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Percorsi e tendenze dell’attivismo femminile islamico

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Quando si parla di Islam contemporaneo, poche questioni sono forse tanto controverse quanto la condizione della donna. source :source : https://www.oasiscenter.eu Ultimo aggiornamento: 10/01/2020 13:12:20 Michele Brignone, Riconoscere la parità, rispettare la differenza, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2019,

È infatti nella figura femminile che si condensano molte delle tensioni che attraversano le società musulmane: la dialettica tra tradizione e rinnovamento, il rapporto tra Stato e religione, la relazione tra diritto divino e diritti dell’uomo.

Nonostante la sua rilevanza, è con un po’ di esitazione che ci siamo decisi a fare i conti con questa tematica. Il dibattito è particolarmente inquinato da banalizzazioni, stereotipi e ideologie e prendervi parte significa correre il rischio di trasformare le donne musulmane in un terreno di contesa.

Invece di discutere della donna nell’Islam, abbiamo allora preferito mettere a fuoco l’Islam delle donne, lasciando che fossero le musulmane a parlare per loro stesse. Lo abbiamo fatto dando direttamente spazio ad alcune protagoniste dell’attivismo femminile islamico o analizzando la loro realtà in diversi contesti.  

Una di queste protagoniste è Ziba Mir-Hosseini, che nell’articolo di apertura critica la permanenza di concezioni premoderne dei rapporti tra uomo e donna nella legislazione dei Paesi musulmani e allo stesso tempo descrive la sua esperienza con Musawah (“uguaglianza”), un movimento che promuove «l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana» attraverso una rilettura dei testi fondanti dell’Islam.

L’idea della discriminazione, o addirittura della reclusione delle donne nelle società musulmane tradizionali è però soltanto una delle narrazioni in campo. Attraverso il caso africano, Britta Frede evidenzia infatti il contributo delle studiose musulmane alla tradizione intellettuale islamica e ai movimenti di riforma sufi emersi tra il XVIII e XIX secolo nel continente.

La sua analisi punta a relativizzare il luogo comune della subordinazione femminile – le libertà conquistate dalle donne durante la modernità potrebbero «non essere così nuove», scrive nel suo articolo – e mette in luce come la categoria del “genere” non sia sufficiente a spiegare il grado di inclusione o di esclusione delle donne dalla vita sociale e culturale.

Rappresentante emblematica del sapere islamico femminile è anche ‘Ā’isha al-Bā‘ūniyya, mistica damascena del XV secolo di cui presentiamo nella sezione “Classici” un ispiratissimo testo sull’amore divino, tradotto e presentato da Martino Diez.  

Le due narrazioni si rincorrono nelle due interviste che abbiamo incluso nei “Temi”: Amina Wadud, una delle pioniere del femminismo islamico, presenta la sua riflessione sulla necessità di integrare le prospettive di genere nell’interpretazione dell’Islam; Safia Shahid racconta invece il suo impegno nel rilanciare la tradizione del sapere islamico femminile e mette in guardia dalle rivendicazioni che si oppongono a letture consolidate dell’Islam.

Il contributo di Jesper Petersen sui femminismi islamici in Europa mostra a sua volta un panorama articolato, in cui la nozione stessa di femminismo può rimandare a fenomeni e a rivendicazioni diverse a seconda dei contesti: a Londra, ad esempio, «è possibile assistere a una preghiera del venerdì promiscua e guidata da donne», mentre solo 300 chilometri più a Nord, nella città di Bradford, il Consiglio delle Donne Musulmane ha dato vita a una moschea con un consiglio d’amministrazione tutto al femminile, che però ha scelto di rispettare i confini convenzionali delle relazioni tra i sessi affidando la direzione della preghiera a un imam uomo.

Anche due importanti musulmane del Novecento, la studiosa di esegesi coranica ‘Ā’isha ‘Abd al-Rahmān e la pakistana Benazir Bhutto, prima donna musulmana a ricoprire in epoca contemporanea un incarico politico di vertice, presentano profili piuttosto differenti.

