SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Divorziati risposati: continua il dibattito
di Giorgio Carbone 09-03-2014 http://www.lanuovabq.it

Le "amnesie" del cardinale Kasper

Il cardinale Walter Kasper dedica la sezione più lunga della sua relazione al Concistoro del 20 febbraio scorso al tema doloroso del fallimento dell’unione matrimoniale e alle prospettive pastorali verso le persone divorziate e risposate. In particolare presenta due casi ponendo ai suoi colleghi cardinali delle domande al fine di approfondire le soluzioni pastorali. L’ambito è così circoscritto.

Il primo caso è quello di una persona soggettivamente convintache il matrimonio da cui proviene non è valido. Oggi il Diritto canonico stabilisce che la valutazione circa la validità o la nullità del matrimonio compete ai tribunali ecclesiastici. Perciò Kasper domanda: «Non sarebbero possibili altre procedure più pastorali e spirituali? In alternativa si potrebbe pensare che il vescovo possa affidare questo compito a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale quale penitenziere o vicario episcopale».

Sotto questo profilo teoricamente è tutto possibile, perché – come rileva lo stesso cardinal Kasper – le procedure canoniche e i tribunali ecclesiastici non sono di istituzione divina, non sono di diritto divino, ma sono istituzioni umane, sono elaborate della Chiesa nel corso della sua esperienza e quindi possono tranquillamente mutare.

L’obiettivo è valutare la verità circa l’esistenza o meno di un sacramento, di un matrimonio tra due presunti coniugi. L’attuale procedura canonica prevede una stretta collaborazione tra molte figure processuali (ad es. il promotore di giustizia, il difensore del vincolo, gli avvocati di parte, i collegi giudicanti, i periti). Tale procedura e in particolare la condizione della duplice sentenza conforme, cioè il doppio grado di giudizio, quello di prima istanza e quello di appello, hanno lo scopo di garantire quanto più oggettivamente è possibile l’accertamento della verità del sacramento, di tutelare tutte le parti, il coniuge attore della causa e il coniuge convenuto. Potremo elaborare anche altri metodi di accertamento a condizione che consentano di raggiungere un grado di garantismo processuale pari o superiore all’attuale sistema, e a condizione che assicurino un’attenta ponderazione dei singoli casi.

Ora, affidare il giudizio circa la verità di un matrimonio a una singola persona, per quanto attenta, competente e pastoralmente preparata, mi sembra quanto mai imprudente data anche la posta in gioco. Quanti abbagli si prendono quando si è soli a giudicare. La prudenza pastorale plurisecolare infatti chiede un organo di giudizio collegiale e non monocratico.

Il secondo caso è quello più delicato, perciò riportiamo le stesse parole con le quali il cardinal Kasper pone la domanda: «Un divorziato risposato: 1. se si pente del suo fallimento nel primo matrimonio, 2. se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro, 3. se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile, 4. se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede e di educare i propri figli nella fede, 5. se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione, dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e della comunione? Questa possibile via non sarebbe una soluzione generale».

Questo caso ricorda per alcuni passaggi un testo del magistero di Giovanni Paolo II. Si tratta dell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio, n. 84: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi».

Quindi, se i divorziati risposati sono nelle condizioni elencate da Kasper e se la condizione n. 4 consiste in quello che scrive Giovanni Paolo II cioè «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi», allora possono essere ammessi al sacramento della penitenza e a quello dell’eucaristia.

Ma se il cardinal Kasper ha posto la domanda per approfondire significa almeno che la condizione n. 4 non consiste in quello che scrive Giovanni Paolo II. Dobbiamo perciò pensare che il caso elaborato da Kasper tratti di persone divorziate risposate, che hanno motivi seri per continuare a convivere (ad esempio l’esistenza di figli minori) e che hanno tra loro rapporti coniugali.

Nell’Appendice II della relazione si citano molti testi patristici e si fa riferimento alla dottrina del peccato veniale. Ora è necessario fugare qualsiasi equivoco: un peccato può essere oggettivamente grave e soggettivamente veniale o perché l’avvertenza della mente non è piena (esempio, mancanza di lucidità non colpevole) o perché manca, in tutto o in parte, il deliberato consenso della volontà. In altri termini un atto disordinato, oggettivamente grave e quindi mortale, potrà essere peccato veniale per quei difetti soggettivi che riguardano l’intelligenza o la volontà di chi agisce. Ora nel nostro caso le due persone della coppia sanno perfettamente e vogliono lucidamente. Quindi, non si può parlare di peccato veniale. Inoltre, le cinque condizioni elencate nel caso non potranno cambiare la qualità morale del rapporto sessuale tra due persone non sposate, e tale qualità morale resta sempre adulterio.

