SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Youcat e le traduzioni errate.

di Sandro Magister http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347525

Il 13 aprile è stato presentato ufficialmente, in Vaticano, il nuovo Catechismo dei giovani, "YouCat", di cui è prevista una massiccia diffusione soprattutto in vista della prossima Giornata Mondiale della Gioventù.

Sia nell'edizione originale in lingua tedesca, sia nelle traduzioni in alcune altre lingue, sono stati però riscontrati degli errori o dei passaggi criticabili, su questioni non lievi:
- l'eutanasia,
- gli anticoncezionali,
- e il valore salvifico delle religioni non cristiane.

In Italia “YouCat” dice sì al preservativo, nel resto del mondo no

Nell’originale tedesco di “YouCat”, il nuovo Catechismo dei giovani che sarà presentato il 13 aprile in Vaticano, la domanda 420 è la seguente:“Darf ein christliches Ehepaar Empfängnisregelung betreiben?“.Che tradotto alla lettera vuol dire:“Può una coppia cristiana esercitare (praticare) una regolazione (un controllo) dei concepimenti (delle nascite)?”.

Nell’edizione italiana del Catechismo, alla domanda 420 si legge invece:“Può una coppia cristiana fare ricorso ai metodi anticoncezionali?”.E la risposta è:“Sì, una coppia cristiana può e deve essere responsabile nella sua facoltà di poter donare la vita”.

Nella domanda e risposta successiva è detto chiaramente che la Chiesa approva l’uso dei metodi naturali di regolazione delle nascite e “al contrario rifiuta tutti i metodi contraccettivi artificiali, che si tratti di mezzi chimici (la ‘pillola’), meccanici (condom, spirale) e chirurgici (sterilizzazione)”.Intanto, però, l’equivoco creato dall’errata traduzione italiana della domanda iniziale resta.

L’edizione originale tedesca del Catechismo dei giovani è stata curata dal cardinale Christoph Schönborn. mentre la traduzione italiana è stampata da Città Nuova, l’editrice dei Focolarini, ed ha avuto la supervisione del cardinale Angelo Scola.Nell’edizione inglese pubblicata da Ignatius Press la domanda 420 è resa così:“May a Christian married couple regulate the number of children they have?”.Vale a dire:“Può una coppia cristiana regolare il numero dei bambini che ha?”.Che è una traduzione sicuramente immune da equivoci.

C’era quindi da aspettarsi che le agguerrite sentinelle del magistero della Chiesa sulla contraccezione – in testa il titolare di Ignatius Press, il gesuita Joseph Fessio – fulminassero la traduzione italiana del Catechismo.Corre voce che la congregazione per la dottrina della fede abbia ordinato il ritiro dell’edizione italiana, e la sua ristampa corretta.

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Nell’edizione italiana di “YouCat” questo è il paragrafo che si presta a fraintendimenti, in risposta alla domanda n. 382 “L’eutanasia è permessa?”:

“Spesso le definizioni di eutanasia attiva ed eutanasia passiva rendono poco chiaro il dibattito; la questione dirimente è propriamente se si uccide o se si lascia morire la persona. Chi aiuta a morire una persona nel senso dell’eutanasia attiva viola il quinto comandamento; chi invece aiuta una persona durante la morte nel senso di un’eutanasia passiva obbedisce invece al comandamento dell’amore del prossimo. Si intende con questo che, essendo la morte del paziente ormai sicura, si rinuncia a procedure mediche straordinarie, onerose o sproporzionate rispetto ai risultati attesi. Questa decisione spetta al paziente stesso, oppure deve essere messa per iscritto in anticipo. Se il paziente non è più cosciente, una persona delegata deve soddisfare le volontà dichiarate o presumibili del morente. La cura di un morente non può mai essere interrotta, trattandosi di un dovere di carità e di misericordia; in questo senso può essere legittimo e corrispondere alla dignità umana l’uso di palliativi, anche col rischio di abbreviare la vita del paziente; è però decisivo che la morte non sia ricercata né come fine né come mezzo”.