La prima, come spiega Margherita Picchi, è stata una figura complessa, rimasta legata a una visione tradizionale dei rapporti tra i sessi eppure capace di tenere testa a shaykh e presidenti. La seconda, la cui biografia è presentata da Clinton Bennet, ha associato alla carriera politica una riflessione riformista sulla parità tra uomo e donna.

Il rapporto tra presenza pubblica ed emancipazione è dunque tutt’altro che lineare. Un’ulteriore conferma viene dal caso delle predicatrici saudite prese in esame da Chiara Pellegrino. Formatesi sull’onda del processo di scolarizzazione femminile iniziato negli anni ’70, queste esperte in scienze religiose hanno guadagnato grazie alle nuove tecnologie una notevole visibilità.

Il loro ruolo rimane però ambiguo, perché mentre rappresentano una forma inedita di autorità religiosa femminile contribuiscono a perpetuare quel wahhabismo che ha fatto della subordinazione della donna un pilastro della vita sociale. Una dinamica simile si osserva in Marocco con la figura delle murshidāt.

Queste predicatrici attenuano infatti il monopolio maschile della sfera religiosa, ma allo stesso tempo consentono un più efficace controllo di quest’ultima da parte dello Stato. Come emerge dall’articolo di Sara Borrillo, nel regno maghrebino l’attivismo femminile è decisamente più radicato e incisivo che in Arabia Saudita, dove, ricordiamolo, si è potuto definire “conquista storica” il fatto che le donne possano guidare un’automobile.

Anche a Rabat, tuttavia, la piena affermazione dei diritti delle donne è limitata dalla necessità della monarchia di mediare tra interessi diversi.

Infine il reportage, scritto da Sara Manisera, traccia il profilo di cinque musulmane italiane, impegnate in una lotta per il riconoscimento che per alcune di loro implica tre dimensioni: la femminilità, la fede islamica e l’origine straniera.

Da questa rassegna risulta un quadro decisamente diversificato, all’interno del quale è tuttavia possibile distinguere due grandi tendenze. Da un lato la posizione di quanti ritengono che la tutela della donna sia sufficientemente garantita sia dai testi fondanti dell’Islam sia dalla tradizione islamica, e rischiano in questo modo di avallare visioni e pratiche patriarcali effettivamente esistenti in alcune società.

Dall’altro quelle attiviste che, in nome di una concezione radicale dell’uguaglianza o seguendo una logica di riconoscimento reciproco di diritti, estendono il loro impegno fino ad assumere l’insieme delle rivendicazioni connesse con la teoria del gender.

L’alternativa non è semplicemente collocarsi in una posizione intermedia, quanto prendere sul serio la differenza sessuale, senza farne il fondamento di un rapporto di dominazione, ma anche senza rinunciare a riconoscervi un dato costitutivo dell’essere umano.


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Italiane e musulmane: un viaggio tra diritti, lotte e spiritualità . Fatiche, incomprensioni e traguardi di cinque donne musulmane, nuovo volto della società civile italiana source : https://www.oasiscenter.eu | Sara Manisera Ultimo aggiornamento: 10/01/2020 13:13:49

Una si occupa di teologia e formazione religiosa, due sono consigliere comunali, una è giornalista, una è attiva nell’associazionismo musulmano: cinque donne di fede islamica, volto nuovo di una società italiana in piena trasformazione, raccontano fatiche, incomprensioni, ma anche traguardi del loro impegno civile.

Questo è un viaggio alla scoperta di cinque donne. Cinque cittadine italiane di fede musulmana, attive nella società civile: Francesca Bocca-Aldaqre, Marwa Mahmoud, Sumaya Abdel Qader, Asmae Dachan e Nadia Bouzekri.

Sono ricercatrici, giornaliste, consigliere comunali e attiviste. Sono donne e lavoratrici. Madri e mogli. Sono single, sposate o divorziate. Le loro storie restituiscono uno spaccato d’Italia poco conosciuto e narrato, fatto di lavoro, di studio, di battaglie per i diritti, di discriminazioni, ma soprattutto di sfumature e di ponti.

