SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
La sconfitta globale di Osama Bin Laden: l' Islam moderato ha battuto Al Qaeda.

di Zakaria Fareed (21 febbraio 2010) - Corriere della Sera

Gli estremisti restano temibili, ma hanno perso la battaglia di civiltà .
Nella maggior parte delle nazioni musulmane i governanti sono riusciti a isolare gli estremisti.
E i sostenitori della violenza sono diventati una minoranza
L' America non è più impegnata in una lotta di civiltà contro il mondo musulmano, bensì in una localizzata campagna militare e di intelligence
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L' 11 settembre 2001 è stato un giorno spaventoso ma il vero terrore, per molti di noi, era proiettato verso il futuro. Se Al Qaeda aveva dimostrato tutta la sua spietata efficienza in quegli attacchi sanguinosi, ancora più assillante si faceva la preoccupazione che il gruppo esercitasse già fortissime lusinghe sui cuori e le menti dei fedeli musulmani sparsi in tutto il mondo, o si apprestasse a farlo.

Oltre un miliardo e mezzo di musulmani vivono oggi in più di 150 Paesi. Se l' ideologia jihadista fosse stata in grado di sedurre una percentuale significativa di questa popolazione, l' Occidente si sarebbe ritrovato ad affrontare uno scontro interminabile di civiltà, uno scontro fatto di sangue e lacrime.

Questi timori erano più che fondati. Gli attacchi dell' 11 settembre avevano squarciato il velo sulla realtà di un Islam violento e radicale che si era diffuso in tutto il globo. I sondaggi nel mondo arabo svelavano un risentimento profondo contro l' America e l' Occidente e un sorprendente sostegno per Osama Bin Laden. In gran parte di questi paesi, i governi si mostravano ambigui, presumendo che la rabbia degli islamisti si sarebbe scagliata contro gli Stati Uniti.

Da allora sono trascorsi più di otto anni, assai movimentati, ma per molti versi si respira ancora l' aria del 2001. I repubblicani, in America, sanno che soffiare sul fuoco della minaccia jihadista rappresenta ancora una strategia vincente. E gli analisti non mancano mai di fornire esempi di arretratezza e brutalità provenienti da varie parti del mondo musulmano - e ve ne sono un' infinità - per ribadire il grave pericolo in agguato. E invece, in realtà, l' intera prospettiva della guerra al terrore ha conosciuto un' evoluzione straordinaria. In parole povere, i moderati hanno impugnato le armi e oggi siamo di fronte a una svolta. Non si ravvisa più il rischio che una grande nazione cada in preda all' ideologia jihadista.

Nella maggior parte delle nazioni musulmane, i governanti sono riusciti a stabilizzare i regimi e il tessuto sociale, isolando gli estremisti. Se non si è vista la nascita di governi liberali e democratici, tuttavia sono emerse forze moderne, inclini alla laicità, a raccogliere ampi consensi nel mondo musulmano. La prima reazione dell' America, dopo l' 11 settembre, è stata quella di puntare dritta su Al Qaeda. Scacciato dalle sue basi in Afghanistan, il gruppo è stato incalzato dovunque si rifugiasse. I suoi fondi sono stati identificati e bloccati, i suoi combattenti arrestati o eliminati. Molte nazioni hanno preso parte all' intervento armato, dalla Francia alla Malesia. Ovvio, nessun governo poteva permettersi di lasciar libero il campo ai terroristi sul proprio suolo. In quegli stessi anni iniziava un dibattito più ampio.

La dichiarazione più influente sull' Islam, successiva all' 11 settembre, non è scaturita da un discorso presidenziale, né dalle riflessioni di qualche intellettuale. Si trova, incredibilmente, in una relazione delle Nazioni Unite.

Nel 2002 il Programma di sviluppo dell' Onu pubblicava uno studio dettagliato sul mondo arabo. Il rapporto spiegava chiaramente che nell' era della globalizzazione, che privilegiava l' apertura, la diversità e la tolleranza, gli arabi erano rimasti molto indietro. Lo studio tratteggiava un quadro di stagnazione politica, sociale e intellettuale dal Maghreb al Golfo. Ed era stato stilato da un' équipe di studiosi arabi. Non si trattava di paternalismo nè di imperialismo, ma di verità pura e semplice. Il rapporto Onu, di pari passo con tutta una serie di discussioni e analisi da parte di figure politiche ed esponenti culturali in Occidente, ha innescato un processo di riflessione nel mondo arabo. Sebbene il dibattito non abbia preso la forma che molti in Occidente auspicavano - nessuno ha confessato, avete ragione voi, siamo arretrati - tuttavia non pochi leader si sono visti costretti a promuovere modernità e moderazione, anziché sperare di coglierne i frutti con una mano, pur continuando a negoziare con i mullah con l' altra.

