
Secondo il Papa, «bisogna guardarsi da una frettolosa condanna della prospettiva “puramente politica”, propria degli avversari di Gesù» (ibid.), i quali avevano a cuore «il fondamento religioso della politica e le conseguenze religiose di essa» (ibid.), cose di per sé non negative e da cui bisogna distinguere rigorosamente «lo specifico interesse per il potere della dinastia di Anna e Caifa, interesse che poi di fatto condusse alla catastrofe dell’anno 70, provocando così proprio ciò che, secondo il loro vero compito, essi avrebbero dovuto evitare» (p. 192). Questa «smania di potere del gruppo dominante» (ibid.) non va confusa con una «preoccupazione» (ibid.) di non separare la politica dal suo fondamento nella religione che era in sé «legittima» (ibid.). Bisogna guardarsi, afferma il Papa, dal trarre argomento dal processo di Gesù per sostenere la tesi secondo cui solo un’assoluta separazione tra religione e politica sarebbe conforme al messaggio cristiano e al regno del Signore, in quanto non è di questo mondo. Al contrario, la regalità di Gesù Cristo – che pure è tanto diversa da quella del mondo – si estende alla società e, in questo senso, al mondo, anche se talora «mondo» è usato nei Vangeli come sinonimo di una sfera del peccato che, quella sì, rimane estranea al regno. Gesù non veniva a negare un modello in cui ultimamente «Dio domina nel mondo» (p. 193), ma a portare un «modo nuovo» (ibid.) di questo dominio, che i suoi avversari non comprendevano. 
Quanto ai dettagli giuridici del processo, è anzitutto corretto dire che non siamo in grado di conoscerli fino in fondo. Il Papa cita lo storico e teologo luterano Martin Hengel (1926-2009), il quale afferma che «non conosciamo […] dettagli sul diritto criminale sadduceo» (p. 198), che sarebbero cruciali per comprendere il caso di Gesù.
Una cosa però sappiamo con certezza, e qui Benedetto XVI ritorna sul tema che ha voluto mettere al centro del libro: al cuore del processo sta la «rivendicazione della regalità» (p. 200) da parte di Gesù. «La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito» (p. 206). Il Papa cita, approvandole, le parole dello studioso di esegesi biblica britannico Charles K. Barrett secondo cui san «Giovanni con massima sagacia ha individuato la chiave interpretativa per la storia della passione nella regalità di Gesù e ha messo in risalto il suo significato forse più chiaramente di qualunque altro autore neotestamentario» (p. 208). 
Le prime anticipazioni del libro hanno attirato l’attenzione sulla questione della responsabilità del popolo ebraico nell’uccisione di Gesù, cui per la verità non sono dedicate più di tre pagine. Secondo il Papa l’espressione evangelica ochlos – parola che «non di rado […] ha un sapore negativo nel senso di “plebaglia”» (p. 209) – non indica «“il popolo” degli Ebrei come tale» (ibid.). Né l’espressione di Matteo (27,25), «tutto il popolo», può essere intesa in senso letterale: certamente non tutti gli Ebrei erano presenti a quel drammatico episodio. Anzi, nota il Papa, «si può forse in ciò dare ragione a[l teologo cattolico contemporaneo] Joachim Gnilka, secondo cui Matteo – andando oltre i fatti storici – ha voluto formulare un’eziologia teologica, con cui spiegarsi il terribile destino di Israele nella guerra giudeo-romana, nella quale vennero tolti al popolo la Terra, la città e il tempio» (p. 210). In ogni caso, contro qualunque tentazione antisemita, «il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti» (p. 211). 
La questione degli Ebrei richiama quella, parallela, di Ponzio Pilato. Al suo proposito «si dice spesso che i Vangeli, in base ad una tendenza filo-romana motivata politicamente, lo avrebbero presentato in modo sempre più positivo, caricando progressivamente sugli Ebrei la responsabilità per la morte di Gesù. A sostegno di una tale tendenza, però, non c’era alcuna ragione nella situazione storica degli evangelisti: quando furono redatti i Vangeli, la persecuzione di Nerone [37-68 d.C.] aveva ormai mostrato il lato crudele dello Stato romano e tutta l’arbitrarietà del potere imperiale» (pp. 211-212). Pilato, funzionario secondo il Papa pavido e rinchiuso nel cerchio del calcolo pragmatico e utilitarista, «sapeva anche che Roma doveva il suo dominio sul mondo non da ultimo alla tolleranza di fronte a divinità straniere e alla forza pacificatrice del diritto romano» (p. 212). Cercava dunque di non discostarsene troppo.
