SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Oltre l’islamismo

di Tariq Ramadan http://www.islam-online.it

L’islamismo – o l’Islam politico – non è morto. Quelli che hanno proclamato la sua caduta, o strombazzato l’avvento di un’era “post-islamica”, sono in errore, come gli eventi in Africa, Medio oriente e Asia chiaramente dimostrano.

Tariq Ramadan è professore di studi islamici a Oxford (Oriental Institute, St Antony’s College) e insegna alla Faculté de Théologie d’Oxford. Professore invitato alla Faculté d’Etudes islamiques (Qatar),alla Université Mundiapolis (Maroc), . Insegna folosofia alla Université Perlis in Malesia. E' Senior Research Fellow all'università di Doshisha (Kyoto, Giappone), direttore del Centre de Recherche sur la Législation Islamique et l’Ethique a Doha (Qatar).L’islamismo non è sul punto di scomparire, e fondamentalmente non è nemmeno sul punto di mutare. La mia tesi – la mia linea ideologica, la mia speranza – è che noi dobbiamo spingerci oltre l’Islam politico, e sviluppare una critica dell’islamismo in tutte le sue forme.

Prima di spiegare il motivo per il quale io stia prendendo questa posizione, ci sono 3 punti da tenere a mente. Oggigiorno così tanta è la confusione, così tanto tendenziose e spesso grottesche le argomentazioni, che il nostro primo dovere è verso la chiarezza.

Primo: i Fratelli Musulmani in Egitto o Ennadha in Tunisia godono di legittimità popolare ed elettorale nelle loro rispettive nazioni; tutti i democratici dovranno rispettare il verdetto delle urne elettorali. Qualcuno potrà sicuramente trovarsi in disaccordo con le decisioni e le posizioni prese dagli islamisti al potere, ma nulla può giustificare un colpo di stato militare, come in Egitto ovvero, i manifestanti non violenti che chiedono all’esercito di ritirarsi hanno ragione nel rifiutare l’operazione attuata dai generali.

La questione cruciale non è se la democrazia sia possibile con degli islamisti al potere, posto che le norme democratiche vanno rispettate, ma se persino un’ombra di democrazia possa esistere sotto una classe dirigente militare che, per più di 60 anni, non ha mai neppure una volta rispettato i fondamenti della democrazia stessa.

In Tunisia, non si può permettere che la destabilizzazione interna, portata avanti degli islamisti letteralisti ed estremisti e dagli estremisti laici , metta a rischio la legittimità delle istituzioni nazionali. L’ingiustificabile non può essere giustificato in nome delle differenze ideologiche con i rappresentati eletti dalle persone.

Secondo: il problema della terminologia. La confusione è lampante; nessuno sa esattamente cosa significhi “islamismo”. Il termine, che ora è diventato molto spregiativo, può essere applicato a movimenti appartenenti ad al-Qaeda (in tutto il mondo, e più recentemente nel Mali del Nord), ai legalisti di Ennadha e ai Fratelli Musulmani a proposito del Partito di Giustizia e Sviluppo in Turchia e in Marocco (sicuramente con delle riserve),fino ad includere il regime iraniano.

È difficile da credere che questa confusione terminologica noi sia voluta e che sia frutto del caso. Intanto, le monarchie petrolifere del Golfo, alleate dell’Occidente, le cui autorità affermano che la democrazia non è islamica, regimi che applicano la Shari’a nella sua forma più legalistica e repressiva e che impediscono alle donne la partecipazione sociale e politica, non vengono mai descritte come “islamiste”, nonostante le loro politiche e pratiche derivate dall’essenza dell’islam politico.

Inoltre, i diversi partiti islamisti o organizzazioni devono essere descritti accuratamente: alcuni sono non-violenti, riformisti e legalisti; altri sono integralisti e dogmatici, mentre altri ancora sono violenti ed estremisti. Senza una comprensione di questo tipo, nessuna seria analisi scientifica o politica è possibile. Questo articolo ha come obiettivo principale l’analisi dei movimenti riformatori e legalisti ma tutti i movimenti islamici sono chiamati in causa (la relazione che prendiamo in considerazione è la comune ricerca del potere politico di tutti questi movimenti).

