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Neuroscenze. Ma si può misurare l’io? E il libero arbitrio?

avvenire.it  8 ottobre 2011

 

BergamoScienza è un Festival che si svolge attorno a tre week-end, e propone in città e provincia più di 90 conferenze, tavole rotonde, spettacoli e incontri (si chiude il 16/10). Domenica 9 , nel bellissimo Teatro sociale di Città alta, ha parlato Patrick Haggard, ricercatore presso l’Istituto di Neuroscienza cognitiva dell’University College di Londra, uno degli scienziati che lavora sulle frontiere più avanzate della conoscenza del cervello. 

La scoperta del funzionamento della mente umana è una delle possibilità più interessanti che il nostro tempo apre. Haggard studia i comportamenti volontari, le nostre sensazioni corporee, le rappresentazioni che ci facciamo di noi stessi, le disfunzioni motorie legate a lesioni encefaliche. A Bergamo cercherà di mostrare che ormai «esiste una (neuro) scienza che studia il libero arbitrio», spingendosi in un territorio considerato anche da molti suoi colleghi «non scientifico». Dove noi vediamo «misteri» questa disciplina cronometra tempi, cataloga sensazioni, reazioni, espressioni verbali, scatta tomografie, registra impulsi elettrici, immagina «meccanismi» seguendo una linea cartesiana con un versante unico: quello del corpo. 

Professor Haggard, la volontà umana può essere più o meno debole? Siete in grado di misurarla?

«La volontà può essere più debole o più decisa. Il concetto di "libero arbitrio" mette in campo due processi diversi, che nel cervello sono separati. Il primo è la decisione dirimente tra due alternative: fare X o fare Y. Questa può essere identificata con la corteccia prefrontale laterale del cervello umano. Il secondo processo è la spinta o la motivazione ad agire. E qui c’è il tentativo di identificarle con l’anello che sale dai gangli che stanno alla base della corteccia medio-frontale. La spinta ad agire può essere senza dubbio arrestata. Chiunque di noi sa cos’è l’esperienza di essere sul punto di dire una parola scortese a qualcuno che amiamo e quindi riuscire, appena in tempo, a trattenerci dal pronunciarla realmente. In questo caso, c’è un "Io" che schiaccia tale freno?».



Secondo i suoi esperimenti, noi come percepiamo il nostro «Io»?

«I filosofi distinguono due livelli di coscienza: quella "primaria" si riferisce a esperienze individuali, come quella di voler compiere un’azione; la coscienza "secondaria" si riferisce a come noi facciamo esperienza di un "Sè" che vive tali esperienze primarie. Molti studi di neuroscienza oggi hanno a che fare con l’esperienza primaria di volere un’azione, e le neuroscienze hanno qualche strada aperta, al momento, per indagare cosa potrebbe essere questo "Io"».

In che campo si applicano i suoi studi?

«Esistono tre aree nelle quali comprendere i fondamenti cerebrali della volontà può essere importante: diagnosticare e trattare individui con disturbi psichici della volontà. Comprendere come recuperare la capacità attiva di persone che hanno intenzione di fare un movimento ma che al momento non sono in gradi di compierlo (ad esempio usando interfacce cervello-computer per arrivare a sostituire parti robotiche a movimenti del corpo in individui che sono paralizzati o hanno subito un’amputazione). Infine, contribuire al dibattito etico e giurisprudenziale sulla responsabilità».

Le malattie psichiche sono sempre più diffuse...

«Molti disturbi di questo tipo possono essere visti come disturbi della volontà. Oggi sono miseramente compresi, eppure hanno costi umani, sociali ed economici enormi. Noi abbiamo mostrato che l’esperienza di volere una certa propria azione può essere anormale entro uno spettro di condizioni neuropsichiche date, e siamo stati in grado di identificare in modo accurato ciò che è anormale. Comprendere in maniera meccanicistica perché queste anormalità si verificano potrebbe essere il primo passo per comprendere tali patologie».

Come definirebbe un’«intenzione»? E’ possibile misurarla?

«Le intenzioni sono stati mentali e neurali che provocano azioni. Gli aspetti obiettivi, neurali di q

uesti stati possono essere misurati, ad esempio registrando mutamenti di voltaggio, o i potenziali di prontezza che nel cervello umano precedono l’azione. Gli aspetti soggettivi sono più difficili da misurare, ma noi possiamo certamente valutare quando un soggetto sente di essere pronto ad agire e quanto forti siano tali esperienze».

Noi siamo corpi o abbiamo un corpo? Pensa che le neuroscienze saranno in grado di fare maggior luce su simili perplessità?

«Spero di sì. La neuroscienza ha necessità di partire da domande limpide. Quindi, quando la filosofia può articolare la questione in modo chiaro, può cercare di indagare su di essa. É famosa la domanda di Ludwig Wittgenstein: "Cosa rimane se dal fatto che io sollevo il mio braccio sottraggo il fatto che il mio braccio si alza?". Lui pensava che la domanda stessa, così posta, fosse confusa. Ma non si può negare il fatto che compiere un movimento volontario è una sensazione del tutto differente dall’aver subito sul proprio corpo lo stesso movimento in modo passivo. Mi piacerebbe capire la base di questa differenza all’interno del cervello».

Carlo Dignola © riproduzione riservata
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