SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Eutanasia e fine vita : a che punto è la notte.

Un medico del Gemelli riapre il caso del fine vita.
Lo specialista che cura la Sla: i pazienti possono scegliere se rinunciare all’ossigeno :
«Non si confonda la desistenza con l’eutanasia»

di Margherita De Bac http://www.corriere.it/salute/14_giugno_05 | 09:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA

ROMA - «La Sla è un’infame. Toglie tutto, lascia solo il pensiero. Mamma una mattina ha chiamato i medici e sussurrando ha detto no. Poi con l’alfabeto muto si è rivolta a me. Non ce la faccio più, non voglio vivere così».

Paola è la figlia di una signora di 72 anni, ricoverata a lungo al Gemelli, che ha rifiutato la tracheostomia, ultima risorsa per persone annientate da una degenerazione muscolare che non lascia scampo e annulla il respiro. Ma la donna ha preferito sottrarsi a «un supplizio inutile».

Sette malati su dieci preferiscono evitarlo e essere accompagnati verso la fine con la mascherina della ventilazione meccanica e cure palliative. Lo afferma Mario Sabatelli, neurologo del policlinico universitario, una professione dedicata alla Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. Hanno fatto clamore le sue dichiarazioni rilasciate all’associazione Viva la Vita e poi riprese dal Fatto quotidiano : «Trovo assurdo che il destino di chi è costretto a vivere con un tubo in gola debba essere deciso a tavolino. È illegittimo. Mario Riccio, il medico di Piergiorgio Welby, è stato prosciolto, qualcosa vorrà dire».

Lo specialista precisa anche di aver già interrotto la terapia di sostegno a un paziente trecheostomizzato. Per sgombrare il campo da ogni strumentalizzazione Sabatelli chiarisce al Corriere : «La fame d’aria è il peggior dolore. Alcuni colleghi ritengono che la tracheostomia, cioè il taglio della trachea, debba essere applicata di prassi. A mio giudizio è uno strumento sproporzionato, una violenza. Noi non siamo notai. Lasciamo che siano i malati a decidere in sintonia con i medici. Risparmiare il tubo in gola non è un gesto eutanasico. Significa rispettare la loro volontà. Non è vero che da noi i pazienti sono liberi di morire. Sono liberi di scegliere come vivere. Sono lucidi, padroni dei loro pensieri».

L’ospedale dei pontefici

Riflessioni che sarebbero cadute nel vuoto se a pronunciarle non fosse stato un medico del Gemelli, propaggine sanitaria del Vaticano, l’ospedale dove sono stati operati i pontefici. E si capisce quanto l’intervista sia risultata scomoda in una fase in cui continuano a riaffiorare proposte di leggi sul testamento biologico e libertà di scelta. Quando escono fuori storie del genere il rischio è che si faccia confusione sui termini. In realtà quello che ha raccontato Sabatelli rientra nei canoni della buona prassi clinica. Paolo Maria Rossini capo della neurologia del Gemelli precisa: «Qui non parliamo di persone in stato vegetativo ma di persone lucide. L’esame dei singoli pazienti è effettuata da una squadra di sanitari che si basano su leggi, etica e rispetto dei valori cattolici. Tra noi c’è un eticista clinico. In ogni situazione cerchiamo di valutare se il mezzo terapeutico è proporzionato al guadagno in termini di salute anche psicologica». E Massimo Antonelli, direttore della rianimazione del Gemelli aggiunge: «I nostri pazienti non vengono mai abbandonati a se stessi. Non si può confondere tra eutanasia e desistenza dalle cure». Anche la scelta della mamma di Paola è stata vagliata da una commissione etica.

Scelte personali

Il reparto di neurologia del Gemelli sembra lontano mille miglia da queste polemiche. Racconta Angela, figlia di un paziente: «Mio papà, Pasquale, la tracheo l’ha voluta. Sono incinta e vuole aspettare che il nipotino nasca. Dice che non può perdere questa felicità. La sua gioia siamo noi che lo andiamo a trovare o la fotografia del primo nipote che soffia su tre candeline. Ecco come mai ha scelto di andare avanti pur sapendo che la fine si avvicina». E poi c’è Nicoletta, detta Nicla, ex insegnante delle elementare in pensione, al Gemelli col marito Giovanni che ha insegnato matematica: «Lo vede quanto legge, come è lucido e attento? - lo indica mentre è seduto su una panca in corridoio -. Giovanni sa quali sono gli stadi inesorabili della Sla, il dottor Sabatelli gli ha spiegato tutto. Anche che un giorno dovrà mettergli il tubo in gola per farlo respirare. Accetterà? Rifiuterà? Non ne abbiamo parlato. Evita il discorso e di tanto in tanto piange. Io certo non lo fermerò».