Ma anche Pilato si trova di fronte alla questione centrale: la rivendicazione da parte di Gesù Cristo della sua regalità. «È vero che Roma poteva effettivamente riconoscere dei re regionali – come Erode [Antipa, 20 a.C.-dopo il 39 d.C.] –, ma essi dovevano essere legittimati da Roma ed ottenere da Roma la descrizione e la delimitazione dei loro diritti di sovranità. Un re senza tale legittimazione era un ribelle che minacciava la pax romana e di conseguenza si rendeva reo di morte» (ibid.). Nello stesso tempo, «Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso» (p. 214). 
Siamo qui nel cuore del libro del Papa, in quanto siamo arrivati a una questione che riguarda noi uomini del secolo XXI e non solo Pilato. «Che cosa deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di regno e di regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare? O forse in qualche modo ci riguarda?» (ibid.). Nel dialogo con il funzionario romano scopriamo un dato decisivo: Gesù «basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale» (p. 215). La domanda di Pilato, «Che cos’è la verità?», non è solo di Pilato. È «la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell’ambito del potere? Vista l’impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del potere? Ma, dall’altra parte – che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti – criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?» (p. 215).
Qui – ci avverte il Papa – non solo si gioca il significato ultimo della politica, ma addirittura «è in gioco il destino dell’umanità» (ibid.). Delle due l’una: o si accetta come terreno comune per gli uomini un diritto naturale che è «il diritto della verità» (p. 217), oppure «la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo» (ibid.). «Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa [verità]. Ma senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti» (p. 218).
Ma ci rendiamo conto qui anche di qualcosa che Benedetto XVI nel suo Magistero ha spesso ricordato. La ragione può riconoscere l’esistenza della verità – e di molte verità – a prescindere dalla fede, e questo fonda il diritto naturale come insieme di verità che s’impongono anche ai non credenti. Ma in pratica, a causa del peccato, riconoscere queste verità prescindendo totalmente da Dio è difficile. «Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. Laverità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è “vero” nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura. Dio è la realtà che dona l’essere e il senso. “Dare testimonianza alla verità” significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere. In questo senso, la verità è il vero “re” che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza» (pp. 216-217). «“Redenzione” nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile» (p. 218).
Si dice oggi che non abbiamo bisogno di Dio, e neppure del diritto naturale, perché è arrivata la scienza a rivelarci la verità sull’uomo. Quella della scienza però è una «verità funzionale sull’uomo» (p. 217). «Ma la verità su lui stesso – su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male – quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per “la verità” stessa – per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo» (p. 218). 
Comunque sia, verità e regalità sono strettamente connesse. Gesù è egli stesso la verità, e Gesù è il re. Si supera così l’artificiosa contrapposizione creata da alcuni esegeti fra l’annuncio del regno in Galilea e la passione e morte a Gerusalemme. «Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di Gesù in Galilea – il regno di Dio – e i suoi discorsi in Gerusalemme. Il centro del messaggio fino alla croce – fino all’iscrizione sulla croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta. Il centro di ciò è, però, la verità» (pp. 218-219).

La crocifissione

L’ottavo capitolo (pp. 227-267) accompagna Gesù dalla crocifissione alla deposizione nel sepolcro. I discepoli, per quanto Gesù li avesse preparati, non hanno capito come un re potesse regnare dalla croce dei malfattori. Sono riusciti gradualmente a comprenderlo grazie ai testi veterotestamentari che conoscevano, due dei quali di fondamentale importanza: il Salmo 22 e Isaia 53, «due testi, che sono fondamentali per l’unità tra parola della Scrittura (Antico Testamento) ed evento di Cristo (Nuovo Testamento)» (p. 229). Da questa riflessione nasce «lo stupore della prima cristianità per il fatto che il cammino di Gesù Cristo sia stato predetto passo passo» (p. 231). E l’esegesi moderna dovrebbe condividere questo stesso stupore: «Il profeta – letto ora con tutti i mezzi della moderna analisi critica del testo – parla da evangelista» (ibid.). 