E questo è l’originale tedesco dello stesso paragrafo:

“Die Begriffe aktive Sterbehilfe und passive Sterbehilfe verunklaren oft die Debatte. Eigentlich geht es darum, ob man einen sterbenden Menschen tötet oder ihn sterben lässt. Wer im Sinn der sogenannten aktiven Sterbehilfe Menschen zum Sterben hilft, verstößt gegen das Fünfte Gebot, wer in Sinne der sogenannten passiven Sterbehilfe einen Menschen im Sterben hilft, gehorcht dem Gebot der Nächstenliebe. Gemeint ist damit, dass man, den sicheren Tod eines Patienten vor Augen, auf außerordentliche, aufwendige, in keinen Verhältnis zum Ergebnis stehende medizinische Maßnahmen verzichtet. Die Entschiedung dazu muss der Patient selbst fällen bzw. vorher in einer Verfügung festlegen. Sofern er dazu micht mehr imstande ist, muss ein Bevollmächtigter dem erklärten oder mutmaßlichen Willen des Sterbenden gerecht werden. Die Pflege eines Sterbenden darf niemals aufgegeben werden; sie ist ein Gerbot der Nächstenliebe und Barmherzigkeit. Dabei kann es legitim sein und der Menschenwürde entsprechen, schmerzlindernde Medikamente einzusetzen, selbst auf die Gafahr hin, dass dadurch das Leben des Patienten abgekürzt wird. Entscheidend ist, dass durch solche Mittel der Tod weder als Ziel noch als Mittel angestrebt wird”.

Si può notare che nell’originale tedesco del paragrafo non c’è la parola “Euthanasie”. Essa manca del tutto anche nelle 27 pagine del documento congiunto della conferenza episcopale cattolica e della Chiesa evangelica di Germania pubblicato lo scorso gennaio col titolo: “Christlichen Patientenvorsorge“, con annessi i moduli per le “dichiarazioni anticipate di trattamento” da parte di pazienti cristiani.

Al posto della parola “Euthanasie” c’è nell’uno e nell’altro testo la parola “Sterbehilfe”, che nel linguaggio corrente significa, appunto, “eutanasia”, ma che letteralmente vuol dire “aiuto alla morte”.

Nella conferenza stampa di presentazione ufficiale di “YouCat” il cardinale Christoph Schönborn, principale realizzatore del nuovo catechismo, ha tenuto a sottolineare che la parola “Sterbehilfe” ha un significato estensibile, che può essere volto sia in negativo che in positivo.

E infatti questo avviene, in tedesco, nel paragrafo citato di “YouCat”. C’è una “aktive Sterbehilfe”, cattiva, che va contro il quinto comandamento, e c’è una “passive Sterbehilfe”, buona, che obbedisce all’amore del prossimo.

Nel documento dei vescovi tedeschi cattolici ed evangelici il binomio “aktive Sterbehilfe” e “passive Sterbehilfe” ricorre con lo stesso doppio significato. La “passive Sterbehilfe” è anche equiparata alla “indirekte Sterbehilfe”.

Curiosamente, il paragrafo citato di “YouCat” inizia mettendo in guardia dai fraintendimenti che può generare l’uso di questa terminologia. Che infatti non ricorre mai né nel Catechismo della Chiesa cattolica nel capitolo sull’eutanasia, né nei documenti del magistero della Chiesa sul tema, compresa l’enciclica “Evangelium vitae” del 1995. Nella conferenza stampa di presentazione di “YouCat”, anche l’arcivescovo Rino Fisichella ha detto che le due formule “non dovrebbero essere più usate”.

Subito dopo, però, “YouCat” le usa. E spiega: per “Sterbehilfe” passiva “si intende che, essendo la morte del paziente ormai sicura, si rinuncia a procedure mediche straordinarie, onerose o sproporzionate rispetto ai risultati attesi”.

