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"Pater noster" senza pace. È scontro fra le traduzioni.
"Questa è una traduzione non buona", ha tagliato corto papa Francesco, nel commentare in tv lo scorso 6 dicembre la traduzione in uso in Italia della frase del "Pater noster" che in latino suona: "Et ne nos inducas in tentationem".source :http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/  07 mar 2018

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In Italia, la traduzione recitata o cantata durante le messe è ricalcata sul latino quasi alla lettera: "E non c'indurre in tentazione". Così come anche la versione inglese in uso negli Stati Uniti: "And lead us not into temptation".

Ed è proprio questo il tipo di versione che a Francesco non piace. Il motivo – ha spiegato dagli schermi di TV 2000, il canale dei vescovi italiani, mimando il gesto di spingere e far cadere – è che "non è Lui, Dio, che mi butta alla tentazione, per poi vedere come sono caduto. No, il Padre non fa questo, il Padre aiuta ad alzarsi subito. Quello che ci induce alla tentazione è Satana. La preghiera che diciamo è: Quando Satana mi induce in tentazione, Tu, per favore, dammi una mano".

Viceversa, al papa piace – e l'ha detto – la nuova traduzione in uso dall'anno scorso in Francia e in altri paesi francofoni: "Et ne nous laisse pas entrer en tentation", che ha sostituito la precedente: "Et ne nous soumets pas à la tentation" ed è a sua volta simile a quella attualmente in uso in vari paesi di lingua spagnola, Argentina compresa: "Y no nos dejes caer en la tentación".

In Italia, la conferenza episcopale si riunirà in assemblea straordinaria dal 12 al 24 novembre proprio per discutere se introdurre o no nel "Padre nostro" della messa la nuova versione che già si legge da dieci anni nella traduzione ufficiale italiana della Bibbia: "E non abbandonarci nella tentazione".

Ma dopo l'avvenuto pronunciamento di Francesco si direbbe che l'esito della discussione sia già deciso in partenza – "Roma locuta, causa finita" –, con la scontata, prossima inserzione anche nel messale italiano della traduzione già immessa nella Bibbia e sicuramente più gradita al papa.

E invece no. Non è proprio detto che vada a finire così. Perché intanto Roma ha di nuovo parlato. E ha dettato una soluzione diversa. Non è stato il papa in persona questa volta a parlare, ma poco c'è mancato. È risuonata infatti una voce che gli è vicina, vicinissima e talora persino coincidente: quella de " La Civiltà Cattolica ".

Sulla rivista diretta dal gesuita intimo di Francesco, Antonio Spadaro, un altro gesuita, l'illustre biblista Pietro Bovati, ha pubblicato un articolo interamente dedicato proprio all'analisi della "difficile" domanda: "Et ne nos inducas in tentationem".

Nella prima metà dell'articolo, Bovati spiega come effettivamente tale preghiera al Padre celeste abbia sollevato nella storia cristiana difficoltà interpretative. E mostra come autorevoli Padri della Chiesa quali Ambrogio, Agostino e Girolamo abbiano orientato a interpretarla in questo senso: "Non permettere che noi entriamo e/o soccombiamo nella tentazione", oppure: "Non abbandonarci alla/nella tentazione". Cioè proprio "nel senso in cui si indirizzano le moderne traduzioni".

Senonché, giunto a questo punto, Bovati inaspettatamente svolta. E dichiara di voler proporre una traduzione nuova. Che non coincide affatto con quella che in Italia sembrerebbe sul punto di diventare ufficiale, né con quelle già in uso in Francia, in Argentina e in altri paesi. La nuova traduzione che Bovati propone e argomenta con forza è: "E non metterci alla prova".

A sostegno di questa traduzione egli spiega che la parola "prova" è molto più fedele che non "tentazione" al termine originale greco "peirasmos". Questo perché nel Nuovo Testamento il "tentare" ha il significato malevolo di voler far cadere mediante la seduzione o l'inganno, ed è quindi l'opposto di ciò che Dio fa, mentre la "prova" o il mettere alla prova è nell'intera Bibbia ciò che Dio fa con l'uomo, in vari momenti e modi talora insondabili, ed è ciò che Gesù ha sperimentato al sommo grado nell'orto degli Ulivi prima della passione, quando pregò con le parole: "Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!".

"Non si tratta dunque – scrive Bovati – di pregare il Padre esclusivamente per essere in grado di superare le tentazioni e vincere le seduzioni del Maligno, cosa questa senz'altro necessaria, ma anche di supplicare il Dio buono che conceda il suo aiuto a chi è piccolo e fragile, così da attraversare la notte senza perdersi. Pensiamo a tutti coloro che si rivolgevano a Gesù chiedendo la guarigione, pensiamo anche alle molteplici richieste che ripetiamo quotidianamente, riprendendo le formule dei Salmi o delle orazioni liturgiche, pensiamo infine a quante invocazioni nascono nel nostro cuore quando percepiamo un pericolo, o siamo colpiti dall'ansia per il futuro, o siamo già toccati da qualche sintomo di male. Ebbene, questa variegata forma di richieste al Signore è tutta riassunta e come condensata in un'unica petizione, quella che dice: 'Non metterci alla prova'".

L'articolo di Bovati merita di essere letto per intero. E chissà che i vescovi italiani ne facciano tesoro, quando il prossimo novembre decideranno il da farsi.
Con un'ultima avvertenza, di carattere musicale. Le parole: "E non metterci alla prova" si adatterebbero alla perfezione alla melodia classica del "Padre nostro" cantato. Cosa impossibile, invece, per il macchinoso "E non abbandonarci nella tentazione" che è in pericolo d'essere approvato.





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