Infine, dovrebbe essere perfettamente chiaro che la mia critica dell’islamismo non è assolutamente un sostegno alle posizioni e ai programmi politici dei suoi oppositori. Per più di 60 anni, sedicenti forze “liberali”, “progressive”, “secolari” o persino “di sinistra” , non sono state in grado di mettere a punto serie alternative per far uscire le loro nazioni dalle crisi. L’opposizione ai “retrogradi islamisti” non è abbastanza per assicurare credibilità ideologica o pratica.

Infatti, alcune delle fazioni “liberali” hanno provate amicizie passate con dittatori, e hanno avuto stretti contatti con l’Occidente, incapaci di comprendere i loro stessi cittadini; hanno ignorato le loro divisioni e la loro mancanza di influenza politica per il semplice fatto di rivendicare di essere uniti contro gli “islamisti”. Queste fazioni non hanno una base comune , un fatto del quale i loro stessi leader sono decisamente consapevoli. Perciò la nostra critica dei movimenti islamisti non può essere vista come un sostegno ai loro oppositori. Il nostro scopo è quello di descrivere la profonda crisi di coscienza politica nelle società a maggioranza islamica, abbracciando tutti gli orizzonti ideologici.

È arrivato il momento di andare oltre l’islamismo.

Quando, agli inizi del XXIº secolo, le prime manifestazioni di islamismo misero radici e assunsero una forma organizzata nel Medio Oriente, in Africa e in Asia, la maggior parte di queste avevano in comune 3 obiettivi: -liberare le loro società dal colonialismo,
- ritornare all’islam in modo da resistere all’occidentalizzazione della cultura,
- e difendere principi come la giustizia sociale dando priorità ai poveri e agli oppressi, posizione che li accomuna ai movimenti ispirati dalla teologia della liberazione in America Latina.

Erano conservatori religiosi, vicini socialmente ed economicamente alla propria gente, e credevano che uno stato-nazione fosse il modo migliore per liberare i propri paesi dal complesso giogo del colonialismo. Sia che qualcuno fosse in accordo o disaccordo con questi movimenti era comunque possibile capire il loro orientamento ideologico e politico.

Il mondo è cambiato, e tutto suggerisce che le organizzazione islamiste, come i Fratelli Musulmani e altri gruppi legalisti e riformisti, non hanno mantenuto il ritmo con gli sviluppi storici mondiali, con i cambiamenti nelle relazioni internazionali, e, soprattutto, con il nuovo paradigma della globalizzazione. Inoltre, il potere di Stato, che all’inizio era descritto in chiave di una riforma sociale, politica, economica e culturale, è emerso come fine a sé stesso, deteriorando sia le intenzioni che le azioni di un significativo numero di movimenti islamisti. Questi fattori si sono combinati creando, col tempo, una un distacco tra gli slogan spesso ripetuti dai movimenti islamisti, che hanno mantenuto un sostanziale appoggio popolare, e la loro incapacità di rispondere alle sfide della nuova era.

Diventando movimenti nazionali islamisti, la loro ossessione per lo Stato li ha, in conclusione, portati all’abbandono dei loro fondamentali scopi economici, dei loro più grandi interessi culturali, e addirittura al fallimento nel dedicarsi alle questioni basilari di pace, cittadinanza e autonomia individuale. Portati all’opposizione, totalmente impegnati (e imprigionati per questo) nel legittimare la loro partecipazione al processo democratico in maniera credibile, aperta e affidabile agli occhi dell’Occidente, gli islamisti sono diventati una forza reazionaria che, nel nome del pragmatismo, con un compromesso dopo l’altro, hanno preservato i loro riferimenti religiosi ma svuotandoli nel mentre, del loro potenziale di liberazione sociale, economica e culturale.