Il Papa affronta quindi alcuni aspetti del racconto della crocifissione, a partire dalle parole di Gesù: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Parole, afferma, molto attuali ancora oggi. «L’ignoranza riduce la colpa – lascia aperta la via verso la conversione. Ma non è semplicemente una scusante, perché rivela al tempo stesso un’ottusità del cuore, un’ottusità che resiste all’appello della verità» (p. 233). 
Lo squarciarsi del velo del tempio ritiene particolarmente l’attenzione del Pontefice perché mostra, ancora una volta, la fine di un’epoca e l’inaugurazione di un nuovo regno: «da una parte, diventa evidente che l’epoca del vecchio tempio e dei suoi sacrifici è finita; al posto dei simboli e dei riti, che rimandavano al futuro, subentra ora la realtà stessa, il Gesù crocifisso che riconcilia tutti noi col Padre. Ma al contempo, lo squarciarsi del velo del tempio significa che ora è aperto l’accesso a Dio. Fino a quel momento il volto di Dio era stato velato. Solo mediante segni e una volta all’anno il sommo sacerdote poteva comparire davanti a Lui. Ora Dio stesso ha tolto il velo, nel Crocifisso si è manifestato come Colui che ama fino alla morte. L’accesso a Dio è libero» (p. 234). Conoscendo la vivacità dei dibattiti «nella Chiesa nascente circa la questione se la legge mosaica conservasse anche per i cristiani la sua forza vincolante [t]anto più sorprendente è il fatto che su una cosa – come s’è detto – ci fosse concordia fin dall’inizio: i sacrifici del tempio – il centro cultuale della Torà – erano superati. Cristo aveva preso il loro posto. Il tempio rimaneva un luogo venerabile di preghiera e di annuncio. I suoi sacrifici, invece, non erano più validi per i cristiani» (p. 257). 
La regalità di Cristo – ancora questo tema – ricompare sull’iscrizione posta sulla croce. «Ora il titolo di re può apparire davanti a tutti. Nelle tre grandi lingue di allora Gesù viene pubblicamente proclamato re. È comprensibile che i membri del sinedrio si urtino per questo titolo in cui Pilato sicuramente vuole anche esprimere il suo cinismo contro le autorità giudaiche e, se pur in ritardo, vendicarsi di loro. Ma tale iscrizione che equivale ad una proclamazione a re sta ora davanti alla storia del mondo. Gesù è stato “elevato”. La croce è il suo trono, dal quale attira il mondo a sé» (p. 236). 
Il buon ladrone, che la devozione popolare ha spesso interpretato come semplice criminale, era con ogni probabilità – secondo il Papa – un «brigante» nel senso politico del termine, un ribelle politico contro Roma. Ma il senso dell’episodio non cambia, e la pietà popolare qui non si è ingannata. Alla fine, il «ladrone» comprende che Gesù Cristo, e non un qualche capo militare o di partito, «è il vero re – Colui del quale Israele è in attesa» (p. 237).
Il grido di angoscia dell’ora nona – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27,46; Mc 15,34) – rimanda al Getsemani. Anche questo grido non va interpretato con «un approccio troppo limitato e individualistico» (p. 240) come vorrebbe per esempio il già citato teologo protestante razionalista Bultmann, per il quale «non ci si deve nascondere la possibilità che Egli sia crollato» (p. 238). Affermando che si tratta di una «passione messianica» (p. 241) – in cui la dialettica dell’abbandono e della stretta unione con Dio rimanda alle profezie veterotestamentarie – «non viene cancellato niente dell’orrore della passione di Gesù» (ibid.), ma si evitano i facili psicologismi mantenendo fisso lo sguardo sulla regalità del Signore.
A proposito della deposizione il Papa dichiara che «la questione circa la concordanza con la sindone di Torino non deve qui occuparci» (p. 254) specificamente. Tuttavia, agli oppositori della Sindone non manca di ricordare come «in ogni caso, l’aspetto di tale reliquia è in linea di massima conciliabile con ambedue i rapporti» dei sinottici e di Giovanni (ibid.). Ma anche qui attira particolarmente l’attenzione del Papa il fatto che «la quantità degli aromi è straordinaria e supera ogni misura comune: è una sepoltura regale» (ibid.); «il genere della sua sepoltura lo manifesta come re» (ibid.).

