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"È la tragedia più grande dopo quella della seconda guerra mondiale": così papa Francesco ha definito pochi giorni fa il fenomeno delle migrazioni, che gli sta straordinariamente a cuore e sul quale interviene senza posa. source: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/ 27 mar2017

L'accoglienza è il suo dogma, sia pure in proporzione alle "capacità" di ciascun paese di "integrare" i nuovi venuti. E "non muri ma ponti" è la parola d'ordine che ripete spesso, come monito alla Chiesa e agli Stati.

Ma quanto vale questa immagine, pur suggestiva? Il monaco Giulio Meiattini, dell'ordine di san Benedetto, sostiene che un'altra immagine, quella della porta, sarebbe più appropriata, per meglio esprimere che cosa fare con i  migranti.

Ha pubblicato le sue riflessioni sull'ultimo numero della rivista "La Scala", trimestrale di spiritualità dell'Abbazia della Madonna della Scala, a Noci, alla quale appartiene.

Dom Meiattini è anche docente alla Facoltà teologica pugliese e al Pontificio ateneo Sant'Anselmo di Roma. Di lui i lettori di Settimo Cielo ricordano l'analisi critica del primo dei quattro postulati ai quali papa Francesco dice di ispirarsi: quello secondo cui "il tempo è superiore allo spazio": Anche Bergoglio ha i suoi principi non negoziabili

Ecco qui di seguito un estratto del suo articolo su "La Scala", che è di tre volte più ampio.

CI SERVONO PORTE! A PROPOSITO DI ACCOGLIENZAdi Giulio Meiattini OSB

1. Un’alternativa falsa

È ormai un ritornello: “Non muri, ma ponti!”. Come slogan suona bene ed esprime con efficacia una sana reazione a istinti eccessivi di difesa che rischiano di mascherare egoismi e indifferenza. Ma la mia impressione è che passare  dai “muri” ai “ponti” sia voler evitare un eccesso cadendo in un altro.

Per abitare il mondo, l’uomo ha sentito la primaria necessità di una “casa”. Ora, la casa è fatta di mura, ma allo stesso tempo di porte. Dalla porta si può uscire ed entrare. È dalla porta che l’estraneo o l’ospite può transitare, qualora lo chieda e gli si conceda il permesso, o lo si inviti accogliendolo. La porta, in una casa, è il simbolo della discrezione, e dunque del discernimento, nello stile dell’accoglienza. C’è un tempo per aprire e un tempo per chiudere, potremmo dire parafrasando il libro biblico del Qoelet.

2. La porta e la parete

La porta rimanda per sua natura a una separazione di spazi diversi. Il primo delimitatore e creatore di confini, è bene ricordarlo, è stato Dio stesso, nell’opera della creazione. Dio separa la luce dalle tenebre, il cielo dalla terra, la terra dalle acque (Gen 1, 4-8). Questo gesto segna il passaggio dal caos al kosmos, dal disordine alla proporzione e alla bellezza: “E Dio vide che era cosa buona/bella” (Gen 1, 10 passim).

Al tempo stesso, però, Dio garantisce l’unità e la comunicazione fra questi grandi ambiti, senza che per questo la loro distinzione sia messa in discussione. Fra cielo e terra Dio costruisce passaggi (la scala di Giacobbe: Gen 28, 12; oppure la porta che si apre nel cielo per lasciar passare il veggente dell’Apocalisse: Ap 4, 1), fino a fare del suo Figlio il riconciliatore degli esseri che stanno nel cielo e di quelli che sono sulla terra (Col 1, 20).

Dunque non c’è porta senza muro, non c’è accesso senza ostacolo. L’azione divina mostra che si vive solo nell’alternarsi di unità e distinzione, di differenze insopprimibili e comunicazione virtuosa. Se il muro rappresenta il bisogno di articolazione e distinzione, la porta ricorda e attua il legame fra dentro e fuori, mio e tuo, questo e quello. Il muro senza porta è la scissione, l’apertura senza mura di confine è il caos. Ogni accoglienza ha bisogno di questa arte del “distinguere per unire”, che corrisponde al principio fondamentale della cristologia del concilio di Calcedonia. La reciproca accoglienza fra umanità e divinità in Gesù è un importante indicatore di metodo per ogni altra forma di accoglienza.

