SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Il Papa e...il Purgatorio

di Sandro Magister http://chiesa.espresso.repubblica.it/

Il purgatorio c'è. E brucia.
Ma il suo è un fuoco interiore. Il fuoco della giustizia e della grazia di Dio. Benedetto XVI l'ha spiegato in un'udienza a 7000 pellegrini. Ma più ancora in una memorabile pagina dell'enciclica "Spe salvi" 


ROMA, 17 gennaio 2011 – Nell'illustrare la vita di santa Caterina da Genova, nell'udienza generale di mercoledì scorso, Benedetto XVI ha preso spunto dal pensiero di questa santa per spiegare che cosa è il purgatorio.
Nella seconda metà del XV secolo, l'epoca di Caterina, l'immagine corrente del purgatorio era come quella raffigurata qui sopra. Era la montagna di purificazione cantata da Dante nella "Divina Commedia".
Che il purgatorio fosse un luogo fisico è una convinzione molto antica, durata fino a tempi recenti.
Ma per Caterina non era così. Per lei il fuoco del purgatorio era pensato essenzialmente come un fuoco interiore.
E Benedetto XVI le ha dato pienamente ragione.

Alcuni media hanno rilanciato questa catechesi di papa Joseph Ratzinger mettendola tra le buone notizie. Come se il papa avesse decretato non tanto l'interiorità del purgatorio, ma la sua salutare scomparsa. Una scomparsa peraltro già avvenuta in larga misura nella predicazione corrente della Chiesa, da vari decenni.
Ma l'insegnamento di Benedetto XVI dice esattamente l'opposto. Non la scomparsa del purgatorio, ma la sua vera realtà. Quasi nessuno l'ha ricordato. Ma le pagine più potenti sul purgatorio Benedetto XVI le ha scritte nell'enciclica "Spe salvi", la più personale delle tre encicliche sinora da lui pubblicate, l'unica ideata e scritta integralmente di suo pugno, dalla prima riga all'ultima.

Qui di seguito è riportato il passaggio della catechesi su santa Caterina da Genova relativo al purgatorio.
E subito dopo i paragrafi della "Spe salvi" anch'essi dedicati al purgatorio, sullo sfondo del giudizio di Dio che "è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia".

"QUESTO È IL PURGATORIO, UN FUOCO INTERIORE" di Benedetto XVI

Dall'udienza generale del 12 gennaio 2011

[...] Il pensiero di Caterina sul purgatorio, per il quale è particolarmente conosciuta, è condensato nelle ultime due parti del libro citato all’inizio: il "Trattato sul purgatorio" e il "Dialogo tra l’anima e il corpo".

È importante notare che Caterina, nella sua esperienza mistica, non ha mai rivelazioni specifiche sul purgatorio o sulle anime che vi si stanno purificando. Tuttavia, negli scritti ispirati dalla nostra santa esso è un elemento centrale, e il modo di descriverlo ha caratteristiche originali rispetto alla sua epoca.

Il primo tratto originale riguarda il “luogo” della purificazione delle anime. Nel suo tempo lo si raffigurava principalmente con il ricorso ad immagini legate allo spazio: si pensava a un certo spazio, dove si troverebbe il purgatorio. In Caterina, invece, il purgatorio non è presentato come un elemento del paesaggio delle viscere della terra: è un fuoco non esteriore, ma interiore.

Questo è il purgatorio, un fuoco interiore. La santa parla del cammino di purificazione dell’anima verso la comunione piena con Dio, partendo dalla propria esperienza di profondo dolore per i peccati commessi, in confronto all’infinito amore di Dio. Abbiamo sentito del momento della conversione, dove Caterina sente improvvisamente la bontà di Dio, la distanza infinita della propria vita da questa bontà e un fuoco bruciante all’interno di se stessa. E questo è il fuoco che purifica, è il fuoco interiore del purgatorio.

Anche qui c’è un tratto originale rispetto al pensiero del tempo. Non si parte, infatti, dall’aldilà per raccontare i tormenti del purgatorio – come era in uso a quel tempo e forse ancora oggi – e poi indicare la via per la purificazione o la conversione, ma la nostra santa parte dall’esperienza propria interiore della sua vita in cammino verso l’eternità.