La Risurrezione

«L’essere cristiani significa essenzialmente la fede nel Risorto» (p. 289). «Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente – ciò dipende dalla risurrezione. Nel “sì” o “no” a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale» (p. 270). Il nono capitolo (pp. 269-307) è consacrato alla Risurrezione, cioè – spiega il Papa – a quell’elemento cruciale che consente di rispondere con certezza alla domanda se qualcuno è cristiano o non lo è. «La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Egli non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi. La nostra valutazione personale è l’ultima istanza. Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è veramente manifestato» (pp. 269-270). 
Occorre, però, avere le idee chiare su che cosa s’intenda per risurrezione, evitando i giochi di parole in cui si cimenta una certa esegesi moderna. Anzitutto, non si tratta «soltanto del miracolo di un cadavere rianimato» (p. 271), per quanto si tratti di grandi miracoli come nei casi di Lazzaro, del giovane di Nain o della figlia di Giairo: «questi ritornarono nella loro vita di prima per poi più tardi, a un certo punto, morire definitivamente» (ibid.). Gesù non morirà più. Siamo dunque di fronte a «qualcosa di totalmente diverso. La risurrezione di Gesù è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò – una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini» (p. 272). I discepoli non erano preparati a capire una resurrezione in questo senso, e non si aspettavano nulla di simile: sono stati «sopraffatti dalla realtà» (p. 274). Ci rendiamo conto di come i discepoli «dopo tutta la titubanza e la meraviglia iniziali non potessero più opporsi alla realtà: è veramente Lui; Egli vive e ci ha parlato, ci ha concesso di toccarlo, anche se non appartiene più al mondo di ciò che normalmente è toccabile» (ibid.). 
Ma noi «persone moderne» (ibid.) possiamo credere alla Resurrezione? «Il pensiero “illuminato” dice di no» (ibid.): afferma che nell’epoca della scienza non possiamo più crederci. L’appello alla scienza sembra però qui al Papa fuori posto. Nel mistero, infatti, non vi è «alcun contrasto con ciò che costituisce un chiaro dato scientifico» (p. 275). «Non si contesta la realtà esistente. Ci viene detto piuttosto: esiste un’ulteriore dimensione» (ibid.). 
Il testo distingue fra due diverse categorie di testimonianze della Risurrezione, le prime presentate in forma di professione – una forma quasi scheletrica, che sintetizza in brevi formule il nucleo della futura professione di fede cristiana – e le seconde in forma di narrazione, attraverso un testo che si diffonde e narra specifici episodi. Le prime testimonianze sono tutte di uomini, forse perché solo la testimonianza maschile aveva all’epoca un pieno valore giuridico. Le seconde sono spesso di donne. 
Nelle testimonianze in forma di professione emerge l’insistenza sul tema del sepolcro vuoto. Alcuni esegeti moderni hanno osservato sia che il sepolcro vuoto non è a rigore una prova della Resurrezione, sia che il sepolcro poteva non essere vuoto e nello stesso tempo Gesù essere risorto in una qualche forma spirituale nella mente e nel cuore dei discepoli. Dichiarare la questione del sepolcro vuoto «irrilevante» (p. 282) presso questi esegeti «implica poi spesso la supposizione che il sepolcro probabilmente non era vuoto e che così si può almeno evitare una controversia con la scienza moderna circa la possibilità di una risurrezione corporea» (ibid.). Siamo cioè di fronte presso certi teologi a «idee di risurrezione per le quali il destino del cadavere è irrilevante. In tale ipotesi, però, anche il senso di risurrezione diventa così vago da costringere a chiedersi con quale genere di realtà si abbia a che fare in un tale cristianesimo» (p. 283). 
Certo, «il sepolcro vuoto come tale non può essere una prova della resurrezione» (pp. 282-283). Ma «resta però un presupposto necessario per la fede nella risurrezione» (p. 283): «nella Gerusalemme di allora l’annuncio della risurrezione sarebbe stato assolutamente impossibile se si fosse potuto far riferimento al cadavere giacente nel sepolcro» (ibid.). Il sepolcro vuoto non prova la risurrezione. Ma il sepolcro con il corpo di Gesù sarebbe stato considerato a Gerusalemme la prova del fatto che non c’era stata nessuna risurrezione. 