È un viaggio che attraversa città e piccoli comuni. Milano, Reggio Emilia, passando per Piacenza, Perugia, Angeli di Rosora, Ancona e Sesto San Giovanni. A ben guardare, però, quasi tutte le loro biografie hanno origini più lontane: Siria, Marocco, Egitto e Giordania, i Paesi da dove sono partiti i loro genitori prima di arrivare in Italia, per studio o per lavoro. Non ieri ma 30, 40, persino 50 anni fa.

Le loro voci e le loro esperienze rappresentano uno squarcio sull’Italia di oggi, perché sono la testimonianza diretta di una fase storica che ha visto il nostro Paese diventare, per la prima volta, terra d’immigrazione. E perché queste donne rappresentano già il volto nuovo della società contemporanea, fatta anche di cittadini italiani di fede musulmana.
 

Piacenza, tra Goethe e l’Islam
È una torrida giornata di fine luglio. L’aria è pesante e appiccicosa. Dalle nuvole basse e cariche di umidità penetra un fascio di luce biancastro. Piacenza appare sonnecchiante, a tratti deserta. Lo si intuisce osservando la zona industriale, un alternarsi di scatoloni di cemento armato, svuotati dei lavoratori in vacanza.

È qui, tra queste fabbriche grigie, immerse nella pianura padana, che ha sede l’Istituto di Studi Islamici Averroè. Ad accoglierci, con un sorriso timido e gentile, è Francesca Bocca-Aldaqre, direttrice dell’istituto.

Prima di farci accomodare, spiega com’è organizzata la struttura. A sinistra, un capannone industriale ospita la sala di preghiera, accanto vi è la sala per la didattica e il doposcuola per i bambini. Sono più di 300 i ragazzi e le ragazze che frequentano le lezioni e le attività del centro, da ottobre fino a giugno. «Mi è stato chiesto di dirigerlo perché c’era l’esigenza, da parte della comunità, di insegnare l’Islam ai bambini in un modo diverso», spiega all’ingresso del suo ufficio.

«Prima si creava una situazione settaria tra i bambini di origini marocchine, albanesi e di altre comunità. Studiavano in lingue diverse, seguendo la scuola giuridica di ciascuna comunità. Negli ultimi tre anni, abbiamo sviluppato un programma comune per tutti, con libri di testo in italiano.

Se questi luoghi restano come se fossimo in Marocco o in Albania, si rischia di danneggiare molto i giovani, perché si sentiranno costretti a scegliere tra il Paese d’origine dei genitori e l’Italia ed è ciò che noi cerchiamo di evitare», racconta la direttrice con voce pacata e autorevole.

Le attività, divise per livelli secondo l’età, comprendono il catechismo, l’insegnamento della lingua araba e del Corano, ma anche corsi sulla cittadinanza, organizzati con l’Anpi e i carabinieri.

Una novità introdotta proprio da lei per «affrontare il tema della cittadinanza e dell’appartenenza alla comunità italiana e musulmana, anche se non si è ancora cittadini italiani», afferma. Dalle sue parole si percepisce la preparazione scientifica, religiosa e culturale. E non è un caso.


Francesca Bocca-Aldaqre non è solo la direttrice dell’Istituto Averroè. È una studiosa di teologia, professoressa di Cultura islamica all’Istituto di Studi islamici a Sesto San Giovanni e docente di Neuroscienze all’Università islamica del Qatar.

Ha trentadue anni, due lauree e altrettanti percorsi di specializzazione. Uno in Psicologia delle Scienze cognitive al San Raffaele di Milano e uno in Studi islamici all’università Ludwig-Maximilians di Monaco, ma ha scelto di dedicarsi a tempo pieno alla teologia e alla riflessione sistematica sul Corano e sulla Sunna «una disciplina dove c’è più da fare, soprattutto in lingua italiana, poiché sono ancora pochissimi i musulmani che, in Italia, reinterpretano criticamente la propria tradizione».

