SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Pakistan: Zafar Bhatti, ennesima vittima della legge nera.

di Stefano Magni 26-09-2014 www.lanuovabq.it

Il reverendo Zafar Bhatti, presidente della Jesus World Mission in Pakistan, era in carcere dal 2012 con l’accusa di blasfemia.

Nella notte fra il 24 e il 25 settembre è stato freddato a colpi di pistola nella sua cella. Secondo fonti anonime di Asia News, sarebbe stato assassinato dalle guardie carcerarie. La stessa vittima diceva, da tempo, di subire continue minacce dagli altri compagni di carcere e dalle stesse guardie preposte alla sua sicurezza e incolumità. Alla fine è stato condannato a morte, pur essendo ancora sotto processo e mai dichiarato colpevole. La sua è l’ennesima esecuzione extra-giudiziaria in un Paese in cui basta un semplice sospetto per essere accusati di blasfemia.

 

Il caso di Zafar Bhatti è incredibile, se letto con i criteri giudiziari a cui siamo abituati. È stato arrestato solo in base ad un’unica testimonianza, quella del leader islamico Ahmed Khan vice-segretario del movimento Jamat Ehl-e-Sunnat. È stato accusato senza alcuna prova. L’origine del suo caso sarebbe un messaggio lasciato nella segreteria telefonica di Khan, ricevuto da un numero visibile ma non in rubrica. Il numero, secondo le successive indagini, apparteneva Ghazala Khan, cugina dell’accusatore. La donna, arrestata anch’ella per blasfemia, è stata poi rilasciata a dicembre. Zafar Bhatti, invece, pur proclamandosi innocente e non avendo prove a suo carico, è rimasto in galera. Perché secondo Ahmed Khan era lui l’autore delle frasi ingiuriose lasciate sulla segreteria telefonica. E soprattutto perché lo stesso Ahmed Khan ha minacciato di scatenare l’ala oltranzista del suo movimento, in un pogrom anti-cristiano, se il reverendo cristiano non fosse stato arrestato e posto sotto processo. Questo avveniva nel luglio del 2012. A più di due anni di distanza, Bhatti era ancora innocente e in attesa di giudizio quando è stato assassinato. A nulla sono servite le proteste della comunità cristiana e le pressioni sulle autorità: Bhatti non è mai tornato in libertà. In carcere ha subito abusi, torture e pestaggi, ma si è sempre dichiarato innocente.

Zafar Bhatti, insomma, è l’ennesimo capro espiatorio, l’ennesima vittima dell’articolo 295 del codice penale pakistano, la “legge nera” sulla blasfemia. In teoria questa norma esiste da più di un secolo e mezzo, parte del codice penale locale fin dal 1860, ancora ai tempi dell’Impero Britannico. Ma ha assunto una rilevanza costituzionale solo nel 1986, quando l’allora dittatore Zia ul Haq iniziò a implementarla sul serio e in chiave fortemente discriminatoria contro la minoranza non musulmana del Paese. Prima del 1986, i casi di processi per blasfemia furono solo 14. Dopo quella data, fino ad oggi, si contano 1274 persone incarcerate. Più della metà di questi appartengono alla minoranza cristiana e ad altre religioni non musulmane. Il 50% dei casi su minoranze che, tutte assieme, non superano il 4% della popolazione.

Fra i casi più famosi, conosciamo bene quelli di Asia Bibi, tuttora in carcere dal 2010 e in attesa di sentenza capitale per aver chiesto alle sue compagne di lavoro, nella sua fattoria, “Gesù è morto in croce per la nostra salvezza, cosa ha fatto per voi il vostro Maometto?”. Così dicono le sue compagne di lavoro, senza uno straccio di prova: basta questo per vedersi condannare a morte. Il governatore del Punjab, Salman Taseer, promise che Asia Bibi sarebbe tornata presto libera, perché lui stesso si sarebbe interessato al caso, dopo la forte emozione suscitata in tutto il mondo: venne assassinato nel gennaio del 2011. Il marzo successivo toccò a Sahbaz Bhatti, ministro delle Minoranze, anch’egli convinto difensore degli innocenti in carcere e impegnato a risolvere il caso Asia Bibi: venne freddato da una sua guardia del corpo, un estremista islamico che gli era stato assegnato come scorta. Il caso Asia Bibi, dunque, vede tuttora una innocente in carcere e due politici di alto profilo condannati a una morte extra-giudiziale.

