SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Gli jihadisti italiani arrivano in Siria già indottrinati

di Gianandrea Gaian i18-10-2014 lanuovabq.it

«Decine di italiani», tanti italo-marocchini e italo-libici così come italo-algerini, combattono tra le fila dell'organizzazione dello “Stato Islamico” e arrivano al fronte «già indottrinati dal primo giorno», ma privi di esperienza nell'utilizzo delle armi.

Fares Tammo coordinatore del Consiglio rivoluzionario curdo, ala militare dell'opposizione al regime di Bashar al Assad, è una miniera di informazioni sui combattenti stranieri che militano con il Califfato e all’agenzia Aki/Adnkronos ha raccontato molti dettagli utili a capire le dimensioni e la natura del problema.

Appena concluso l'addestramento, le reclute “italiane” pare si dimostrino "entusiasti" di combattere e del resto dice Tammo sottolineando che «la presenza di italiani tra le fila dell'organizzazione dello Stato islamico è certa» anche se ammette di avere informazioni sui numeri ma non sui nomi. «Posso assicurare che si tratta di decine di persone, e non solo qualche caso isolato, e la maggior parte è originario dei Paesi del Maghreb, ossia italo-marocchini, italo-algerini e italo-libici, un numero inferiore sono musulmani asiatici. Tutti - prosegue - arrivano già indottrinati dal primo giorno e quindi non hanno bisogno di formazione ideologica, ma piuttosto di formazione all'uso delle armi».

Un dettaglio che in realtà ha un peso enorme perché sottintende che la formazione ideologico-religiosa per aderire al Califfato l’hanno già ricevuta proprio in Italia probabilmente in uno dei tanti centri di cultura islamica, o moschee, istituiti in locali concessi dalle amministrazioni locali, senza troppi controlli sul loro reale utilizzo. Un allarme lanciato anche dai servizi di intelligence italiani e rafforzato dall’assenza di istituzioni che verifichino i contenuti divulgati nei centri islamici e di norme che obblighino gli imam a tenere i sermoni in italiano. Se qualcuno di questi miliziani venisse catturato ed estradato, sarebbe interessante interrogarlo per sapere dove è stato indottrinato al jihad.

Un altro dato indicativo riguarda la formazione militare dei volontari che a quanto riferisce Tammo «dura una o due settimane al massimo, poi vengono mandati in battaglia». Un dato che induce a ritenere che la “fame di combattenti” del Califfato sia dovuta alla forte esposizione su molti fronti tra Iraq e Siria dove in quasi tutti si trova all’offensiva richiedendo quindi un ampio numero di reclute con cui rimpiazzare le perdite e alimentare il conflitto. Resta il fatto che due settimane possono bastare ad addestrare un kamikaze ma non certo un combattente.

I volontari italiani del jihad sono giunti in Siria attraverso la Turchia. Saber Bashar, ufficiale di collegamento tra le forze dell'Esercito libero siriano e il quartier generale situato in territorio turco assicura di «aver incontrato almeno tre italiani in circostanze diverse che si erano arruolati con il movimento Ahrar al-Sham e che erano di origine nordafricana, uno forse somalo o marocchino del sud, in quanto di colore. Erano in possesso dei loro documenti ufficiali, nessuno aveva chiesto loro di liberarsene. Non hanno parlato molto del loro passato» - dice Bashar. «Abbiamo parlato del presente e della lotta per la vittoria dei musulmani, ma dai loro discorsi era chiaro che avevano una conoscenza superficiale dell'islam. Uno di loro, si comportava in modo irresponsabile: sui vent'anni, algerino, come avevamo capito dalla parlata, era sempre nervoso e diceva di non voler tornare e che, se fosse stato costretto, sarebbe tornato nel suo Paese e non in Europa».

Il gruppo al quale i tre “italiani” avevano aderito, Ahrar al-Sham, era il più importante degli 11 movimenti salafiti che hanno costituito alla fine del 2012 il Fronte islamico Siriano/Esercito Islamico, formazione sostenuta da Qatar e Arabia Saudita. «Il movimento gli passava dai 200 ai 300 dollari al mese oltre a vitto, alloggio e tutto ciò di cui avessero bisogno» – ha aggiunto Bashar.