Ma questa è la rinuncia, doverosa, al cosiddetto “accanimento terapeutico”. E allora perché chiamare “passive Sterbehilfe” questo atto amorevole, che tradotto nelle altre lingue, come infatti è avvenuto nelle edizioni italiana e inglese di “YouCat”, prende il nome inevitabilmente ambiguo di “eutanasia passiva”?

L’origine tedesca della formulazione gioca un brutto tiro alla comprensione di questo paragrafo del Catechismo dei giovani, destinato a tutto il mondo. I sostenitori dell’eutanasia avranno buon gioco a citare a loro favore qualche frase di “YouCat”. In Italia, col documento dei vescovi cattolici ed evangelici di Germania questo utilizzo è già avvenuto. “Repubblica” e “Micromega” hanno rilanciato il documento titolando: “I vescovi tedeschi: sì all’eutanasia passiva”. Dove la parola “passiva” nessuno la capisce e quella che conta è solo l’altra: “eutanasia”.

Nella seconda parte del paragrafo citato, nell’edizione italiana, c’è un altro passaggio ambiguo, là dove si legge che “se il paziente non è più cosciente, una persona delegata deve soddisfare le volontà dichiarate o presumibili del morente”. Le parole “deve soddisfare” e “presumibili” rimandano alla tragedia di Eluana Englaro, la cui volontà presunta fu posta alla base della sua condanna a morte. Quanto alle dichiarazioni anticipate di trattamento, la frase di “YouCat” fa pensare che esse siano obbliganti: l’opposto di quello che stabilisce la legge in discussione nel parlamento italiano, appoggiata dalla Chiesa.

Più intelligentemente, l’edizione americana di “YouCat”, curata da padre Joseph Fessio di Ignatius Press, ha tradotto che la persona  legalmente deputata “must represent”, deve rappresentare, le volontà della persona priva di coscienza. Che è cosa diversa dall’obbligo di soddisfarle. E rende meglio il senso dell’originale tedesco: “gerecht werden”, rendere giustizia.

Insomma, tra le correzioni che la congregazione per la dottrina della fede sta segnando per le future ristampe di “YouCat”, ci sarà anche il paragrafo 

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Da Ghemme, il professor Alessandro Martinetti ci scrive:

Caro Magister, nell’ultimo post ha centrato il problema. Il sostantivo “Sterbehilfe” nel tedesco comune vuol dire “eutanasia”, la quale è in sé gravemente illecita: quindi aggettivare il vocabolo per rendere legittimo ciò che denota (ad esempio perché significhi: “astensione dall’accanimento terapeutico”) è operazione impossibile. E comunque inutile: ci si decida una buona volta di espungere tale vocabolo dai discorsi tecnici sul fine vita!

Aggiungo che, a voler essere precisi, anche la formulazione del Catechismo della Chiesa cattolica non è felicissima. Il n. 2277 parla di “eutanasia diretta” e non la distingue dall’eutanasia per omissione, sicché pare che “eutanasia diretta” significhi sia l’eutanasia cosiddetta attiva sia l’eutanasia per omissione. Che sia così si intende leggendo il Compendio al n. 470: “Che cosa proibisce il quinto comandamento? [Proibisce] l’eutanasia diretta, che consiste nel mettere fine, con un atto o l’omissione di un’azione dovuta, alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte”. La versione tedesca sia del Catechismo che del Compendio non usa “Sterbehilfe”, ma parla di “direkte Euthanasie”.