Il governo Bush ha avviato programmi in tutto il mondo musulmano per rafforzare i moderati, stimolare la società civile e organizzare forze di tolleranza e pluralismo. E tutto questo ha dato risultati concreti. Da Dubai ad Amman fino al Cairo, le autorità hanno cominciato a fare concessioni in quei sistemi economici e politici fino ad allora tenuti sotto sorveglianza. Se i cambiamenti, in alcuni casi, sono stati minimi, il cammino intrapreso punta nondimeno nella giusta direzione. Alla fine, il catalizzatore del cambiamento si è rivelato un' arma ben più potente di qualsiasi analisi. Dopo l' 11 settembre, Al Qaeda si presentava aggressiva e baldanzosa: ricordiamo i video di Bin Laden e del suo vice, Ayman al-Zawahiri, straripanti di boriosi progetti.

Ma i terroristi già dovevano fare i conti con un ambiente ostile: spostare soldi, manovalanza e materiali era un' impresa ogni giorno più difficoltosa. Pertanto - direttamente o tramite gruppi locali da essi manovrati - hanno cominciato a colpire dove potevano, puntando su obiettivi nazionali anziché globali, tra cui locali notturni e alberghi in Indonesia, una festa di matrimonio in Giordania, bar e caffè a Casablanca e Istanbul, villaggi turistici in Egitto. Hanno minacciato quegli stessi regimi che, per caso o intenzionalmente, avevano concesso loro di vivere e agire indisturbati. Negli anni 2003 e 2004, l' Arabia Saudita è stata scossa da una serie di attacchi terroristici, alcuni contro gli stranieri, ma altri diretti al cuore del regime. La monarchia si è vista costretta ad ammettere di aver nutrito forze oscure che mettevano in pericolo la sua stessa esistenza. Nel 2005 è salito al trono re Abdullah, uomo saggio e moderato, che ha varato una vasta riforma politica e intellettuale per screditare l' ideologia jihadista.

Ai mullah è stato ordinato di denunciare gli attentatori suicidi, e ogni azione violenta in generale. L' istruzione è stata sottratta al monopolio dei religiosi. I terroristi e i sospettati di terrorismo sono stati «riabilitati» grazie a vasti programmi di rieducazione, formazione al lavoro e assistenza psicologica. Il comandante in capo delle forze americane, generale David Petraeus, mi ha confidato: «Il ruolo saudita nell' affrontare Al Qaeda, sia con l' impiego della forza ma anche ricorrendo a strumenti politici, sociali, religiosi e educativi, resta uno dei successi più significativi della guerra al terrore, anche se tra i meno pubblicizzati». Dall' 11 settembre, gli osservatori occidentali hanno fatto appello ai leader musulmani moderati affinché condannassero l' ideologia jihadista, emanassero una fatwa contro gli attentatori suicidi e denunciassero Al Qaeda. Dai primi del 2006, all' appello hanno risposto in numero sempre crescente. L' università Al-Azhar del Cairo, la più antica e prestigiosa scuola di cultura islamica, oggi respinge fermamente il jihadismo. Il movimento Darul Uloom Deoband in India, patria del radicalismo originale che ha ispirato Al Qaeda, ha apertamente condannato gli attentati suicidi dal 2008. Nessuno di questi gruppi o personalità ha adottato posizioni liberali o proamericane, ma tutti si sono impegnati nel contrastare il jihadismo. Se questo rischia di apparire un dibattito esoterico, basta considerare che i principali moderati nel denunciare i militanti sono stati i familiari dei radicali.