L’anima – dice Caterina – si presenta a Dio ancora legata ai desideri e alla pena che derivano dal peccato, e questo le rende impossibile godere della visione beatifica di Dio. Caterina afferma che Dio è così puro e santo che l’anima con le macchie del peccato non può trovarsi in presenza della divina maestà. E anche noi sentiamo quanto siamo distanti, quanto siamo pieni di tante cose, così da non poter vedere Dio. L’anima è consapevole dell’immenso amore e della perfetta giustizia di Dio e, di conseguenza, soffre per non aver risposto in modo corretto e perfetto a tale amore, e proprio l’amore stesso a Dio diventa fiamma, l’amore stesso la purifica dalle sue scorie di peccato.

In Caterina si scorge la presenza di fonti teologiche e mistiche a cui era normale attingere nella sua epoca. In particolare si trova un’immagine tipica di Dionigi l’Areopagita, quella, cioè, del filo d’oro che collega il cuore umano con Dio stesso. Quando Dio ha purificato l’uomo, egli lo lega con un sottilissimo filo d’oro, che è il suo amore, e lo attira a sé con un affetto così forte, che l’uomo rimane come “superato e vinto e tutto fuor di sé”. Così il cuore dell’uomo viene invaso dall’amore di Dio, che diventa l’unica guida, l’unico motore della sua esistenza.

Questa situazione di elevazione verso Dio e di abbandono alla sua volontà, espressa nell’immagine del filo, viene utilizzata da Caterina per esprimere l’azione della luce divina sulle anime del purgatorio, luce che le purifica e le solleva verso gli splendori dei raggi fulgenti di Dio.

Cari amici, i santi, nella loro esperienza di unione con Dio, raggiungono un “sapere” così profondo dei misteri divini, nel quale amore e conoscenza si compenetrano, da essere di aiuto agli stessi teologi nel loro impegno di studio, di "intelligentia fidei", di "intelligentia" dei misteri della fede, di approfondimento reale dei misteri, per esempio di che cosa è il purgatorio. [...]

"EGLI SI SALVERÀ, PERÒ COME ATTRAVERSO IL FUOCO..." di Benedetto XVI

Dall'enciclica "Spe Salvi" del 30 novembre 2007

[...] Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con l'impossibilità che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.

44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr. Efesini 2, 12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore.

Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo "I fratelli Karamazov".

I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. [...] Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr. Luca 16, 19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora.

45. Questa idea vetero-giudaica della condizione intermedia include l'opinione che le anime non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio.

La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti.

Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva, questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo: persone delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono.

46. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male. Molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima.

Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadrà? San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, ci dà un'idea del differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. Lo fa con immagini che vogliono in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi possiamo trasformare queste immagini in concetti, semplicemente perché non possiamo gettare lo sguardo nel mondo al di là della morte né abbiamo alcuna esperienza di esso.

Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte. Poi Paolo continua: "Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco" (3, 12-15).

In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il "fuoco" per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell'eterno banchetto nuziale.

47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa "come attraverso il fuoco". È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio.

Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia.

È chiaro che la "durata" di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il "momento" trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno: è tempo del cuore, tempo del "passaggio" alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo.

Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia, domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura.

L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza "con timore e tremore" (Filippesi 2, 12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro avvocato, "parakletos" (cfr. 1 Giovanni 2, 1).

48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perché è importante per la prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr. per esempio 2 Maccabei 12, 38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale.

L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell'"aldilà", ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato "ristoro e refrigerio" mediante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte, questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l'aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono?

Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il "purgatorio" è semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco nell'incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l'altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio dell'essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciò non c'è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell'altro né è mai inutile.

Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale. [...]


Il testo integrale dell'enciclica: "Spe salvi"
Il testo integrale della catechesi di Benedetto XVI su santa Caterina da Genova: Udienza generale del 12 gennaio 2011 .

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