La questione però, secondo il Papa, è più complessa, e il sepolcro vuoto ha anche una sua dimensione teologica. «“Non subire la corruzione” – questa è proprio la definizione di risurrezione. Solo la corruzione era vista come la fase in cui la morte diventava definitiva. Con la decomposizione del corpo che si disgrega nei suoi elementi – un processo che dissolve l’uomo e lo riconsegna all’universo – la morte ha vinto. Ora quell’uomo non esiste più come uomo – può forse rimanerne soltanto un’ombra negli inferi. In base a tale prospettiva era fondamentale per la Chiesa antica che il corpo di Gesù non avesse subito la corruzione. Solo in quel caso era chiaro che Egli non era rimasto nella morte, che in Lui effettivamente la vita aveva vinto la morte» (p. 285). 
Invece, «speculazioni teologiche secondo cui la corruzione e la risurrezione di Gesù sarebbero compatibili l’una con l’altra appartengono al pensiero moderno e stanno in chiaro contrasto con la visione biblica» (p. 286). Quest’ultima testimonia la straordinarietà della Risurrezione attraverso la sostituzione del sabato con la domenica come Giorno del Signore, la cui importanza non va affatto sottovalutata. «Se si considera quale importanza, in base al racconto della creazione e al Decalogo, il Sabato ha nella tradizione veterotestamentaria, allora è evidente che solo un evento di un potere sconvolgente poteva provocare la rinuncia al Sabato e la sua sostituzione mediante il primo giorno della settimana. Solo un evento che si fosse impresso nelle anime con forza straordinaria poteva suscitare un cambiamento così centrale nella cultura religiosa della settimana. Semplici speculazioni teologiche non sarebbero bastate per questo. Per me, la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall’inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria – la scoperta del sepolcro vuoto e l’incontro con il Signore risorto» (p. 288).
Nelle testimonianze in forma di narrazione – distinte da quelle in forma di professione – ci colpisce subito la «dialettica del riconoscere e non riconoscere» (p. 295). All’inizio i discepoli non riconoscono Gesù, il che lascia perplessi tanti buoni cristiani e per gli esegeti razionalisti diventa un argomento per negare la realtà fisica e corporea della Resurrezione. Ma è piuttosto il contrario. «La dialettica che fa parte dell’essenza del Risorto è presentata nei racconti in modo veramente poco abile, e proprio così emerge la sua veridicità. Se si fosse dovuta inventare la risurrezione, tutta l’insistenza si sarebbe concentrata sulla piena corporeità, sull’immediata riconoscibilità e in più si sarebbe forse ideato un potere particolare come segno distintivo del Risorto. Ma nella contraddittorietà dello sperimentato che caratterizza tutti i testi, nel misterioso insieme di alterità e identità si rispecchia un nuovo modo dell’incontro, che apologeticamente appare piuttosto sconcertante, ma che proprio per questo si rivela anche maggiormente come autentica descrizione dell’esperienza fatta» (p. 296). Se gli evangelisti avessero voluto inventare la storia della Risurrezione, l’avrebbero inventata meglio e descritta senza fare riferimento a quelle incertezze degli apostoli e dei discepoli che sono invece una prova dell’autenticità del resoconto.
Il Signore risorto non è un uomo cui è stata prolungata la vita per qualche anno come Lazzaro. Non è neppure un fantasma o un’apparizione. Infatti mangia e beve, il che ancora una volta infastidisce certi esegeti ma – oltre a sottolineare la realtà tutt’altro che solo simbolica della Risurrezione – ha pure un significato teologicoIn Atti 1, 4 leggiamo nella traduzione della CEI che il Risorto «mentre si trovava a tavola con essi [discepoli], ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme». Per il Papa la traduzione «mentre si trovava a tavola» non è del tutto soddisfacente. In realtà, «è di importanza essenziale la parola usata da Luca: synalizómenos. Tradotta letteralmente, essa significa: “mangiando con loro del sale”» (p. 300). «Il sale è considerato come garante di durevolezza. È rimedio contro la putrefazione, contro la corruzione che fa parte della natura della morte. Ogni prender cibo è un combattere contro la morte – un modo di conservare la vita» (ibid.).
Naturalmente, dopo tutte queste considerazioni possiamo ancora chiederci, con san Giuda Taddeo nel Cenacolo: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?» (Gv 14,22). Perché non ti sei fatto vedere da tutti e li hai, per così dire, obbligati a credere? Ma in realtà, nota il Papa, questa domanda va al di là della Resurrezione, «riguarda, però, non soltanto la risurrezione, ma l’intero modo in cui Dio si rivela al mondo. Perché solo ad Abramo – perché non ai potenti del mondo? Perché solo a Israele e non in modo indiscutibile a tutti i popoli della terra? È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia» (p. 306). Dio non ci vuole mai «sopraffare con la potenza esteriore» (ibid.) ma chiede la nostra adesione sulla base di una scelta libera e per questo meritoria.