Nel caso dei cinque giovani musulmani americani della Virginia, arrestati in Pakistan l' anno scorso, e dell' attentatore di Natale, Umar Faruk Abdulmutallab, i genitori avevano trasmesso le loro preoccupazioni riguardo le attività dei figli direttamente al governo americano, un gesto talmente sorprendente da meritare una riflessione molto più approfondita di quanto non abbia finora ricevuto - per non parlare di pubblico encomio. E' qui che il potere morbido diventa cruciale. Se i genitori di questi ragazzi fossero convinti che gli Stati Uniti sono pronti a torturare, mutilare e mettere a morte i loro figli senza aderire ai principi della giustizia, non si sarebbero fatti avanti. Dubito che un padre ceceno abbia finora denunciato il proprio figlio al regime di Vladimir Putin. Il professor Fawaz Gerges, della London School of Economics, ha analizzato i sondaggi prevenienti da decine di Paesi musulmani nel corso degli ultimi anni. Ha osservato che in alcuni - Giordania, Pakistan, Indonesia, Libano e Bangladesh - sono di molto calati i sostenitori degli attentati suicidi e di altre forme di violenza contro obiettivi civili come mezzo per difendere l' Islam.

La maggioranza oggi afferma che tali attacchi sono raramente accettabili. In Giordania solo il 12% della popolazione considera gli attacchi suicidi «spesso o talvolta giustificati» (era il 57% nel 2005). In Indonesia, l' 85% si dice d' accordo che gli attacchi terroristici sono «raramente o mai giustificati» (nel 2002 solo il 70% era contrario agli attentati). In Pakistan, quella cifra tocca oggi il 90%, dal 43% nel 2002. Gerges fa notare che, in confronto, solo il il 46% degli americani afferma che «gli attentati con ordigni esplosivi o altro genere di attacchi intenzionalmente diretti contro i civili non sono mai giustificati», mentre il 24% tiene che tali attacchi sono «spesso o talvolta giustificati».

Il cambiamento in questione non scaturisce da un rifiuto della religiosità - nemmeno nell' interpretazione più retriva dell' Islam. Quella battaglia ideologica persiste e ci vorranno decenni, non anni, per vederne la fine. Ma la lotta contro il jihadismo ha dato risultati molto migliori, e molto prima, di quanto si sarebbe potuto immaginare. Le eccezioni balzano agli occhi - Afghanistan, Pakistan, Yemen. Se consideriamo però le condizioni di questi Paesi, osserviamo che in Afghanistan l' ideologia jihadista ha sposato una vera guerra etnica, scatenata dai Pashtun, che si sentono spodestati da gruppi rivali.

In Pakistan, il regime è rimasto al punto in cui si trovava l' Arabia Saudita negli anni 2003 e 2004: comincia lentamente a capire che l' estremismo sinora fomentato, per motivi di convenienza, si è trasformato in una minaccia alla sua stessa sopravvivenza. Nello Yemen, la realtà è che il governo non ha i mezzi per contrastare gli estremisti. Pertanto è lecito concludere che in quei Paesi dove il governo non dispone della capacità o della volontà di contrastare il jihadismo, Al Qaeda continuerà a prosperare. La natura del nemico però è oggi molto diversa. Non si tratta più di un movimento capace di trascinare con sé il mondo arabo. Con questo non voglio dire che sia venuto il momento di sospendere o rallentare la caccia ai militanti. Al Qaeda resta sempre un' organizzazione di assassini spietati e implacabili. Ma l' aura magica è sfumata e la sua influenza politica si è molto ridimensionata.

L' America non è più impegnata in una lotta di civiltà contro il mondo musulmano, bensì in una campagna militare e di intelligence in un certo numero di località prescelte. Anche se gli Stati Uniti perseguono un progetto ampio e mirato nel sostenere lo sviluppo democratico in Afghanistan e nello Yemen, basterà questo a dissuadere il primo disadattato nigeriano - o fanatico di Detroit - dal salire a bordo di un aereo con le mutande imbottite di esplosivo? Questi individui sono irraggiungibili. Non ci si può ragionare. L' unica soluzione è l' arresto o l' eliminazione.

Ma il nemico non è tentacolare e il pantano è in fase di bonifica. Nel campo ideologico, Al Qaeda ha già perso. Ciò che resta è la battaglia per sconfiggerla in tutti gli anfratti, fenditure e crepe dove essa si annida nel mondo reale.

(traduzione di Rita Baldassarre) © Newsweek

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