Viene tuttavia da chiedersi: se c’è un’eutanasia “diretta”, ci sarà pure quella indiretta, perché altrimenti sarebbe stato sufficiente parlare di “eutanasia”, senza specificazioni. È vero che il testo del Catechismo e del Compendio non parla di “eutanasia indiretta” e non autorizza a pensare che l’astensione dall’accanimento terapeutico sia una forma di eutanasia indiretta, ma allora ritorna la domanda: se c’è una eutanasia diretta, ci sarà pure un’eutanasia indiretta (altrimenti perché aggettivare “eutanasia”?); e se codesta eutanasia indiretta non è l’astensione dall’accanimento terapeutico, che cosa sarà?

La domanda è lecita. La possibilità di fraintendere non è del tutto preclusa. Lo sarebbe se il Catechismo avesse adottato il linguaggio chiarissimo dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Evangelium vitae”, che parla di eutanasia senza aggettivi, anche nella sua versione tedesca: “Euthanasie”.

L’enciclica al n. 65 recita: “Per un corretto giudizio morale sull’eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”.

Qui si parla di eutanasia e basta, non di eutanasia “diretta”, sia in italiano che nella versione tedesca, e si precisa che essa può realizzarsi con “un’azione o un’omissione”. L’eutanasia è poi chiaramente distinta dalla “decisione di rinunciare al cosiddetto accanimento terapeutico”.

Anche la dichiarazione “Iura et bona” del 1980 della congregazione per la dottrina della fede, citata dalla “Evangelium vitae”, parla di “eutanasia” e basta: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”.

Quindi, a mio avviso, se oltre a depennare “Sterbehilfe” dal magistero cattolico germanofono si espungesse anche, dal Catechismo e dal Compendio nelle diverse lingue, l’aggettivo “diretta” applicato a “eutanasia”, si renderebbe un servizio alla chiarezza dottrinale ed all’ortodossia.

Aggiungo che anche Elio Sgreccia, già presidente della pontificia accademia per la vita, oggi cardinale, nel suo “Corso di bioetica” pubblicato da Franco Angeli nel 1986, parte dalla definizione di eutanasia data dalla dichiarazione “Iura et bona” della congregazione per la dottrina della fede del 1980: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa al livello delle intenzioni e dei metodi usati”.

E commenta:

“In questa definizione dobbiamo fare subito delle annotazioni che ne rilevano la precisione rispetto al linguaggio comune fra teologi e cultori di medicina.

“Si omette la distinzione tra eutanasia diretta e indiretta. Nel linguaggio precedente, usato anche da Pio XII, per eutanasia indiretta s’intendeva la ‘terapia del dolore’ che si ritiene lecita a determinate condizioni anche quando, come conseguenza, può abbreviare la vita. In questo caso in realtà nè l’azione per sé n’è l’intenzione sono orientate alla soppressione della vita o dell’anticipazione della morte e, perciò, il caso non viene contemplato affatto sotto il nome di eutanasia, per non ingenerare confusione. Si usa più opportunamente nello stesso documento più avanti la dizione ‘uso degli analgesici’.

“Viene anche evitata una distinzione frequente nel linguaggio medico tra eutanasia attiva e eutanasia passiva, ove l’aggettivo ‘passiva’ veniva ad indicare l’omissione delle cure e degli interventi medici; ma la parola ‘passiva’ ha un significato molto più ampio e, perciò, poteva ingenerare ambiguità: l’eutanasia è sempre in un certo senso passiva considerata da parte del malato e sempre attiva da parte di chi la provoca”.

Ma mi chiedo: siamo così sicuri, come lo stesso Sgreccia dice, che Pio XII abbia usato la locuzione “eutanasia indiretta”? Talvolta si cita il suo discorso del 24 febbraio 1957 al IX Congresso della Società di Anestesiologia. Lì Pio XII tratta del ricorso a una palliazione del dolore, tramite narcotici, che accorci la vita al morente, e afferma:

“Riepilogando, voi ci chiedevate: La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da un’indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?. Si dovrà rispondere: Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì”.

Anche il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2279, recita:

“L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”.