3. Aldiquà e aldilà

Dimenticare che esistono porte custodite e da custodire, e che a loro volta custodiscono, è cancellare le identità. Chiunque si accosta alla “casa” altrui bisogna che sia avvertito dalle porte che sta entrando in un mondo non suo, ma di altri, in un luogo già abitato, non in una terra di nessuno. Per questo, varcare una soglia esige una trasformazione, e anche la produce. Non ci si comporta allo stesso modo in qualunque luogo. La porta ingiunge di cambiare comportamento, invita a una conversione per rispettare gli abitanti di quella casa. Se questo manca, manca una delle condizioni essenziali dell’accoglienza: il rispetto. Chiunque dal di fuori entri in una casa attraverso la porta, deve adeguarsi alle abitudini di quella casa. La gentilezza di chi apre la porta esige, dall’altra parte, il rispetto da parte di chi bussa.

4. Porta aperta, porta chiusa

C’è anche un chiudere la porta che indica la piena accoglienza: avviene quando, fatto entrare il nuovo venuto, gli si chiude la porta alle spalle facendolo entrare nel nostro mondo, invece di tenerlo in piedi sull’uscio di casa.

L’alternanza di apertura e chiusura ci rimanda ancora una volta alla porta per antonomasia, che è Gesù Cristo. Anch’egli è apertura al Padre e ingresso al Regno, possibilità dell’infinito offerta all’uomo. Ma è anche porta che alla fine, per alcuni, viene inesorabilmente chiusa: “Ora, mentre quelle vergini andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: 'Signore, signore, aprici!'. Ma egli rispose: 'In verità io vi dico: non vi conosco'” (Mt 25, 10-12).

L’accoglienza sana non può fare a meno di questo ritmo, di questo discernimento fra il chiudere e l’aprire. Assolutizzare uno dei due gesti significa non avere una visione adeguata e corretta di accoglienza, nelle relazioni personali come nelle relazioni fra popoli e culture.

5. La possibilità e la necessità

Tra questi due estremi, possibilità e necessità, si pone la libertà umana. Potremmo dire che possibilità e necessità sono gli stipiti e la libertà è l’architrave che vi poggia sopra.

Il primo stipite, quello della possibilità, dice: “da qui puoi passare”. Ma l’altro stipite parla altrimenti. La porta disegnata entro il muro obbliga a passare da lì e non da altre parti, ed esige obbedienza. La porta è legge, è "nomos". Essa dice: “da qui devi entrare”.

Proprio in quanto possibilità e insieme obbedienza, la porta riflette il paradosso dell’ampiezza e del limite della libertà umana. Soprattutto essa esprime l’aspetto comunitario della libertà. Una porta è un passaggio condiviso, attraverso il quale ciascuno accetta, insieme agli altri, di passare. È legge comune, un patto implicito. Una volta costruita una casa e fissata la porta, ogni passaggio legittimo avverrà da lì. C’è un accordo di fatto, una sottomissione alla norma comune. “Chi passa da un’altra parte è un ladro o un brigante” (Gv 10, 1).

Anche per chi varca le nostre frontiere deve valere questo principio: “Ricordati che qui ci sono leggi, c’è una storia e una tradizione che le ha forgiate; per esse tu devi passare, se vuoi fruire anche delle possibilità che la nostra casa comune ti concede; per questo tu devi ringraziare!”. Non si passa da qualunque parte e come si vuole. Questo vale per gli abitanti della casa, vale dunque anche per gli ospiti che aspirano a diventare più familiari. È questo, in sostanza, il grande problema dell’integrazione. Troppa faciloneria da parte nostra non gioverà né a noi né a chi arriva.

6. Né ponti né muri...

Allora lasciamo gli slogan, tanto facili quanto poveri e logori. Non possiamo tranquillizzarci o illuderci dicendo che bastano ponti. Senza nulla togliere a quella bella immagine, bisogna poi pensare che gli esseri umani, una volta transitati, hanno bisogno di dimore e di case in cui abitare.

E la vita di una casa si regge su equilibri e alleanze, norme e linguaggi comuni. I nostri paesi europei, sottoposti a sfide demografiche e immigratorie eccezionali, non possono banalizzare con formule semplificatorie – di destra o di sinistra – il senso dell’accoglienza e la sua politica. È comodo e semplicistico il muro. È banale e demagogico il ponte. È discreta e complessa, sfumata e intelligente, la spiritualità della porta.



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