L’Ascensione

Un capitolo finale non numerato, intitolato Prospettive (pp. 309-324), che precede l’importante Bibliografia commentata (pp. 325-342), è dedicato all’Ascensione. Il capitolo è occasione per commentare la tesi diffusa secondo cui l’attesa millenarista di un imminente ritorno di Gesù sarebbe stata il vero centro della predicazione dei primi cristiani. «Una grande corrente della teologia moderna ha dichiarato questo annuncio il contenuto principale, se non addirittura l’unico nucleo del messaggio» (p. 310). Ma «se questo fosse vero – ci si interroga – come avrebbe potuto persistere la fede cristiana quando l’attesa immediata non si compì? Di fatto, una tale teoria è in contrasto con i testi come anche con la realtà del cristianesimo nascente » (ibid.).
Il racconto dell’Ascensione «ci stupisce. Luca ci dice che i discepoli erano pieni di gioia dopo che il Signore si era allontanato definitivamente da loro. Noi ci aspetteremmo il contrario. Ci aspetteremmo che essi fossero rimasti sconcertati e tristi» (p. 311). In realtà – e la questione è di grande rilievo per noi – i discepoli comprendono che con l’Ascensione il Signore non si fa meno, ma più presente. «L’“ascensione” non è un andarsene in una zona lontana del cosmo, ma è la vicinanza permanente che i discepoli sperimentano in modo così forte da trarne una gioia durevole» (p. 312). Torna, ancora alla fine del volume, il tema della regalità: con l’Ascensione Gesù non va a occupare uno spazio remoto e distante ma rivendica la «sovranità propria di Dio su ogni spazio» (p. 314). Questo è ora il suo «trono» (ibid.) di re. «Il Gesù che si congeda non va da qualche parte su un astro lontano. Egli entra nella comunione di vita e di potere con il Dio vivente, nella situazione di superiorità di Dio su ogni spazialità. Per questo non è “andato via”, ma, in virtù dello stesso potere di Dio, è ora sempre presente accanto a noi e per noi» (ibid.). 
«Ma, riguardo all’attesa del ritorno del Signore, come stanno le cose nell’esistenza cristiana? Lo aspettiamo volentieri, oppure no? Già Cipriano di Cartagine († 258) doveva esortare i suoi lettori a non tralasciare la preghiera per il ritorno di Cristo a motivo della paura di grandi catastrofi o per la paura della morte. Dovrebbe forse il mondo che sta declinando esserci più caro del Signore che tuttavia aspettiamo?» (p. 319). Il Papa cita san Cirillo di Gerusalemme (313 o 315-387), il quale afferma che «quasi sempre nel nostro Signore Gesù Cristo ogni evento è duplice. Duplice è la generazione, una volta da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana da una vergine nella pienezza dei tempi. Due sono anche le sue discese nella storia. Una prima volta è venuto in modo oscuro e silenzioso … una seconda volta verrà nel futuro … davanti agli occhi di tutti» (p. 321). Questo discorso, afferma Benedetto XVI, «è corretto, ma insufficiente» (ibid.). Dev’essere integrato dal brano di san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) che parla non di due ma di tre venute. Tra la prima venuta del Signore e quella alla fine dei tempi c’è un adventus medius: «Anche se l’espressione adventus medius prima di Bernardo era ignota, il contenuto è presente fin dal principio in varie forme nell’intera tradizione cristiana» (p. 322).
«Venuta intermedia» (ibid.) non significa però, come pensa un certo millenarismo protestante, che a un certo punto nella storia – prima della fine del mondo – il Signore verrà a inaugurare un tempo finale o un Millennio. No: l’adventus medius è qui tra noi, è il tempo della Chiesa. «I modi di questa “venuta intermedia” sono molteplici: il Signore viene mediante la sua parola; viene nei sacramenti, specialmente nella santissima Eucaristia; entra nella mia vita mediante parole o avvenimenti» (ibid.), così come viene nella storia della Chiesa mediante i santi. È questa speciale qualità del tempo il vero dono di Gesù Cristo a ciascuno di noi: è il segreto del Re dei Re, che rende ragione della gioia in cui vive il cristiano.

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