Corso di Religione

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Papa Francesco scrive alle Pontificie Opere Missionarie : «ROMPETE TUTTI GLI SPECCHI DI CASA!»


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Francesco ha condensato in un semplice Messaggio d’occasione  una riflessione forte e ampia sulla missione della Chiesa nel mondo

source : laciviltacattolica.it 21 Maggio 2020 di Antonio Spadaro



La pandemia ha reso impossibile la sua presenza all’Assemblea generale annuale delle Pontificie Opere Missionarie[1], e così ha colto l’occasione per usare parole non addomesticabili con retoriche morbide e di convenienza.

Anzi, propone un’analisi molto dura, che probabilmente guarda oltre i diretti destinatari, unita a un disarmante appello alla Chiesa a lasciarsi plasmare dall’incontro con Cristo e dal potere vivificante e contagioso – dunque missionario – dello Spirito.

«Quando nella missione della Chiesa non si coglie e riconosce l’opera attuale ed efficace dello Spirito Santo, vuol dire che perfino le parole della missione – anche le più esatte, anche le più pensate – sono diventate come “discorsi di umana sapienza”, usati per dar gloria a sé stessi o rimuovere e mascherare i propri deserti interiori».

Tra spirito e istituzione

Il Messaggio presenta una Chiesa che sceglie e predilige, e non resta immersa nelle sabbie mobili di tensioni endogene e sterili equilibrismi. Francesco intende mettere dunque la Chiesa in uno stato di conversione, non evocando «piani di mobilitazione pastorale» né strategie, ma chiedendole un «corpo a corpo con la vita in atto». E dice in maniera semplice, diretta, candida che o ci si espone al soffio dello Spirito o si muore d’asfissia.

La peggiore di tali possibili asfissie è quella provocata dallo strangolamento delle procedure. L’aria respirabile per la Chiesa è solo quella dello Spirito.

Comprendiamo già che nel Messaggio ritroviamo una dialettica tra «spirito» e «istituzione» che invece esclude la logica degli «apparati ecclesiastici», che «sembrano risucchiati dall’ossessione di promuovere sé stessi e le proprie iniziative». Francesco non vuole una Chiesa «rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangeli Gaudium EG49).

Il respiro spirituale dell’istituzione e la forma istituzionale che assume il carisma sono da considerare sempre insieme. Francesco l’ha ripetuto più volte, sin dall’Evangelii Gaudium. Nella sua intervista a Austin Ivereigh in pieno tempo di pandemia, pubblicata sul sito internet de La Civiltà Cattolica, egli afferma che «la Chiesa è istituzione», ma a renderla tale è lo Spirito Santo, che «provoca disordine con i carismi, ma in quel disordine crea armonia», evitando però l’«introversione ecclesiale» [2].

Il processo di istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione è fluido: resta quello che serve, e non quello che non serve più. Il futuro della Chiesa non è né statico né rigido.

La missione non è organizzazione


Il Messaggio di Francesco fa un’analisi dello stato della Chiesa con uno stile preciso e senza parlare «in generale». Il Papa usa l’immagine della carità del medico che non esita a usare il bisturi per aggredire il tumore. L’impazienza che trapela dalla sintassi ha il piglio del discorso profetico. E respinge un’assimilazione osmotica e indolore del testo. Fa appello alla discontinuità rispetto a prassi ecclesiastiche consolidate.

Scrive Francesco degli stessi discepoli che seguivano Cristo: «Lui sta per dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle proprie congetture». Oggi come allora: siamo persi tra le congetture, come se fossimo noi a dover «organizzare la conversione del mondo al cristianesimo» o la stessa vita dello spirito. «Fa bene a tutti uscire dal chiuso delle proprie problematiche interne, quando si segue Gesù», scrive.

Se la missione non è organizzazione, il sacerdos non può ridursi a un pelagiano burocrate dello spirito o «funzionario della missione». Questo discorso tocca l’esercizio del potere nella Chiesa. Il fraintendimento è possibile, e il Papa chiarisce che la missione è animata da una «sincera passione per la felicità e la salvezza degli altri». E va preservata «da ogni presunta autosufficienza, dalla tentazione di prendere in ostaggio la carne di Cristo – asceso al Cielo – per i propri progetti clericali di potere».

