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Tribalismo, male enorme dell'Africa nera

di Anna Bono  labussolaquotidiana.it 16-11-2011

Dal 18 al 20 novembre Papa Benedetto XVI sarà in Benin, Africa Occidentale, per una visita apostolica durante la quale consegnerà ai vescovi africani l’”Esortazione apostolica post-sinodale” frutto del Secondo Sinodo per l’Africa, svoltosi nel 2009 sul tema “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”.


In attesa dell’evento, merita ripensare le parole del Pontefice rivolte ai vescovi dell’Angola lo scorso 29 ottobre durante la loro visita ad limina: in particolare quelle dedicate al tema del “tribalismo etnico” nei cui residui Benedetto XVI ha individuato uno tra i maggiori ostacoli, insieme alle religioni tradizionali e alla diffusione del concubinato, al cammino della fede e allo sviluppo umano in Africa. 

Spesso minimizzato, ignorato e persino del tutto negato, oppure spiegato come un fenomeno estraneo alla tradizione africana, nato con la colonizzazione europea, il tribalismo è in realtà uno dei tratti distintivi della vita africana, oggi come in passato: un sistema di comunità alle quali si appartiene per nascita, invalicabili e insostituibili, antagoniste e ostili. 

Né l’islam, con la sua proposta unificante di una “umma”, la comunità dei fedeli, né il cristianesimo, con il suo messaggio di fratellanza universale, sono riusciti a sradicarlo. Anzi, ne sono divenuti una modalità là dove, come ad esempio in Nigeria, tribù convertite nei secoli alle due religioni si affrontano, contendendosi come accade da millenni risorse e mezzi di sopravvivenza. 
La guerra inter e intra tribale di conquista – per il controllo di terre fertili, pascoli, punti d’acqua... – e di rapina – per accrescere le risorse a disposizione con raccolti, bestiame, utensili e forza lavoro sottratti ad altre comunità – è un elemento strutturale delle economie di sussistenza africane, tutte caratterizzate – che si tratti di caccia e raccolta, pastorizia o agricoltura – da una produttività molto bassa. 

Warie Dirie, la ex fotomodella somala di fama internazionale che da anni si batte contro le mutilazioni genitali femminili, ha fornito una semplice e perfetta definizione del tribalismo in “Lettera a mia madre” (Milano, 2009): “In Somalia – ha scritto – i rapporti di sangue sono le fondamenta di ogni interazione sociale. (...) La tua famiglia, il tuo sotto-clan, il tuo clan sono tutto ciò che hai. Il clan decide la posizione di ciascuno all’interno della famiglia. Determina chi puoi considerare amico e chi devi guardare come un nemico. Cosa puoi vendere e a chi.

Cosa puoi comprare e da chi. Il clan è il tuo presente e il tuo futuro. Sente al posto tuo, agisce al posto tuo e pensa per te. È la tua anima e la tua identità. Il clan può proteggerti, ma può anche diventare la tua prigione”. Altrettanto perfetta è la sintesi della mentalità tribale espressa, sempre nello stesso testo, in un ammonimento del padre: “Questa è la legge della tua famiglia: tu e i tuoi fratelli contro i vostri fratellastri. I tuoi fratelli, i tuoi fratellastri e tu contro i vostri cugini. La vostra famiglia contro le altre famiglie. Il vostro clan contro gli altri clan”.

Negli stati moderni nati con le indipendenze, la conflittualità etnica non solo non è venuta meno, ma si è estesa al controllo dell’apparato statale, fonte di potere e di ricchezze immense, e ha assunto potenzialità distruttive enormi grazie alla disponibilità di armi e di tecnologie militari un tempo assenti. 

Incessanti sono gli appelli delle autorità religiose, purtroppo inascoltati, a superare il tribalismo in nome del bene collettivo. Ultimo in ordine di tempo è quello dei leader religiosi del Kenya, riunitisi il 24 ottobre per parlare delle prossime elezioni generali, in agenda tra poco più di un anno: “I processi politici in Kenya – si legge nel documento pubblicato alla fine dell’incontro – appaiono incentrati sul fulcro dei gruppi tribali e ciò, oltre a rendere le elezioni delle mere maratone etniche, trasforma la sconfitta dei candidati in una questione interna alla comunità piuttosto che politica”. 

A situazioni del genere pensava il Papa denunciando pochi giorni dopo la tendenza delle comunità africane a chiudersi e a respingere gli estranei ed esaltando per contro il vincolo “più forte di quello delle nostre famiglie terrene e di quello delle vostre tribù” che si crea attorno all’altare dove la condivisione del sangue e del corpo di Cristo “rende fratelli e sorelle realmente consanguinei” uomini e donne “di tribù, lingue e nazioni diverse”.

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