Se la Chiesa decidesse di ammettere al sacramento della penitenza e a quello dell’eucaristia questi divorziati risposati, sarebbe ancora fedele al suo Signore che ha chiaramente condannato l’adulterio? E ha chiaramente insegnato l’indissolubilità del matrimonio?

Ma non possiamo piuttosto ribaltare la questione? E pensare: se una coppia di divorziati risposati, che hanno rapporti coniugali e che non riescono a vivere la piena continenza, non è ammessa ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, il fatto di non essere ammessa può essere vissuto come penitenza? La non ammissione ai sacramenti può essere proposta dalla Chiesa come una tappa del cammino penitenziale? Come un aspetto della metanoia a cui accenna anche il cardinal Kasper?

In fondo tutti i più recenti documenti del magistero invitano non solo al discernimento dei singoli casi, ma anche alla penitenza non sacramentale delle persone divorziate risposate. Si legga sempre Familiaris Consortio n. 84: «Con ferma fiducia la Chiesa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità».

Nella storia plurisecolare della cristianità ci sono numerosi esempi di prassi penitenziali in ragione delle quali i penitenti non erano ammessi ai sacramenti proprio come segno esteriore della penitenza interiore. Non si tratta quindi di una forma di esclusione infamante, ma di un percorso di conformazione a Cristo che passa dalla rinuncia a un proprio modo di vedere i sacramenti al modo con cui Cristo pensa ai sacramenti. È questa la metanoia, il cambiamento di pensiero a cui tutti siamo chiamati. Questa è l’autentica conversione: pensare come Cristo, avere lo stesso pensiero di Cristo, la sua stessa mentalità e il suo stesso sguardo sulle persone e le creature.

Nell’Appendice II il cardinal Kasper cita sommariamente Agostino, La fede e le opere 19,35. Il testo è molto significativo perché ricorda una prassi negligente dei pastori nei confronti degli adulteri e anche un rischio tuttora reale: l’incidenza dell’adulterio in una popolazione aumenta quando non si rimprovera tale peccato, quando anzi lo si difende oppure quando lo si trascura: «Sembra che per i costumi dei cattivi cristiani, un tempo addirittura pessimi, non fosse un male il fatto che uomini sposassero la moglie di un altro o che donne sposassero il marito di un’altra, per questo forse si insinuò presso alcune chiese questa negligenza per cui nelle istruzioni ai richiedenti non si indagava né si riprovava su tali vizi. Così è avvenuto che si è incominciato anche a difenderli. Tali vizi tuttavia sono ancora rari nei battezzati, a meno che non li facciamo aumentare col trascurarli. Quella che alcuni chiamano negligenza, altri inesperienza, e altri ancora ignoranza, probabilmente è ciò che il Signore ha designato con il nome di sonno, dove dice: Ma mentre tutti dormivano venne il tuo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano [Mt 13,25]».

Infine, la vera questione non è tanto il dopo, cioè la patologia del matrimonio (per quanto sia drammatica e dolorosa), la vera soluzione è il prima, cioè la preparazione al sacramento e il radicamento della coppia nella fede, nella speranza, nell’amore divino e nel desiderio di santità reciproca.

Divorziati risposati, ecco le vie della misericordia
di Domenico Marafioti 12-03-2014

Nell'articolo di padre Giorgio Carbone OP, "Le amnesie del cardinale Kasper", a proposito del caso dei divorziati risposati, si fa riferimento alla possibilità di vedere il divieto di accostarsi alla Comunione come parte di un cammino penitenziale, recuperandone così un valore positivo. Questo argomento viene qui approfondito da padre Domenico Marafioti SJ, teologo e docente alla Facoltà teologica dell'Italia meridionale.

Normalmente i cristiani peccatori ricevono il perdono attraverso il sacramento della confessione. Questa è la via sacramentale, la via della certezza della fede, garantita dalla Chiesa. E quando il sacerdote nel rito di congedo dice: “Il Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va’ in pace”, ognuno, se si è confessato bene, è sicuro di essere stato perdonato. 

Ci sono però alcuni che non possono ricevere questo sacramento perché non riescono a riparare il male fatto o a distaccarsi dalla condizione oggettiva di peccato. La riparazione o soddisfazione è il terzo atto del penitente, che non può essere omesso. Non basta proporsi di fare il bene per il futuro, bisogna impegnarsi a riparare il passato, specialmente quando si è commessa una ingiustizia verso il prossimo. Se uno ha rubato dieci milioni, non basta che si impegni a fare beneficienza, deve restituire i soldi rubati. 