L’intero direttivo del gruppo, Hassan Abboud e 27 altri comandanti, è stato annientato in un attentato suicida orchestrato probabilmente dai rivali dello Stato Islamico il 9 settembre scorso.

«Erano entusiasti di combattere. Uno di loro non l'ho più rivisto: forse se ne è andato con altre brigate o con l'Is, che li lusinga di più, o forse è morto, non posso saperlo. Dopo la morte dei comandanti degli Ahrar al-Sham, molti combattenti sono passati con l'Is e il Fronte al-Nusra, e sicuramente i combattenti stranieri sono stati i primi a farlo» -  ha aggiunto Bashar. 

La presenza di volontari europei sembra essere più marcata nei settori settentrionale e orientale, segno evidente che il loro ingresso privilegiato in Siria è dal confine turco. Ayham Barakat, ex colonnello delle forze armate siriane e ora comandante dell'Esercito siriano libero nel sud della Siria, ha detto ad Aki che «nel sud della Siria non vi è presenza tangibile di europei. Vi sono casi isolati e individuali e, in generale, vi è una percentuale di combattenti arabi tra le fila del Fronte al-Nusra di varie nazionalità, la maggior parte dai Paesi del Golfo».

Barakat sottolinea che «le brigate rivoluzionarie non sono in coordinamento» con il Fronte al-Nusra. «Ma tra di esse vi è un'intesa di massima e se insorgono divergenze tutti cercano di risolverle. Questi - precisa - sono meno estremisti dei combattenti dell'Is, che ancora non è presente nel sud della Siria, dove non c'è un ambiente che li accolga». Quanto ai numeri, «la percentuale di combattenti non siriani tra le fila Fronte al-Nusra nel sud della Siria, ossia Daraa, Quneitra e il Golan, si aggira attorno al 5% al massimo, che in proporzione a tutti i combattenti delle forze rivoluzionarie fa meno dell'1%».

«Di conseguenza - prosegue - la loro influenza è limitata. Benché non siano privi di risorse economiche e di armi, non combattono per questo. Hanno fonti di finanziamento e di armi di cui non abbiamo conoscenza». «Vi sono combattenti dall'Arabia Saudita, dal Kuwait e dagli Emirati, ve ne sono dalla Tunisia, dalla Libia e dall'Algeria, e riteniamo che alcuni dei combattenti dai Paesi del Maghreb abbiamo cittadinanze europee, ma non lo mostrano e non ne fanno pubblicità. Noi non abbiamo i loro passaporti per poter distinguere da dove provengono», afferma il comandante, che poi ricorda di «essersi imbattuto in un francese di origine algerina e in un tedesco di origine tunisina, ma nessun italiano».

Secondo dati forniti dall’intelligence italiana, resi noti dal ministro dell’Interno Angelino Alfano in un’intervista al Corriere della Sera, gli italiani che combattono con il Califfato sarebbero per l’80% autoctoni convertitisi recentemente all’islam. Giovanissimi provenienti per lo più da Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna,, reclutati e indottrinati spesso via Internet con le tecniche persuasive utilizzate nei campi d’addestramento per i kamikaze.

Se i combattenti sono stimati in circa 50, quelli rientrati in Italia e già addestrati a combattere e a compiere azioni terroristiche sarebbero almeno 200, costantemente tenuti d’occhio dai servizi di sicurezza. A differenza di altri Paesi europei dove la gran parte dei volontari del jihad va a combattere in Siria, in Italia si punta a creare un’ampia struttura di supporto e reclutamento necessaria, forse, a contattare i molti possibili volontari presenti tra i 150 mila immigrati clandestini giunti in Italia nell’ultimo anno dalla Libia. Un canale utilizzato da diversi profughi siriani tra i quali potrebbero annidarsi anche combattenti e terroristi. Se è difficile conoscere i nomi dei volontari italiani del jihad, è ancora più difficile sapere quanti ne sono morti in guerra: una decina secondo le stime, contro una trentina di britannici.

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