Tutto qui? Certo che no. L’attività di ricerca che vede più impegnata Francesca Bocca-Aldaqre è quella sull’Islam e la cultura europea. Il suo ultimo libro, Sotto il suo passo nascono i fiori. Goethe e l’Islam (La Nave di Teseo), scritto con Pietrangelo Buttafuoco, nasce proprio da un’indagine su come lo scrittore e drammaturgo tedesco si sia fatto ispirare dal Corano nelle sue opere e nelle sue poesie.

Uno studio che le ha permesso di approfondire anche la propria identità, collegando la cultura di cittadina italiana alla religione musulmana.

Francesca Bocca, coniugata Aldaqre, è infatti una piacentina doc, figlia di genitori cattolici praticanti. Nel 2010 ha scelto di convertirsi all’Islam. «All’inizio, non sono stati contenti della mia scelta. Ero a Boston quando ho deciso di identificarmi come musulmana e non capivano cosa stesse succedendo. Al mio rientro, hanno capito che questa scelta cambiava alcuni aspetti della mia vita ma non ledeva la nostra vicinanza».

E, infatti, a casa sua si festeggiano tutte le celebrazioni religiose, il Natale e il Ramadan, la Pasqua e la Festa del Sacrificio. Certo, le difficoltà e gli episodi di discriminazione non mancano, nella vita e nel lavoro. «Se c’è da intraprendere un ambizioso progetto di ricerca si dà per scontato che io non sia in grado o sia meno professionale. Non so se ha che fare con l’essere donna, con l’essere musulmana o con entrambe», conclude sorridendo.  

Reggio Emilia, la giustizia sociale e la Costituzione
Se per Francesca Bocca-Aldaqre, i libri, la ricerca e l’università rappresentano gli ambiti privilegiati del suo impegno, per Marwa Mahmoud, l’attivismo e la politica sono, in qualche modo, la sua seconda casa.

L’appuntamento con lei è fissato una canicolare mattina di mezz’estate nel cuore del parco Robert Baden-Powell, a Reggio Emilia. In questa città, più che altrove, le vie ricordano la storia d’Italia. Dalla stazione ferroviaria, si scivola in via IV Novembre, si attraversa piazza del Tricolore e giù dritto per viale Piave, via del Risorgimento e via Marzabotto. Uno sguardo attento noterà subito anche lo spirito multicolore di Reggio Emilia. 170mila abitanti, di cui il 17% stranieri e 149 nazionalità diverse. Un ecosistema demografico unico nel suo genere.

Marwa Mahmoud, egiziana di nascita e cittadina italiana, è cresciuta qui. Trentacinque anni, mamma single di una bambina di sette, laurea in Lingue e Letterature Straniere a Bologna e una vita dedicata all’educazione, all’interculturalità, al dialogo interreligioso e all’emancipazione femminile.

Da oltre dieci anni lavora al Centro Mondinsieme come responsabile dei progetti di educazione interculturale e, da maggio 2019, con 827 preferenze, è stata eletta consigliera comunale di Reggio Emilia, la prima nella storia della città con un background migratorio.

È una donna energica, solare e le sue parole sono una boccata d’ossigeno. «La mia esperienza come figlia di migranti e l’attesa per ottenere la cittadinanza italiana hanno fatto nascere in me la voglia di lottare contro le ingiustizie sociali», racconta, con un accento marcatamente emiliano.

«Dopo la delusione per la mancata approvazione del progetto di legge sulla riforma della cittadinanza, mi sono convinta che era giunto il momento di metterci la faccia, non solo per parlare d’immigrazione, ma anche di un cambiamento sociale e culturale che esiste già. Basterebbe entrare in una scuola per capirlo. Noi, figli di persone con origini straniere, possiamo essere connettori e costruttori di ponti. Siamo mediatori innati, perché fin da piccoli abbiamo dovuto costruire un equilibrio tra casa e fuori, tra culture, lingue e religioni diverse. E questo significa portarsi dietro un valore aggiunto».