Nella situazione di non poter riparare il male fatto, si trovano i divorziati risposati, che hanno formato una nuova famiglia. Questi possono avvicinarsi al perdono di Dio attraverso una via non sacramentale(Reconciliatio et Paenitentia 34; Familiaris Consortio 84), che è la preghiera come richiesta di perdono. Il testo biblico più eloquente è la parabola del fariseo e del pubblicano di Lc 18,13-14. Mentre il fariseo presenta i propri meriti, il pubblicano confessa il suo peccato e chiede perdono, ripetendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore!». Gesù dice che questi tornò a casa giustificato; tuttavia nessuno gli ha detto: «Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati», come Gesù stesso lo ha detto al paralitico (Mt 9,2). Il pubblicano quindi se ne va giustificato, perché confida nella bontà e nella misericordia di Dio. Lui non ha la certezza del perdono, ma ha speranza di riceverlo, perciò lo ha chiesto nella preghiera. Gesù dice che la sua speranza non è stata delusa. La domanda sincera di perdono l’ottiene mediante la preghiera che si appoggia alla speranza. In questo senso anche la domanda di perdono contenuta nel Padre Nostro ha la sua efficacia. Infatti san Paolo conferma che «la speranza non delude» (Rm 5,5), perché anch’essa è una virtù teologale, che presiede alla vita cristiana. Vediamo meglio come questo si applichi ai divorziati risposati.

Il vangelo e la liturgia della Quaresima propongono le tre opere penitenziali, preghiera, digiuno, elemosina, come vie al perdono e al rinnovamento della vita (Mt 6, 1-18; Tb 12,8). I testi biblici che li confermano sono molti. Per la preghiera come via al perdono basta citare il Miserere (Sal 50/51); Mc 9,29 e lo stesso Padre Nostro; per il digiuno, inteso sia come privazione di cibo, sia come privazione di qualsiasi tipo con un minimo di vita ascetica, si veda Giona 3,7; Gioele 2,12.15; Mt 17,21; At 14,23 (preghiera e digiuno); per l’elemosina: Tb 4,7-10; Sir 3,29; Lc 16,9; Mt 25,31ss; senza dimenticare l’affermazione di 1Pt 4,8: «La carità copre una moltitudine di peccati». 

Queste vie non sacramentali al perdono possono essere percorse con fiducia, perché sono state sempre raccomandate dalla grande tradizione ecclesiale. Si veda il testo di san Pier Crisologo: «O uomo, sii tu stesso per te la regola della misericordia. Il modo con cui vuoi che si usi misericordia a te, usalo tu con gli altri… Perciò preghiera, digiuno, misericordia siano per noi un'unica forza mediatrice presso Dio, siano per noi un'unica difesa, un'unica preghiera sotto tre aspetti» (Liturgia delle Ore, vol. 2,209). 

Qui "misericordia" è intesa in senso molto pratico, come nelle "opere di misericordia" corporali e spirituali. In modo simile anche san Giovanni Crisostomo propone 5 vie di riconciliazione: «Abbiamo indicato cinque vie di riconciliazione con Dio. La prima è la condanna dei propri peccati. La seconda è il perdono delle offese. La terza consiste nella preghiera, la quarta nell'elemosina e la quinta nell'umiltà… Avendo dunque imparato il modo di guarire le nostre ferite, adoperiamo questi rimedi. Riacquistata poi la vera sanità… andremo incontro a Cristo, re della gloria, e conquisteremo per sempre i beni eterni per la grazia, la misericordia e la bontà del Signore nostro Gesù Cristo» (Liturgia delle Ore, vol. 4,139s.). 

La preghiera fiduciosa e insistente, e l’impegno nell’amore e nell’aiuto del prossimo costituiscono vie sicure al perdono, perché è più pronto Dio a concederlo che l’uomo a riceverlo. Le testimonianze dei santi sulla misericordia divina attraversano i tempi e raggiungono i nostri giorni. Basta ricordare santa Faustina Kowalska che si sente dire da Gesù: «Desidero che i sacerdoti annuncino la mia grande Misericordia per le anime dei peccatori. Il peccatore non deve aver paura di avvicinarsi a Me»; «Guarda il mio Cuore pieno di amore e di misericordia per gli uomini, ma specialmente per i peccatori» (Diario, nn. 50. 1663). A questa misericordia tutti possono ricorrere in tutte le situazioni; sarà la sapienza dell’amore di Dio a trovare le vie per far giungere il perdono al peccatore.