Ma né il Catechismo né Pio XII parlano in questo caso di “eutanasia indiretta”. L’unico indizio che può far pensare che Pio XII in quel contesto intenda la palliazione (con accorciamento della vita del morente) come un’accettabile eutanasia “indiretta” sta là dove dice:

“Se l’azione stessa del narcotico accorciasse la durata della vita, bisognerà rinunciarvi? Anzitutto ogni forma di eutanasia diretta, cioè la somministrazione di un narcotico per provocare o affrettare la morte, è illecita, perché allora si ha la pretensione di disporre direttamente della vita”.

Il ragionamento potrebbe essere questo: l’eutanasia diretta, cioè in questo caso la somministrazione di un narcotico per provocare o affrettare la morte, è illecita, mentre la somministrazione di un narcotico per sopprimere il dolore e la coscienza è lecita a certe condizioni, tra cui c’è quella che detta somministrazione non abbia il fine di provocare o affrettare la morte, cioè che non sia eutanasia diretta, vale a dire che sia eutanasia indiretta…

Ma questo ragionamento Pio XII non lo svolge affatto, e ha il difetto di supporre che il papa possa impiegare il termine “eutanasia” senza deplorare ciò che esso denota, mentre in realtà Pio XII quando menziona l’eutanasia (con o senza la qualifica di “diretta”) lo fa sempre per deplorare la condotta che il vocabolo significa.

Si veda anche l’allocuzione “circa questionem de reanimatione” del 24 novembre 1957, nella quale Pio XII parla di “eutanasia” (senza attributi) e la deplora come illecita: “En este caso no hay disposición directa de la vida del paciente, ni eutanasia, que no sería nunca lícita”.

Quindi, nemmeno Pio XII parla di “eutanasia indiretta”, ma solo di “eutanasia diretta”. Sintagma che rimane nel Catechismo e nel Compendio e che, come dicevo, può essere ridotto al semplice “eutanasia”. Se ne avvantaggerebbe la chiarezza e sarebbero sventate in partenza possibili illazioni sulla liceità dell’eutanasia “indiretta”.

Alessandro Martinetti, Ghemme (Novara), 16 aprile 2011

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POST SCRIPTUM – Sempre a proposito del termine “Sterbehilfe” e dell’eutanasia definita “passiva”, il dottor Ermanno Pavesi, psichiatra italiano che da anni lavora nella Svizzera tedesca, segretario generale della Federazione Internazionale dei Medici Cattolici, ci scrive da Zuzwil, nel cantone di San Gallo:

“Caro Magister, effettivamente quando si parla di ‘Sterbehilfe’ si pensa soprattutto all’eutanasia, ma non unicamente, in quanto con ’aiuto’ si può intendere non solo un intervento per provocare la morte, ma più genericamente ogni aiuto ai moribondi. Equivoci sono sempre possibili. Personalmente non considero molto felice l’uso del termine ‘Sterbehilfe’ in senso positivo, e preferisco quello di ‘Sterbebegleitung’, cioè accompagnamento, assistenza ai moribondi.

“Anche la distinzione tra eutanasia attiva e passiva si presta a fraintendimenti e richiede a volte distinzioni molto sottili. Per esempio, c’è il rischio di considerare come passiva non solo la rinuncia all’accanimento terapeutico ma anche ogni forma di omissione, che può essere invece una ‘aktive Sterbehilfe’.

“Prescindendo però da queste considerazioni, devo segnalarle che effettivamente anche nel movimento tedesco degli ospizi per l’assistenza ai moribondi il termine ‘passive Sterbehilfe’ viene utilizzato in senso positivo. Vi sono ospizi tedeschi che adottano tabelle con la distinzione terminologica delle varie forme di ‘Sterbehilfe’. Si può quindi pensare che l’estensore del testo tedesco del Catechismo dei giovani abbia ripreso la terminologia utilizzata da alcuni addetti ai lavori, ritenuti affidabili e con una impostazione moralmente impeccabile”.

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