Marwa parla senza fermarsi, cita Pertini, la Costituzione, Naguib Mahfuz – scrittore egiziano e Premio Nobel per la letteratura – e Luigi Pirandello che, per lei, rappresentano «la letteratura tra le due sponde del Mediterraneo».

«Il problema è che spesso le donne italiane musulmane sono rigettate da entrambe le parti, cioè siamo troppo haram per gli halal e troppo halal per gli haram»

E poi si apre a raccontare se stessa, senza fastidio o imbarazzo. Parla della famiglia che l’ha sempre appoggiata, «soprattutto mio padre», racconta con una punta d’orgoglio, «perché ha visto in me una forma di riscatto sociale» e poi del rapporto con la fede, a fasi alterne.

Tardi la scelta di indossare il velo, durante il primo anno di università e, sempre da adulta, la piena consapevolezza di poter vivere l’Islam da cittadina italiana, senza rinnegare le sue origini. «C’è una questione di valori che io condivido, come la misericordia, la pace, la fratellanza, la tolleranza, che sono legati alla fede e poi c’è un protocollo comportamentale che bisognerebbe mettere in discussione per vivere in sintonia con la società qui.

Il problema è che spesso le donne italiane musulmane sono rigettate da entrambe le parti, cioè siamo troppo haram per gli halal e troppo halal per gli haram. Per le femministe dell’ancien régime siamo troppo frigide e radicalizzate e per alcuni della comunità islamica siamo troppo emancipate.

È qui che devi riuscire a trovare un equilibrio. Io personalmente cerco di portare l’attenzione sui diritti. Se pretendo di essere rispettata, di non essere aggredita perché porto l’hijab, devo riconoscere all’altro dei diritti, per esempio a prescindere dall’orientamento sessuale. Se vuoi dei diritti, allora lottiamo per i diritti reciproci, che è la cosa più difficile ma necessaria. E questo lo puoi fare se hai come riferimento la Costituzione italiana».


Da Perugia a Milano: biologia, politica e cittadinanza attiva 
La terza tappa di questo viaggio parte idealmente dalle dolci colline umbre e da Perugia, la città dove Sumaya Abdel Qader è nata e cresciuta in una famiglia giordana-palestinese arrivata in Italia più di cinquant’anni fa.

È Milano, però, il luogo «pieno di potenzialità da dove non se ne andrebbe mai», dice, seduta in un chiosco davanti all’ingresso del Parco Trotter, zona nordest del capoluogo lombardo, tra viale Monza e viale Padova. Sumaya Abdel Qader si è trasferita al Nord per amore, quando ha sposato suo marito e ha iniziato l’università. Anche per lei doppia laurea. Una in Biologia e l’altra in Mediazione Linguistica e Sociologia.

È da sempre attiva nella società civile; dai comitati genitori dei suoi tre figli al volontariato in varie associazioni di quartiere e contemporaneamente con la comunità musulmana. È una delle fondatrici dei Giovani Musulmani d’Italia (GMI), ha lavorato a livello europeo nel forum delle donne musulmane in Europa (EFOMW), oggi parte dell’European Network Against Racism (ENAR), è stata una delle promotrici e animatrici del progetto Aisha per il contrasto della violenza di genere all’interno della comunità musulmana e, da giugno 2016, è consigliera comunale di maggioranza.

«Non me la sono sentita di mettermi da parte, per dovere e senso di responsabilità. Sapendo di avere accesso a più letture e più mondi, ho sempre pensato che chi, come me, poteva avere questo retaggio di ricchezza, dovesse restituirlo», racconta con umiltà.

Una scelta coraggiosa quella di candidarsi, pagata con duri attacchi, insulti e minacce. «Per una donna italiana musulmana che vuole impegnarsi è difficilissimo, specialmente quando indossi il velo. Nelle ultime elezioni amministrative, si sono candidate oltre dieci ragazze musulmane e tutte sono state massacrate nello stesso modo.

