Corso di Religione

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Liberalizzare la cannabis. Gli effetti taciuti della “droga leggera” per antonomasia.
Il 10 aprile scorso, il Consiglio Superiore di Sanità (d’ora innanzi CSS) emetteva, su richiesta dell’allora Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, un articolato parere sul tema della “commercializzazione di prodotti contenenti THC” (Delta-9-Tetraidrocannabinolo), ovvero il principio attivo della Cannabis. source :http://www.ildonodellavita.it/17 Lug 2018

In detto parere, il CSS chiariva che «tra le finalità della coltivazione della canapa industriale», previste nell’articolo 2 della legge 242/2016 (sulla base della quale è nato il commercio della cannabis light), «non è inclusa la produzione delle infiorescenze, né la libera vendita al pubblico» di detta sostanza.

Aggiungeva poi che «la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di ‘cannabis’ o ‘cannabis light’ o ‘cannabis leggera’, non può essere esclusa», in quanto «la biodisponibilità di THC anche a basse concentrazioni (0,2%-0,6%) non è trascurabile, sulla base dei dati di letteratura; [infatti] per le caratteristiche farmacocinetiche e chimico-fisiche, il THC e altri principi attivi inalati o assunti con le infiorescenze di cannabis sativa possono penetrare e accumularsi in alcuni tessuti, tra cui cervello e grasso, ben oltre le concentrazioni plasmatiche misurabili».

Il CSS dichiarava infine che «non appare in particolare che sia stato valutato il rischio al consumo di tali prodotti in relazione a specifiche condizioni, quali ad esempio età, presenza di patologie concomitanti, stati di gravidanza/allattamento, interazioni con farmaci, effetti sullo stato di attenzione, così da evitare che l’assunzione inconsapevolmente percepita come ‘sicura e priva di effetti collaterali’ si traduca in un danno per se stessi o per altri (feto, neonato, guida in stato di alterazione)».

Alla luce di tutto quanto riportato, non poteva non addivenirsi alla conclusione secondo cui «la vendita dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa, in cui viene indicata in etichetta la presenza di ‘cannabis’ o ‘cannabis light’ o ‘cannabis leggerà, in forza del parere espresso sulla loro pericolosità, qualunque ne sia il contenuto di THC, pone certamente motivo di preoccupazione» (nostro il corsivo).

Come dettagliatamente descritto nella “Relazione europea sulla droga” , per l’anno 2018, messa a punto dall’Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, la cannabis «resta la sostanza illecita più diffusamente consumata in Europa». I numeri infatti sono impressionanti e nello stesso tempo impietosi nella cruda realtà che fotografano: solo nell’ultimo anno avrebbero fatto uso della cannabis 17 milioni di giovani europei, a fronte di un totale di 24 milioni di consumatori adulti totali, mentre sarebbero 87 i milioni di Europei adulti, poco meno di un quarto della popolazione continentale totale, ad aver fatto uso, almeno una volta nella vita, di detta sostanza, con un trend che è stabile o in crescita in tutti i Paesi dell’area.

Nell’ultimo decennio, poi, la sostanza illecita maggiormente consumata dai giovani, di età compresa tra i 16 e i 35 anni, è risultata essere ancora una volta la cannabis, con percentuali, all’interno della UE, pari al 26%, con un rapporto tra maschi e femmine che è di due ad uno, con un’età del primo uso che si ferma ai sedici anni e, infine, con una frequenza nel consumo che è direttamente proporzionale all’età della prima assunzione.

Alla luce di tutti questi dati a dir poco allarmanti, l’obiettivo del presente studio sarà allora quello di analizzare in maniera sistematica le ragioni comunemente addotte a giustificazione della libera commercializzazione di prodotti e sostanze contenenti il principio attivo della cannabis, al fine di provarne la sostanziale infondatezza, nella trasparenza tanto di evidenze tecnico-scientifiche, quanto di considerazioni più generalmente attinenti all’opportunità politico-giuridica, piuttosto che etico-sociale, delle posizioni lato sensu antiproibizioniste.  

1) Si è soliti giustificare dette posizioni muovendo in primis dalla pretesa innocuità delle sostanze e dei prodotti contenenti THC, facendo osservare come il consumo delle stesse, comunque realizzato, non provocherebbe danni, né avrebbe rischi per la salute psico-fisica dei consumatori. Ebbene, sono ormai anni che la letteratura scientifica internazionale ha dimostrato il numero e l’entità dei danni che l’assunzione non episodica della marijuana può dare.

La relativa lista include: assuefazione, danni al sistema immunologico e a quello nervoso centrale, alterazione cognitiva, disfunzioni nelle attività motorie, problemi respiratori e cardiovascolari, disturbi dell’attenzione, del giudizio e di altre facoltà cognitive e neuropsicologiche, episodi psicotici, deterioramento della facoltà mnemoniche e delle abilità di apprendimento, disturbi mentali, del sonno e di natura psicosociale, aumentato rischio di schizofrenia, propensione all’ansia, alla depressione e alle altre sindromi psicoemotive.