Un’altra cristiana il cui caso è finito sotto i riflettori del mondo, è Rimsha Masih, incarcerata dal 2012, con l’accusa di aver strappato pagina dalla sua copia del Corano. In questo caso la giustizia pakistana è riuscita a dimostrare che la “blasfema” era innocente, poiché le prove erano state fabbricate dal leader religioso islamico Hafiz Mohammad Chishti. Rimsha ha dovuto abbandonare il Pakistan, esule in Canada. È una fuggitiva che potrebbe ancora rischiare la morte, nel caso dovesse incontrare qualche altro espatriato estremista islamico con voglia di vendicare un delitto religioso mai commesso.

Le condanne capitali non sono mai state eseguite, ma le esecuzioni extra-giudiziali sono almeno 61, dal 1986 ad oggi. Cristiani uccisi nei pogrom, ammazzati dalle loro guardie, avvelenati in casa loro. Come nel caso di Tahir Iqbal, un musulmano convertito al cristianesimo, avvelenato nel 1992 dopo essere stato assolto dall’accusa di blasfemia. Oppure Bantu e Mukhtar Masih, pugnalati a morte all’interno di una stazione di polizia a Lahore, sotto gli occhi delle forze dell’ordine. Prima di morire, portati in ospedale, la polizia li aveva costretti a non spiccare denuncia contro gli assalitori. Manzoor Masih, assassinato fuori dal tribunale, dove era stato assolto dall’accusa di aver lasciato scritte blasfeme sul muro di una moschea di Lahore: era analfabeta, non avrebbe neppure fisicamente potuto scrivere quei graffiti. Minacciati di morte e feriti nello stesso attentato, i suoi familiari sono riusciti a fuggire dal Pakistan. Non il giudice che li aveva assolti, Arif Iqbal Bhatti, ucciso nel 1997 da estremisti islamici. Se la “folla” decide che un cristiano deve morire, lo uccide, indipendentemente dalle sentenze. Questo principio è stato ben compreso dagli altri magistrati che, dopo il 1997, hanno iniziato ad applicare la legge in modo molto più severo, senza controllare troppo la veridicità delle prove e rendendo un’eccezione rara la scarcerazione di un imputato.

Talvolta non si passa neppure per le complicazioni di un processo. La folla lincia direttamente il “blasfemo”, oppure la polizia lo ammazza quando è in custodia, senza neppure accertarsi che lo sia. È il caso di Hafiz Farooq Sajjad, musulmano, lapidato dalla folla perché la sua copia del Corano avrebbe preso fuoco a casa sua, nel 2000. O di Muhammad Yousuf Ali, un imam che predicava la tolleranza, assassinato in carcere dalle guardie, nel 2002. O Samuel Masih, accusato da passanti di aver sputato su una moschea: arrestato, ha contratto la tubercolosi in carcere ed è stato assassinato da una guardia carceraria mentre era in ospedale, nel 2003. E ancora nel 2012, la polizia, che teneva in custodia un uomo mentalmente instabile, lo ha abbandonato al linciaggio della folla. Accusato di aver bruciato il Corano, è stato lui stesso bruciato vivo in piazza, sotto gli occhi della polizia.

Attualmente ci sono 17 persone in attesa della sentenza capitale per blasfemia, fra cui Asia Bibi. Probabilmente si tratta di condanne che non verranno mai eseguite. Non da un boia di Stato, per lo meno. Ma per loro, essere in carcere o liberi equivale a un rischio quotidiano di morte. Per un cristiano, così come per un musulmano sospettato di blasfemia, l’unica via di salvezza è la fuga dal Pakistan.

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