Nonostante ciò, ho visto in questi anni un grande attivismo tra le donne, a livello sociale, politico e culturale. Perché? Perché c’è tanta voglia di riscattarsi e di essere protagoniste, di esserci».

Si legge negli occhi la passione civile che la guida. Ma al tempo stesso, non nasconde il suo disappunto verso la politica «che non ha sviluppato politiche nei confronti dei figli degli immigrati, non ha affrontato la questione della cittadinanza e, spesso, criminalizza tutto il mondo islamico».

Sumaya è una donna schietta, e non risparmia critiche nei confronti della comunità musulmana e verso alcuni aspetti della sua religione. «Credo moltissimo in Dio e sono praticante. Il mio scontro nasce su questioni che io non comprendo, come alcune interpretazioni dal taglio molto maschilista e poco lungimirante. Io credo che una religione debba essere flessibile in base al tempo e allo spazio e in base alla cultura che progredisce, perché deve avere la capacità di adattamento al contesto», spiega senza indugio.

E sul futuro, ancora non sa cosa fare da grande. Forse un dottorato o forse tornare sui libri, la sua seconda grande passione. Anzi la terza, dopo la biologia e la politica.  


Il porto di Ancona, la scrittura e il volontariato
Se c’è un luogo che per Asmae Dachan significa casa, questo è senz'altro il porto di Ancona, la sua baia e le insenature frastagliate, circondate da intensi profumi di fitta macchia mediterranea.

È l’ora del tramonto e dopo averci fatto visitare le meraviglie paesaggistiche della sua regione – il Parco Nazionale del Conero, le grotte di Frasassi e il fiume Esino – la nostra intervista termina qui, in cima al colle Guasco da cui svetta il Duomo di San Ciriaco, la cattedrale romanico-bizantina della città.

Nata e cresciuta tra Ancona e Angeli di Rosora da genitori siriani giunti in Italia a metà degli anni ’60, Asmae Dachan è una giornalista professionista, scrittrice e poetessa, mamma di due ragazzi. È ambasciatrice di pace dell’Università per la Pace della Svizzera e membro del Comitato Scientifico dell’Università per la Pace di Senigallia e Ancona.

Anche per lei doppia laurea: una in Teologia e Studi islamici all’Istituto Europeo delle Scienze Umane di Château-Chinon, in Francia, l’altra in Scienze della Comunicazione a Urbino.

Una carriera cominciata nei giornali locali, prima per la Voce della Vallesina della diocesi di Jesi, poi per il mensile marchigiano Mondo Lavoro, di cui è stata anche direttrice responsabile.

Nel 2013 il viaggio in Siria che le cambia la vita, sia nel lavoro, sia nel rapporto con la fede. «Penso di aver trovato Dio in un campo di sfollati in Siria», racconta con profonda sensibilità, «È stato il mio primo reportage all’estero, in un Paese che era anche la mia casa ed è stato un viaggio che mi ha insegnato molto. Ho imparato a essere vicina al dolore degli altri». Numerosi i reportage all’estero in questi anni, in Siria, Turchia e in Europa per diverse testate, come Avvenire, Panorama, The Post Internazionale.

Oltre al lavoro di giornalista, Asmae Dachan è spesso impegnata in tutta Italia in conferenze e laboratori sul dialogo interreligioso e sulla pace con decine di scuole di ogni ordine e grado.

La sua modestia non glielo fa ammettere, ma è proprio per il suo impegno come giornalista e ambasciatrice di pace che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’ha insignita quest’anno dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, il più alto degli ordini della Repubblica italiana.

E nel ricordare quel momento, abbassa la testa e dice «È stata la più bella dichiarazione d’amore che avessi potuto ricevere, perché ho visto lo Stato come qualcosa di grande, che abbraccia la sua bambina». Un premio giusto e meritato che le è costato un vile e meschino attacco sulla rete da parte di alcuni giornali ed esponenti politici.

«Qualcuno ha detto che lo Stato si è inchinato all’Islam. L’Islam non c’entra niente. Io sono Asmae, sono una persona, una cittadina che si impegna e che si impegnerà ancora di più per il bene di questo Stato».

