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Africa. Per una road map che non fallisca |
di Anna Bono30-05-2014 http://www.lanuovabq.it Nei giorni scorsi l’ONG Aiuto alla Chiesa che Soffre ha organizzato un incontro tra padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano nella Repubblica Centrafricana, e alcuni diplomatici europei accreditati presso la Santa Sede. Come in altre occasioni precedenti, l’obiettivo era ottenere dall’Unione Europea aiuti per mettere fine al conflitto che oppone da oltre un anno islamici e cristiani nella Repubblica Centrafricana: tanto cruento da aver indotto a dicembre Stati Uniti e Nazioni Unite a definire di “pregenocidio” la situazione creatasi. L’ultima strage risale al 28 maggio. Dei miliziani islamici hanno attaccato la chiesa di Fatima nella capitale Bangui dove dei cristiani si erano rifugiati mentre nel quartiere in cui sorge l’edificio era in corso uno scontro tra combattenti Seleka, islamici, e anti-Balaka, cristiani. Si contano da 11 a 30 morti e decine di feriti. I sopravvissuti dicono che, se gli anti-Balaka non fossero accorsi in loro difesa, il bilancio delle vittime sarebbe stato più elevato perché i militari non si sono mossi in aiuto dei cristiani minacciati. Dicono anche che gli anti-Balaka dopo l’attacco alla chiesa hanno eretto dei posti di blocco attorno a Bangui. Le truppe dell’operazione Sangaris inviate dalla Francia e quelle della Misca, la missione dell’Unione Africana – in tutto 7.200 militari – non riescono a impedire le stragi e anzi vengono accusate di schierarsi con i Seleka o con gli Anti-Balaka, a seconda della loro nazionalità e religione. I caschi blu promessi dalle Nazioni Unite non arriveranno prima di settembre. I movimenti antigovernativi sono stati sconfitti grazie all’intervento di una forza internazionale nel gennaio del 2013, ma non del tutto. Il 17 maggio scorso l’Mnla e due gruppi jihadisti, Aqmi e Mujao, hanno sferrato una offensiva riuscendo a impadronirsi nuovamente di uno dei capoluoghi dell’Azawad, Kidal, e di alcune altre città. Tre giorni prima, il 14 maggio, l’Fmi aveva sospeso il pagamento al Mali di 4 milioni di euro, previsto per giugno, dopo la scoperta che il governo maliano ha acquistato un nuovo aereo presidenziale con “modalità controverse” e per un “ammontare discutibile”. Inoltre Fmi e gli altri donors attendono spiegazioni in merito a un ordine di armi da parte del ministero della difesa. I Dinka sono accusati di aver progressivamente accentrato nelle loro mani il potere politico provocando infine la reazione dei Nuer e di altre etnie. Tutte le componenti del governo indistintamente devono rispondere di una diffusa corruzione. In altre parole, tribalismo e malgoverno hanno minato le potenzialità di un paese nato sotto ottimi auspici. Oggi 7 milioni di sudanesi su una popolazione di 11 milioni rischiano la fame. Gli sfollati sono un milione, i profughi quasi 350.000 e si teme salgano a oltre 800.000 entro la fine dell’anno. Le vittime del conflitto sono ormai più di 10.000. Lo scorso settembre, a Bruxelles, un summit internazionale al quale hanno partecipato 50 paesi ha concordato di fornire al governo somalo 1,8 miliardi di euro (650 offerti dall’Unione Europea) in aggiunta al miliardo e 120 milioni già dati al paese tra il 2008 e il 2013 (senza contare i contributi finanziari forniti in precedenza). Il denaro dovrebbe servire a realizzare un New Deal, la ricostruzione del paese devastato da oltre 20 anni di guerra tra clan. Ma i clan continuano a contendersi cariche politiche e amministrative provocando una crisi istituzionale dopo l’altra pur di conquistare un posto in più in parlamento, un altro incarico ministeriale. Una nuova crisi rischia di aprirsi in questi giorni. Il 7 maggio 130 parlamentari su 275 hanno infatti chiesto le dimissioni del presidente Hassan Sheikh Mohamud. Quel che è peggio, la corruzione in Somalia fa sistematicamente sparire due terzi del denaro che entra nelle casse statali: 7 dollari ogni 10, ha calcolato la Banca Mondiale.
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