Esplicitare la connessione tra clericalismo e potere non è certo una cosa nuova per Francesco. Lo fa sempre chiaramente quando tratta la questione degli abusi, ad esempio. Ma il discorso si può estendere a ogni deriva pelagiana del sacro, dove si annida la tentazione della mondanità e del potere che logora l’annuncio e lo rende grottesco, perché spesso ha apparenza (e solo quella) di bene.

Il passo ulteriore, se così possiamo dire, è che il Papa toglie impietosamente il velo a questa dinamica di potere in territorio ecclesiastico e mostra che cosa nasconde: «i propri deserti interiori».

Il godimento della presenza


La gioia del Vangelo è l’annuncio della salvezza, che «è l’incontro con Gesù, che ci vuole bene e ci perdona, inviandoci lo Spirito che ci consola e ci difende». La salvezza, dunque, non è conseguenza di una «iniziativa missionaria». Non è neanche la conseguenza sui «discorsi sull’incarnazione del Verbo». Essa «avviene» attraverso lo sguardo dell’incontro con Gesù. L’incontro con uno sguardo che tocca l’anima è godimento, godimento della presenza.

E il godimento è radicalmente contrario ai «convenevoli imposti dal conformismo ecclesiastico». Il godimento è frutto dell’attrazione: «Cristo si rivela a noi attirandoci». E, per dare un’immagine di questa attrattiva, Francesco ricorda che sant’Agostino citava il poeta Virgilio, secondo il quale «ciascuno è attratto da ciò che gli piace. Gesù non solo convince la nostra volontà, ma attira il nostro piacere» (Commento al Vangelo di Giovanni, 24,4).

Non «ci si può “stupire per forza”». Il «fervore missionario non si può mai ottenere in conseguenza di un ragionamento o di un calcolo», né è «appropriato insistere nel presentare la missione e l’annuncio del Vangelo come se fossero […] una specie di “obbligo contrattuale” dei battezzati». Francesco delinea con orrore un’area dello spirito capace di assorbire il Vangelo in una voragine di insignificanza che lo «uccide», snaturando «anche il dono dei sacramenti e le parole più autentiche della fede cristiana come un bottino che ci si è meritato». La stessa presenza del Signore richiede, necessita la percezione di qualcosa che ci sfugge e che non è controllabile, calcolabile. Così come la conoscenza di Dio che non può essere il frutto delle proprie forze.

E dunque il godimento della presenza del Signore e il suo annuncio richiedono umiltà. Molto significativo il fatto che il Papa ricordi come Sant’Agostino si fosse chiesto come mai, dopo la Risurrezione, Gesù si sia fatto vedere solo dai suoi discepoli e non invece da chi lo aveva crocifisso. E risponde «che Gesù non voleva dare l’impressione di sfidare in qualche modo i suoi uccisori. Per lui era infatti più importante insegnare l’umiltà agli amici, piuttosto che rinfacciare la verità ai nemici (Discorso 284,6)».

Il territorio: la vita ordinaria e le sue ferite


Ma dov’è il luogo di contatto tra il Vangelo e le persone? La risposta è chiara: «l’ordinarietà della vita di tutti». Scrive Francesco, ancora una volta citando l’allora card. Ratzinger: «quasi tutti i battezzati vivono la fede, la speranza e la carità nelle loro vite ordinarie, senza essere mai comparsi in comitati ecclesiastici e senza occuparsi degli ultimi sviluppi di politica ecclesiastica».

Su questa ordinarietà occorre soffermarsi. Quando Francesco nella sua prima intervista del 2013 realizzata da La Civiltà Cattolica aveva parlato della Chiesa come «ospedale da campo dopo una battaglia» [3] aveva dato un’immagine bellica di grande impatto. Ricordo quando me la consegnò.