Il perdono, che si crede di ottenere con sicura speranza,non autorizza a ricevere la comunione eucaristica.L’eucaristia è sacramento visibile della comunione invisibile con Dio e con la Chiesa, garantita dalla stessa Chiesa. La Chiesa non può riconoscere la comunione tra l’uomo e Dio, quando non c’è conformità tra la condotta umana e la volontà di Dio espressa nei comandamenti e nel Vangelo. Perciò non può dare la comunione sacramentale a chi vive l’opposizione reale tra comportamenti umani e volontà di Dio. L’Eucaristia come comunione sacramentale deve esprimere, rendere visibile la comunione reale. Se invece c’è contrapposizione tra ciò che Dio dice e ciò che l’uomo fa (e questo è il peccato), allora non si può ricevere la comunione eucaristica, perché il segno non corrisponde alla realtà. La speranza del perdono non è il perdono ottenuto, la speranza della riconciliazione non è la riconciliazione realizzata. La speranza apre lo spazio dell’attesa fiduciosa, non introduce nello spazio dell’amicizia ricostituita.

Questa è la differenza tra il perdono nella certezza della fede attraverso il sacramento della riconciliazione, e il perdono nella sicurezza della speranza per la fiducia nella preghiera. Nel sacramento giudica la Chiesa, nella preghiera l’unico giudice è la coscienza; ma questa non può esigere il riconoscimento ecclesiale in assenza di elementi oggettivi concreti. Il disordine oggettivo, che impedisce di ricevere l’assoluzione sacramentale, non può essere ignorato dal sacerdote, né annullato dalla valutazione personale della coscienza soggettiva. 

La certezza della fede sa, la sicurezza della speranza attende il perdono; perciò il peccatore, consapevole del suo peccato, si astiene volontariamente dai sacramenti e attende con fiducia il momento in cui Dio manifesterà la sua misericordia al di là di ogni desiderio e di ogni merito. D’altra parte, la fede nella divina misericordia sostiene l’impegno sulla via della speranza, virtù teologale per la vita del cristiano nel tempo. Questa speranza nella misericordia divina, alimentata nella preghiera e nella partecipazione alla vita della Chiesa, pur senza la comunione eucaristica, può essere vissuta positivamente dal divorziato risposato in spirito di penitenza e di riparazione del male commesso.

Quella speranza, che ha sostenuto la preghiera e la richiesta di perdono durante la vita del divorziato risposato, può però ricevere la sua conferma sacramentale in punto di morte. Infatti già il concilio di Nicea raccomandava a tutti i vescovi di dare la riconciliazione e la pace ai peccatori: «Verso i moribondi si osservi anche ora l’antica norma canonica, per cui in pericolo di morte nessuno sia privato dell’ultimo indispensabile viatico» (can. 13, Denzinger 129). Questa disposizione era a favore dei lapsi, cioè dei cristiani caduti, che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni; essi si erano così esclusi dalla comunione, e solo il vescovo poteva riammetterli dopo una dura e lunga penitenza canonica. Se arrivavano in pericolo di morte senza aver concluso l’itinerario penitenziale,  il vescovo o il sacerdote avevano il dovere di dare la comunione ecclesiale ed eucaristica (viatico). Questa norma, di dare il viatico a tutti i peccatori, può essere applicata anche ai divorziati risposati che si sono impegnati a vivere una vita cristiana seria, partecipando alla vita della comunità e dedicandosi alla preghiera e alle opere di carità.

A qualcuno questo potrebbe sembrare troppo poco, ma in realtà è la cosa più importante: lasciare questa vita in grazia di Dio e così entrare nella vita eterna. Non serve a nulla infatti partecipare esternamente alla vita della Chiesa, se poi si vive e si muore in peccato mortale e si va nella perdizione eterna. L'importante è lasciare questa vita con il perdono del Signore, come il buon ladrone (Lc 23,39-43). La Chiesa può assicurare gli ultimi sacramenti ai divorziati risposati sulla base di questa disposizione del concilio di Nicea, e anche perché in punto di morte si verificano le condizioni normali di interruzione dei rapporti coniugali, che avrebbero consentito anche prima, a determinate condizioni, il conferimento dei sacramenti (Direttorio, 220). In questo momento supremo la via non sacramentale della speranza incontra la via sacramentale della penitenza e della riconciliazione con la Chiesa e con Dio.



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