È stato altresì osservato come il cervello degli adolescenti, terminando il suo sviluppo tra i 21 ed i 25 anni di età, in specie per ciò che riguarda la corteccia prefrontale, appare molto più vulnerabile ai danni che le droghe possono dare, danni che possono sostanziarsi in alterazioni macrostrutturali e morfometriche del cervello stesso. Siffatte alterazioni, poi, aumenterebbero il rischio di condotte aggressive e devianti, come conseguenza diretta tanto della diminuita capacità di controllo dell’impulsività e delle emozioni in genere, quanto degli emergenti deficit cognitivi e della memoria breve.

Questo riduce, in generale, la capacità di applicazione ed apprendimento nello studio accademico dei giovani, con tutta una serie di effetti che seguono a catena, come la diserzione scolastica, l’inoccupazione, la dipendenza economica dalle famiglie di origine, cattive relazioni interpersonali, insoddisfazione personale cronica e conseguente inclinazione a delinquere. Si stima infine che su dieci nuovi consumatori abituali almeno due diverranno tecnicamente dipendenti, percentuale che aumenta al decrescere dell’età del primo approccio alla sostanza.

2) Spesso, poi, per sostenere la domanda di liberalizzazione, si ritiene che l’assunzione, ancorché abituale, delle cosiddette “droghe leggere” non creerebbe problemi di dipendenza, lasciando i consumatori nella libertà di decidere discrezionalmente quando abbandonarne l’uso. Ebbene, gli studi scientifici vengono anche in questo caso in nostro aiuto dimostrando come i prodotti a base di THC creano la medesima dipendenza delle altre droghe, dacché il meccanismo neurobiologico che genera la necessità di consumo, l’effetto craving, è esattamente lo stesso.

 La sindrome astinenziale da cannabis ha dunque rilevanza clinica perché in tutto assimilabile a quella provocata da altre sostanze d’abuso. Ora, se è vero che non tutti i consumatori di sostanze psicoatttive divengono perciò stesso dipendenti, è altresì vero che la legalizzazione delle cosiddette “droghe leggere” inciderebbe inevitabilmente sulla percezione sociale della capacità di dette sostanze di provocare dipendenza, abbassando il livello di allarme che invece deve rimanere alto in relazione al consumo di ogni sostanza in grado di dare dipendenza.

3) Altre volte, la domanda di liberalizzazione viene giustificata alla luce degli effetti terapeutici riconducibili all’uso della marijuana, in particolare per ciò che concerne il trattamento del dolore in soggetti affetti da patologie croniche o terminali. È ben vero che alcuni degli effetti terapeutici del THC sono stati oggi riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, in specie per ciò che concerne il trattamento di alcuni sintomi connessi alla sclerosi multipla, o ancora come antiemetico, come analgesico o come stimolante dell’appetito.

Tuttavia si ritiene che tutti i prodotti ottenuti dalla cannabis andrebbero usati con grande cautela, in ottemperanza tanto al principio di prevenzione, che impone, in sede terapeutica, di adottare tutte le misure affinché si riduca il rischio di eventi avversi, oggettivi e provati, connessi all’assunzione dei farmaci, quanto a quello di precauzione, che invece impone di controllare i rischi che derivano dall’impiego di prodotti o tecnologie nuove prima che vi siano prove scientifiche dell’assoluta sicurezza degli stessi per la salute umana.

Dunque, se da un lato come moltissimi altri principi attivi, il THC di per sé non è affatto innocuo e dunque l’autorizzazione al suo utilizzo per finalità terapeutiche dovrebbe poter contare sul rigore di studi e ricerche scientifiche, dall’altro quanto detto fin qui prova che, al pari di tutti gli altri farmaci, la commercializzazione di quelli che sfruttano questo principio deve essere sottoposta alla debita autorizzazione del competenti autorità e che l’uso delle sostanze psicoattive a base di THC non può essere lasciata alla discrezionalità di quanti vogliono disporne per finalità “ludico-ricreative”.<
 
4) Si discute molto anche sull’opportunità di addivenire ad una legalizzazione nella commercializzazione di dette sostanza con il preciso fine di combattere il traffico e la distribuzione illegale, normalmente gestiti da cartelli criminali che se ne contendono il monopolio. Ebbene, bisognerà in primis ricordare come la priorità resta quella di sottrarre il più possibile vite umane alla morsa, spesso letale, della droga e la legalizzazione della stessa, seppure potrebbe portare qualche beneficio nel contrasto all’attività dei clan, nondimeno, si crede, lascerebbe del tutto inalterata la platea degli assuntori, non incidendo sulla sua consistenza se non per aumentarne eventualmente il numero, anche solo potenziale.