Asmae Dachan sceglie con zelo ogni parola, sempre appropriata e mai sconveniente. «Paghiamo il fatto di essere pioniere, le prime donne italiane e musulmane a esporci, anche se tutte le donne in Italia incontrano ancora queste difficoltà quando ci mettono la faccia».

Eccola la giornalista che riporta al centro la storia degli altri e non la sua. Asmae è così: umile, riguardosa e altruista. E tra un reportage e una conferenza, fa anche la volontaria per la Croce Rossa, però, si raccomanda, «Scrivete che non siamo solo serie, che ridiamo, scherziamo e ci divertiamo», dice con un sorriso contagioso.


Da Sesto San Giovanni a Bruxelles: il mondo è la sua casa
L’ultima tappa di questo viaggio è parco Sempione, il grande parco pubblico milanese a ridosso del Castello Sforzesco, «dove tutti possono sentirsi a casa».

Così lo definisce Nadia Bouzekri, cittadina italiana, nata e cresciuta a Sesto San Giovanni, storica roccaforte operaia delle periferie industriali milanesi, da genitori marocchini arrivati in Italia alla fine degli anni ’70.

È lei a scegliere questo luogo per la nostra intervista. Nadia arriva puntuale, elegante e sorridente, un pomeriggio semi-autunnale, dopo il lavoro. Ha ventisette anni, una laurea in Lingue e Letterature Straniere, lavora come analista economica, è vicepresidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) e ha alle spalle 11 anni di impegno nella società civile.

Il suo attivismo comincia a 16 anni, quando partecipa come volontaria alle attività dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia (GMI); organizza campeggi e campagne di sensibilizzazione sui diritti umani, incontra decine di studenti nelle scuole per parlare di dialogo interreligioso e cittadinanza attiva e, nel 2016, a ventiquattro anni, viene eletta presidente, la prima donna nella storia dell’associazione.

Da quel momento Nadia inizia a viaggiare, portando avanti le istanze dei giovani italiani musulmani nei tavoli ministeriali. Così lo ricorda: «Parlavo dei diritti dei giovani. Per esempio avere una sala multifede all’università dove tutti potessero pregare, oppure il cibo halal, o l’assenza giustificata a scuola durante il Ramadan. Io per anni ho messo malattia. Sono piccole cose che ti fanno sentire diverso», spiega con semplicità e chiarezza.

In pochi anni, il suo attivismo va oltre confine. Nadia inizia a viaggiare anche in Europa, a Bruxelles, dove porta avanti una serie di campagne con la Commissione europea e il Femyso, il Forum europeo dei giovani e delle associazioni studentesche musulmane, per contrastare l’islamofobia.

«Mi sono resa conto che in Italia è permesso esprimere la propria religiosità o spiritualità, attraverso il vestiario o la croce. In Francia tutto ciò è negato e quest’idea di laicismo estremizzato nega i diritti dei cittadini, cioè si è tutti uguali negando sé stessi. Io penso che la nostra Costituzione sia davvero la migliore. Nel senso che sulla carta io dovrei avere dei diritti, come l’assistenza spirituale negli ospedali, il cibo halal, la sala di preghiera, ma siccome non c’è un’Intesa tra Stato e comunità, nella pratica non li ho. Ma la Costituzione lo prevede e per questo è importante fare questa Intesa e riconoscere gli italiani musulmani come cittadini di pari livello».

Visione e lungimiranza non le mancano. Così come la sana e naturale sfrontatezza della sua età. «C’è questa idea che una ragazza con il velo sia una santa, una bigotta o che non sia in grado di divertirsi. Io esco, vado a fare l’aperitivo, faccio palestra, ho avuto il fidanzato e oggi sono single. Sono musulmana ma non rappresento tutta la comunità. Rappresento me stessa, sono una persona normale, che lavora, studia, si impegna per la società e il Paese in cui vive e porta avanti i propri sogni. È così strano?».


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