Eutanasia, l’ammissione del medico: «Ho aiutato cento malati a morire»
Giuseppe Maria Saba, 87 anni, già ordinario di Anestesiologia e rianimazione a Cagliari e Roma:
«La dolce morte è una pratica consolidata negli ospedali italiani»

l’intervista pubblicata su «l’unione sarda»

di Redazione Salute Online http://www.corriere.it/salute/14_giugno_08 8 | 14:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA

«Ho aiutato a morire un centinaio di malati. Non la chiamo anestesia letale ma dolce morte, è una questione di pietà».

Faranno discutere le parole del medico anestesista sassarese Giuseppe Maria Saba, 87 anni, già ordinario di Anestesiologia e rianimazione all’Università di Cagliari prima e poi alla Sapienza di Roma, in un‘intervista esclusiva al quotidiano L’Unione Sarda. Una nuova testimonianza, nell’ambito del dibattito sull’eutanasia, e la volontà di parlare, «perché non ne posso più - ha spiegato Saba - del silenzio su cose che sappiamo tutti. Parlo dei rianimatori. La dolce morte è una pratica consolidata negli ospedali italiani, ma per ragioni di conformismo e di riservatezza non se ne parla». Saba si dichiara laico e dice di non credere ai miracoli. E - aggiunge - non è la prima volta che parla di dolce morte: «Nel 1982 in un’altra intervista ho raccontato di aver dato una mano ad andarsene a mio padre e, più tardi, anche a mia sorella», e di esser, per se stesso, «per l’auto-eutanasia. Ho un accordo preciso con mia moglie».

«Che senso ha l’agonia?»

Per essere in pace con la coscienza ed essere rispettosi del Codice deontologico dei medici - spiega ancora Saba nell’intervista -, alcuni parlano di “desistenza terapeutica” anziché di eutanasia ma «il termine desistenza, cioè smetto di ventilarti meccanicamente, significa che sto comunque staccandoti la spina». Alla domanda del giornalista Giorgio Pisano su quando è «il momento di intervenire», il medico risponde con un episodio: «Avevo un amico ricoverato: blocco renale e convulsioni.

Il collega che lo seguiva mi ha chiesto: che facciamo? Ho risposto: io gli darei un Talofen. È un farmaco che, ad alto dosaggio, blocca la respirazione. Tecnicamente è un ganglioplegico. Credo gliel’abbiano dato, il Talofen. Il giorno dopo era in obitorio». Nella sua carriera (è in pensione dal 1999), Saba dice di aver aiutato i malati «quando era necessario, quando te lo chiedono e quando tu, nella veste di medico, ti rendi conto che hanno ragione. Che senso ha prolungare un’agonia, assistere allo strazio di dolori insopportabili che non porteranno mai a una guarigione?». Per questo, conclude, «non ho nulla di rimproverare a me stesso. L’ho sempre fatto di fronte a situazioni che non avevano altra via d’uscita».

Saba aveva rilasciato dichiarazioni analoghe nel 2007 in un’intervista a La Nuova Sardegna, quando sui giornali si parlava di Giovanni Nuvoli, l’algherese malato di Sla che - come qualche anno prima Piergiorgio Welby - aveva chiesto di morire. Saba si era detto favorevole a una legge che, in casi particolari e accertata la volontà del malato, consentisse la dolce morte. E aveva confermato di aver aiutato dei malati terminali di cancro a morire: «Soffrivano le pene dell’inferno, sono stati loro a domandarmi di aumentare la dose di analgesico perché non volevano più restare in quelle condizioni».

Ferma la proposta di legge

Il dibattito sul fine vita è stato riacceso dopo le dichiarazioni di Mario Sabatelli, neurologo del Policlinico Gemelli, sulla libertà del malato di poter interrompere trattamenti sanitari invasivi. Ma il tema non è all’ordine del giorno dei lavori parlamentari, nonostante l’invito rivolto a marzo al Parlamento dal presidente della Repubblica e le 70mila firme di cittadini che chiedono una legge che ne regolamenti gli aspetti principali. La proposta di legge di iniziativa popolare depositata dall’Associazione Luca Coscioni il 13 settembre si è arenata alla Camera: si propone di normare il testamento biologico, ovvero la possibilità di lasciare disposizioni per indicare quali trattamenti sanitari applicare in caso di coma irreversibile del paziente, e l’eutanasia, ovvero l’intervento medico volto ad abbreviare l’agonia di un malato terminale, ad oggi assimilata all’omicidio volontario.