Gli effetti della legalizzazione, infatti, non potrebbero non ripercuotersi sulla percezione sociale del fenomeno “droga”, contribuendo alla diffusione di una cultura che vedrebbe nell’uso delle sostanza psicoattive non un male da evitare, bensì qualcosa che lo stesso Stato è giunto a considerare accettabile per mezzo della sua regolamentazione. Vi è anche un altro aspetto da considerare a proposito. La legalizzazione porterebbe con sé, inevitabilmente, l’individuazione di una serie di limiti connessi alla commercializzazione, limiti che andrebbero a riguardare ad esempio le percentuali di principio attivo presente nei prodotti, piuttosto che l’età minima di accesso agli stessi o il loro prezzo di vendita. Ebbene, ai clan basterebbe offrire prodotti aggirando detti limiti per assicurarsi un mercato parallelo che sarebbe certamente fiorente.

5) A quanti invece ritengono che la liberalizzazione della marijuana consentirebbe di concentrare lo sforzo sociale di lotta e repressione del narcotraffico in direzione della produzione e spaccio delle sole “droghe pesanti”, si può replicare che:

a) la distinzione tra droghe pesanti e leggere non ha alcun fondamento scientifico e vale solo ad ingenerare, nell’opinione pubblica, un affidamento ingannevole. Dunque sarebbe più logico classificare le droghe a partire dagli effetti che ciascuna di essa è in grado di produrre sul sistema nervoso centrale (SNC), sulla base cioè di riscontri empiricamente verificabili e quantificabili;

b) come ampiamente provato in sede scientifica, in alcuni soggetti particolarmente vulnerabili da un punto di vista neuropsichico, l’uso precoce di cannabis può avere un ruolo determinante nella sensibilizzazione cerebrale verso la sperimentazione di droghe con un maggior effetto psicoattivo. Si stima infatti che solo l’1% dei consumatori abituali di stupefacenti abbia provato direttamente ed immediatamente sostanze come cocaina, eroina o anfetamine, essendo stato invece provato come la variabile “età di primo uso della marijuana” sia quella che maggiormente influisce nel passaggio ad altre droghe.

Curiosità, moda ed esibizionismo sono spesso le cause prossime di alcune forme di tossicomanie giovanili, eppure da sole sarebbero insufficienti a spiegare un fenomeno così vasto, trasversale e complesso. Non a caso il fenomeno della droga è scoppiato nel ’68, quando cioè il disagio giovanile, sempre più diffuso ed irriducibile al normale conflitto generazionale, è divenuto contestazione globale verso una società apparsa incomprensibile, opprimente e alienante.

Quella contestazione, tuttavia, pur opponendosi allo status quo, conservava l’intima speranza di un miglioramento, quasi di una possibile redenzione generazionale e sociale. Ma quando il disadattamento, per l’eclissi progressivo di una paradigma escatologico ancora universalmente accettato e nella cui trasparenza collocare la rivoluzione antropologica in atto, si è trasformato in disperazione esistenziale, l’idea della rivoluzione, privata dell’utopia dei suoi orizzonti prospettici, ha lasciato il posto all’amarezza alienante della disillusione, favorendo l’evasione ad ogni costo dalla realtà con il “rifugio” nella droga.

Le tossicomanie restano dunque anzitutto un problema sociale o, meglio, un problema morale delle società odierne. La soluzione di detto problema non passa solo dalla disintossicazione, essendo necessario intervenire sulle cause remote che lo determinano: l’ignoranza giovanile, il traffico della droga, la situazione psicologica del soggetto, la condizione alienante della società scolastica, familiare, civile. In nessun modo la liberalizzazione delle droghe cosiddette “leggere” potrebbe valere a combattere o ridurre anche una sola di queste cause.

Il fondamentale ruolo di dissuasione, disincentivazione, contrasto e repressione che lo Stato è chiamato a svolgere, implicherà allora da un lato l’obbligo di agire preventivamente e programmaticamente in vista della promozione e protezione della salute pubblica, così come della salvaguardia di una cultura della salute individuale, in specie tra i giovani –aspetti che la liberalizzazione delle droghe cosiddette “leggere” contraddirebbe, contrasterebbe, combatterebbe apertamente; dall’altro l’obbligo di formare le nuove generazioni ad un rinnovata cultura della moralità individuale e della legalità pubblica, gli “assi cartesiani” nel cui piano poter delineare i tratti di una società dal volto autenticamente umano, perché basata sulla cultura del rispetto proprio, dell’altrui persona e della collettività tutta.

La legalizzazione della cannabis rappresenta non solo la negazione sistematica di tali idealità, ma anche l’ultimo avamposto di una tendenza culturale che si muove sempre più chiaramente verso un’umanità post-moderna, post-cristiana e post-umana finanche!


Antonio Casciano




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