Siamo così lontani da una nuova interpretazione delle nostri fonti scritturali, o da una “teologia” della liberazione dei popoli che dia assoluta priorità al povero e all’oppresso e che pensi le relazioni sociali e politiche con una prospettiva economica e culturale. Gli islamisti, oggi, non hanno credibili o fattibili alternative economiche da offrire. In nome della loro ossessione per il riconoscimento internazionale, si sono inchinati agli imperativi della dominante economia capitalista. Il riferimento religioso è diventato un riferimento strettamente reattivo e strettamente protettivo, diretto primariamente contro i permissivi eccessi dell’Occidente e degli occidentalizzati, hanno perso la capacità di offrire un approccio etico all’educazione, alla giustizia sociale, all’ambiente, alla cultura e alla comunicazione. Ci sono stati frequenti tentativi populisti di utilizzare la religione emotivamente, in maniera identitaria e a fine elettorale.

È anche giusto festeggiare il successo economico della Turchia, per non parlare della competenza e del pragmatismo dimostrato dai leader (e intanto non dimenticare di criticare l’assenza di alcune libertà basilari, e la tendenza di monopolizzare il potere); va bene anche accogliere lo sviluppo del pensiero islamista in Egitto e in Tunisia, o l’emergere di uno stato civile con riferimenti islamici piuttosto che di un teocratico “stato islamico”. Ma le loro parole rimangono prevalentemente slogan, reazioni agli attacchi sulla loro assunzione del potere, e non hanno alla base un chiaro, originale e strutturato progetto politico. I programmi degli islamisti legalisti e conservativi hanno poco che possa suscitare ammirazione nei loro confronti.

Forse è il momento di rivedere le priorità, di sottrarsi dal paradigma; forse è il momento per l’islam politico di cessare di essere intrinsecamente politico.

Dopo un secolo di opposizione alla struttura politica e pochi decenni di effettivo esercizio del potere, l’islamismo è diventato un’ideologia dei mezzi e della gestione. Non ha nulla da offrire in termini di significati profondi, eccetto una reazione all’ “aggressione occidentale” o al “nemico interno”. Le società a maggioranza musulmana non saranno mai in grado di emanciparsi finché rimarranno incatenate a certe visioni strette ed esclusivamente reattive.

Bisogna mettersi all’ascolto del bisogno delle persone di significato, di dignità e di spiritualità. Il compito che ci attende che consiste nel riformulare i fini ultimi delle azioni umane, e di sviluppare i contorni di etiche individuali e sociali come una vera alternativa all’ingiusto e inumano ordine mondiale. Il bisogno di significato, di libertà, di giustizia e di dignità non è mai stato così grande; i musulmani di oggigiorno hanno bisogno di un’olistica filosofia dei fini; hanno bisogno di sfuggire dal caotico controllo dei mezzi nel quale l’islam politico è stato trasformato. Le società a maggioranza musulmana stanno gridando per una rivoluzione intellettuale, una rivoluzione che sia radicale nella sua essenza cosi come sia coraggiosa nei suoi obiettivi.

È giunto il momento di riconciliare noi stessi con la profondità e l’ampiezza della tradizione della civilizzazione islamica e con il suo significato che stabilisce regole alla di obiettivi come dignità, libertà, della giustizia e pace. I musulmani di oggi hanno urgentemente bisogno di riaffermare sé stessi. Cruciale per il processo di spiritualità e misticismo: non quello di una tale forma di sufismo che, non volendo “prendere parte alla politica”, finisce col giocare il gioco del potere (e dei colonizzatori), ma quello di una ricerca di un autentico sufismo che mai si separò dalle considerazioni umane, sociali e politiche (col fine di un saggio e giusto governo).

Non è abbastanza affermare che la libertà deve essere dopo la “Shari’a”; ciò che manca è una riflessione sulla libertà dell’era moderna, e gli obiettivi superiori (maqasid) del Sentiero (ash-Shari’a) che superano la sua riduzione a una regolazione del corpo presentata con intangibili leggi divine. Ciò che ash-Shatibi ci fornì, con le sue sintesi de “gli obiettivi della Shari’a”, – che è in realtà una “filosofia della legge” – deve essere pensato come nozione di libertà: abbiamo bisogno di una “filosofia di libertà” che non può essere costrittiva, reattiva o dogmatica ma deve essere ampia, olistica e liberatoria, valida sia per donne che uomini.