«È un grande tabù per gli italiani mentre molti altri Paesi europei sono avanti - commenta Mina Welby, co-presidente dell’associazione Coscioni, che ha inviato una lettera a Renzi sul tema -. L’Italia è sorda e chiediamo al premier di spingere affinché il Parlamento calendarizzi la proposta ferma da 300 giorni». Sono oltre 120 i comuni che hanno adottato autonomamente il testamento biologico e altri si stanno attrezzando per farlo. Sul tema esistono anche altri tre disegni di legge in questa legislatura, di cui però non è mai iniziato l’esame in Commissione: due al Senato, ovvero quelle di Di Francesco Palermo (Aut-Psi-Maie) e di Luigi Manconi (Pd) e uno alla Camera, quello di Titti Di Salvo (Sel). A questi si aggiunge il testo cui sta lavorando il Movimento 5 stelle. «Non è all’ordine del giorno tra le priorità, ma stiamo già lavorando a una proposta di legge. I tempi non saranno brevi, perché deve passare il vaglio della rete», spiega Andrea Cecconi, presidente del gruppo Movimento 5 Stelle in Commissione Affari Sociali della Camera.

Tra fine vita e ipocrisie di Stato

di Michele Ainis ( costituzionalista ) michele.ainis@uniroma3.it
http://www.corriere.it/   12 giugno 2014 | 16:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Fra i troppi ministeri ospitati dal nostro troppo Stato, ce n’è invece uno di cui s’avverte la mancanza: il ministero della Sincerità. Se mai venisse istituito, ecco il nome giusto per dirigerlo: Giuseppe Saba. Non è giovane (87 anni), non è donna, ha perfino un titolo di studio (era ordinario di Anestesiologia). Peccati imperdonabili, alle nostre latitudini. Ma il peccato più grave l’ha commesso qualche giorno fa, rilasciando un’intervista a L’Unione Sarda. Dove candidamente ammette d’avere aiutato un centinaio di malati terminali, per farli morire senza sofferenze. Dove pronunzia a voce alta la parola tabù: eutanasia. Dove denuncia l’ipocrisia verbale di chi la chiama «desistenza terapeutica», come se non ci fosse in ogni caso una spina da staccare. E dove infine racconta che la dolce morte costituisce una pratica diffusa, diffusissima, nei nostri ospedali. Si fa, ma non si dice. Lui invece l’ha detto.

Non che la notizia ci colga alla sprovvista. Lo sapevamo già, lo sa chiunque abbia assistito all’agonia di un amico o d’un parente, con i medici che armeggiano dentro una stanza chiusa. E i pochi dati in circolo ne offrono la prova. Secondo un’indagine condotta nel 2002 su venti ospedali di Milano, l’80 per cento dei camici bianchi pratica l’eutanasia passiva (ovvero l’interruzione delle cure), il 4 per cento quella attiva (con l’uso di un farmaco letale). Mentre la ricerca più nota — quella imbastita nel 2007 dall’Istituto Mario Negri — stima 20 mila casi l’anno di pratiche eutanasiche. Ma questa è l’esperienza, non la giurisprudenza. Per i nostri codici, se raccogli l’estremo appello di chi non ne può più, rischi la galera. «Omicidio del consenziente», così viene definito. Anche se il tentato suicidio, di per sé, non è reato. Dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene, se ne hai la forza fisica. Non se sei inchiodato a un letto come Eluana, come Welby, come tanti povericristi di cui non abbiamo visto mai la croce.

Per carità, parliamone. Ma sta di fatto che il nostro legislatore è muto come un pesce. Aprì bocca nella legislatura scorsa, però avrebbe fatto meglio a stare zitto. Con il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, che definiva l’alimentazione e l’idratazione forzata «forme di sostegno vitale», quindi irrinunciabili. Come se le cure mediche fossero invece sostegni mortali. E comunque quel disegno di legge non si è mai tradotto in legge. Né più né meno dell’iniziativa popolare depositata in questa legislatura dall’associazione Coscioni, che giace da trecento giorni nei cassetti della Camera. Sulle volontà del fine vita in Italia c’è un buco normativo, che ci distingue dagli altri Paesi occidentali (Usa, Germania, Francia, Inghilterra e via elencando). Nonostante i moniti dei nostri grandi vecchi, da Montanelli a Veronesi. O di Napolitano, che tre mesi fa ha sollecitato (invano) il Parlamento.

Sicché il diritto alla salute si è tramutato nel dovere di soffrire. A meno che non incontri un medico pietoso, e soprattutto silenzioso. Di qua il diritto, anche se è un legno storto; di là la compassione, che tuttavia prova soltanto chi ha passione. Ecco, è questa la frattura che ci separa dal resto del pianeta. È il solco che divide il dover essere dall’essere, la realtà dalla sua immagine legale. È la discrezionalità che in ultimo circonda l’operato di ciascuno, o perché le leggi sono troppe (da qui la corruzione), o perché non c’è nessuna legge in questa giungla. Ed è infine l’ipocrisia di Stato, con le sue doppie leggi, con la sua doppia morale. Ci salverà, forse, un bambino. Oppure un vegliardo, come Giuseppe Saba.

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