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Aiutarli a casa loro? La brutta lezione somala

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Se c’è un caso che purtroppo smentisce l’efficacia della formula “aiutiamoli a casa loro” per fermare l’immigrazione irregolare verso l’Europea, quello è la Somalia. di Anna Bono 24-02-2016 lanuovabq.it

Il governo somalo alla fine del 2015 ha approvato la finanziaria 2016 annunciando che quasi il 40% dei capitali verrà fornito dai donatori internazionali.

Da quando nel 2004 è iniziata la “transizione democratica” del Paese, con la formazione del primo Parlamento e del primo governo dalla caduta del dittatore Siad Barre nel 1991, la comunità internazionale finanzia la Somalia con fondi miliardari; e prima aveva finanziato per anni i negoziati di pace svoltosi in Kenya per mettere fine alla guerra civile. 

Prima ancora era intervenuta, senza successo, con una missione militare delle Nazioni Unite. Dal 2007 un’altra missione, la Amisom, diretta dall’Unione africana, contrasta i jihadisti al Shabaab e protegge le istituzioni: conta su oltre 22.000 unità militari e di polizia messe a disposizione da diversi Stati africani e si avvale di diverse equipe impegnate in iniziative di assistenza, formazione, promozione dei diritti umani.

 Nel 2013 una Conferenza internazionale ha lanciato un “New Deal” per la Somalia, un colossale progetto di ricostruzione del Paese con uno stanziamento di 1,8 miliardi di dollari. Il “New Deal” presupponeva che la transizione democratica si fosse conclusa. 

Secondo una road map concordata con i mediatori internazionali, entro il 2011 il Paese avrebbe dovuto,  infatti, realizzare un censimento della popolazione, redigere una  costituzione, sottoporla a referendum e infine andare alle urne per eleggere parlamento, capo dello stato e primo ministro. Ma nel 2012 il censimento ancora non era stato effettuato.

Nell’estate di quell’anno, su una traccia fornita dall’Onu, una Assemblea costituente composta da 825 delegati ha frettolosamente approvato una carta costituzionale senza che fosse possibile sottoporla a referendum.

Né si poteva andare al voto e quindi è stata nominata una nuova Assemblea nazionale che ha eletto il capo dello Stato che a sua volta ha scelto il primo ministro. In realtà, dunque, nel 2013 la transizione democratica non era neanche incominciata. Tuttavia si è voluto celebrare questo sostanziale insuccesso come un traguardo storico, una svolta memorabile. 

Adesso, trascorsi quasi tre anni, arriva l’annuncio che il voto finalmente previsto per quest’anno a settembre ancora non potrà svolgersi sotto forma di suffragio universale: mancano i fondi – ha spiegato il Presidente della Repubblica Hassan Sheikh Mohamud – e parte del territorio nazionale è insicuro o inaccessibile perché in mano ai jihadisti che inoltre hanno intensificato gli atti di terrorismo riuscendo a colpire più volte la capitale Mogadiscio e le stesse basi Amisom.

Perciò sono stati inaugurati dei forum regionali con l’incarico di escogitare un sistema elettorale alternativo. 

Dal 2004 a oggi non si contano le crisi politiche, benché fin dall’inizio le cariche siano state assegnate in parti uguali ai quattro clan principali proprio per evitare scontri di potere. Né si contano gli scandali finanziari.

Per fare un esempio, nel 2011 si era scoperto che mancavano i resoconti relativi a una intera tranche di fondi internazionali erogata nei due anni precedenti: ad eccezione di  tre milioni, non esisteva documentazione alcuna sull’uso che era stato fatto di ben 75 milioni di dollari.

L’anno successivo un rapporto della Banca Mondiale riferiva che tra il 2010 e il 2011 si era persa traccia del 68% degli aiuti internazionali e due mesi dopo il Gruppo Onu di monitoraggio sulla Somalia denunciava che su 10 dollari consegnati dalla comunità internazionale al governo somalo per la ricostruzione e il sostegno alla popolazione sette non arrivavano mai nelle casse dello stato. 

Come se corruzione e jihad non bastassero, per la seconda volta in pochi anni una grave carestia ha colpito il Paese. Alcuni giorni or sono l’Onu ha dichiarato che quasi il 40% della popolazione ha bisogno urgente di assistenza umanitaria e che in particolare 50.000 bambini rischiano di morire di fame se non verranno immediatamente soccorsi. Per far fronte all’emergenza chiede quasi 900 milioni di dollari. 

Eppure il denaro dei finanziatori internazionali in mano a qualcuno frutta e in qualche modo circola attraendo stranieri in cerca di fortuna e da un po’ di tempo il paese fa i conti l’immigrazione clandestina e irregolare.

Da novembre il governo ha incominciato a espellere gli immigrati con il visto scaduto a cui viene inoltre inflitta una sanzione di 10 dollari per ogni giorno trascorso in Somalia senza documenti in regola: una cifra notevole se rapportata al reddito medio.

I primi a essere rimpatriati sono stati 27 cittadini del Kenya. Inoltre il parlamento ha da poco approvato una legge che impone alle imprese di assumere dando priorità ai somali per contrastare la disoccupazione che colpisce soprattutto i giovani e ne favorisce il reclutamento da parte di al Shabaab. 

La Somalia nonostante tutto resta un paese da cui fuggire. Nel corso degli anni decine di migliaia di somali hanno intrapreso la pericolosissima traversata del golfo di Aden diretti in Yemen.

Centinaia di migliaia hanno oltrepassato il confine con il Kenya e sono ospitati nel campo per profughi di Dadaab, forse il più grande del mondo. Altre centinaia di migliaia hanno lasciato il continente africano diretti verso Europa e Nord America.

L’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i rifugiati, relativo al 2014, indica che il 53% dei profughi provengono da tre paesi soltanto. Uno è la Somalia, con 1,11 milioni di profughi, preceduta dalla Siria (3,88 milioni) e dall’Afghanistan (2,59 milioni). 


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