C’è un urgente bisogno di giovani dotti (ulama) di entrambi i sessi, di intellettuali che vogliano mostrare un po’ di coraggio. Rispettosi del messaggio e delle immutabili regole della pratica, devono imperativamente cercare riconciliazione con l’audacia intellettuale di coloro che hanno dato all’ età antica tradizionale dell’islam la sua forza. Contro le istituzioni che spesso li hanno formati, che sono sotto il controllo dello Stato e intellettualmente indebolite (come al-Azhar o Umm al-Qura oggigiorno), le giovani generazioni musulmane devono liberarsi, far sentire la loro presenza, e dare nuovo significato alle dinamiche di una società civile, non più spettatori passivi o semplicemente lamentandosi, ed esporre la loro indignazione, o esplorare nuovi modi di agire, nuove e alternative visioni. E rimanendo fedeli a sé stessi, così come resistendo all’ordine stabilito.

Le sfide sono enormi, ma nel liberare sé stessi dall’ossessione della “politica”, un movimento con basi ragionate deve chiarire i termini di un piano di potere che vede la liberazione delle popolazioni tramite educazione, coinvolgimento sociale, alternative all’economia dominante, tramite la creatività culturale e artistica. Internamente, ho menzionato i cambiamenti intellettuali, e il proporre di generali obiettivi ultimi, e lo sviluppo di una visione globale che possa garantire autonomia e giustizia. La questione delle divisioni interne, tra sunna e shi’a e tra opposte scuole di pensiero (persino tra religioso e secolare), deve avere la priorità. Le problematiche che alimentano questa divisione sono spesso serie, come a volte invece sono francamente ridicole.

È obbligo dei dotti, degli intellettuali liberi e degli attivisti liberare sé stessi da questa trappola (che gli islamisti di oggi a volte mantengono a costo di intrappolare sé stessi e annegare). I musulmani non sono da soli nella loro resistenza. Non solo è urgente stabilire relazioni tra il Nord e il Sud del mondo, e lasciarsi alle spalle il tendenzioso cardine “Islam-Occidente”; è vitale che noi esploriamo il potenziale di nuove partnership educative, scientifiche e culturali con i popoli dell’America Latina, Africa e Asia.

Il pensiero musulmano, che ha estratto il suo nutrimento dall’idea che tutta la saggezza debba essere quella prodotta da sé, incurante delle sue fonti, è diventato isolato, si è rivoltato contro sé stesso e si è rinsecchito a causa della sua incapacità di studiare, di promuovere scambi e di ottenere profitto da altre civilizzazioni, culture e società. Gli islamisti non sono un’eccezione: ossessionati dal Nord, hanno perso i loro sostegni… e il Sud (la Qibla, che focalizza l’attenzione al centro e gli dà significato, non dà forse lo stesso valore e la stessa dignità alla periferia in tutta la sua totalità?).

Gli islamisti di oggi hanno sviluppato un messaggio conservatore, un messaggio di adattamento. La coscienza musulmana contemporanea deve liberarsi da questo messaggio, deve invece rinnovarsi attraverso la forza innovatrice e quasi rivoluzionaria del messaggio spirituale ed umano della sua tradizione che ci richiama tanto alla riconciliazione con se stessi che all’apertura al prossimo.

Dobbiamo riavvicinarci alla nostra tradizione, determinando la nostre priorità, e facendo un migliore uso dei nuovi mezzi a nostra disposizione, solo così potremo raggiungere i nostri obiettivi: libertà, dignità e liberazione. Il paradosso sta nel fatto che gli attuali musulmani, mancando di fiducia in sé stessi, sono i secondini che tengono nelle loro tremanti mani le chiavi della loro stessa prigione.

Traduzione a cura di Nura Hanife
Fonte http://www.tariqramadan.com

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