Ma essa non aveva il senso drammatico di una battaglia finale tra bene e male o – peggio ancora – tra i buoni e i cattivi. Non c’era di mezzo uno scontro superumano e apocalittico. La battaglia alla quale Francesco si riferiva era quella che ciascuno di noi vive ogni giorno, quella che ci infligge le escoriazioni con le quali torniamo a casa dopo una giornata difficile. Le ferite di questa battaglia si verificano quando il cuore si spezza o ci prende lo sconforto per una vita distrutta dalla routine.

Insomma: non il dramma esistenzialista di una coscienza raffinata, ma quello della vita di tutti o, se vogliamo, del vicino «della porta accanto».

Ecco, Gesù «raggiunge le persone lì dove sono e così come sono, nelle loro vite in atto». Quello è il campo della missione, e dunque dell’incontro e del godimento della presenza di Cristo. Questo significa che essere missionari è accompagnare. Il passo e la sua lunghezza sono determinati nel cuore missionario da chi riceve l’annuncio.

«Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può far contento il cuore di Dio più delle ampie falcate di chi procede nella vita senza grandi difficoltà. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa «debole con i deboli» (1 Cor 9,22). Questo è il territorio della missione.

Questo fu ciò che Francesco chiese sin dall’inizio del suo Pontificato parlando ai vescovi del Brasile nel 2013, durante il suo primo viaggio apostolico, quando diede come modello Gesù con i discepoli di Emmaus. Ricordiamo qui le parole di Francesco ai vescovi del Brasile:

«Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è gente che si allontana contengono già in sé stesse anche le ragioni per un possibile ritorno, ma è necessario saper leggere il tutto con coraggio. Gesù diede calore al cuore dei discepoli di Emmaus»
[4].

Due le caratteristiche peculiari che emergono da questo ritratto: l’accompagnamento e il discernimento (il «decifrare») che cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana, il seme già piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. E se c’è un problema, questo si risolve camminando col problema, se così possiamo dire, non facendo un piano astratto.

Nel suo Messaggio la prosa di Francesco adesso vibra e attacca: «non si tratta di inventare percorsi di addestramento “dedicati”, di creare mondi paralleli, di costruire bolle mediatiche in cui far riecheggiare i propri slogan, le proprie dichiarazioni d’intenti, ridotte a rassicuranti “nominalismi dichiarazionisti”»[5].

Perché il Papa sembra voler andare all’attacco? Perché richiede dalla Chiesa disponibilità al mondo, assunzione delle ferite, prossimità. E vuole che si crepi quell’immagine di Chiesa che si riconosce come mondo compatto che si costituisce come società perfetta in sé, che diventa «società per azioni», e che investe senza avere in realtà mai nulla da perdere.

Il bisturi contro le patologie

Francesco a questo punto usa il bisturi per attaccare sei patologie «incombenti» sia sul cammino delle Pontificie Opere Missionarie sia, più in generale, su «tante altre istituzioni ecclesiali». Che egli faccia una diagnosi delle malattie ecclesiali non sorprende. Non è la prima volta che lo fa, e il suo è un intento chiaramente terapeutico. Non ci si compiace nell’indicare un tumore: lo si isola definendone i contorni per estirparlo. D’altra parte, occorre evitare il rischio di credere che questo resti tutto un discorso astratto e rivolto «ad altri». No, il discorso di Francesco non vuole rassicurare: vuole allarmare per guarire.

Quali sono queste patologie? Il Papa innanzitutto premette che diversi principi attivi per contrastarle sono di fatto già nella «identità» delle POM, in «certi tratti distintivi – alcuni, per così dire, genetici, altri acquisiti lungo il percorso storico – che vengono spesso trascurati o considerati come scontati». Poi enumera le patologie in maniera refertuale: autoreferenzialità, ansia di comando, elitarismo, isolamento dal popolo, astrazione, funzionalismo. Esse, in realtà, sono tutti sintomi di una patologia unica che, a volte sotto apparenza di bene, mina l’annuncio del Vangelo rendendo immuni a esso, «sterilizzando» l’anima.

Si tratta della patologia del ripiegamento, dell’auto-promozione, del considerarsi «“depositari” dispensatori di patenti di legittimità nei confronti degli altri», per la quale di fatto «ci si comporta come se la Chiesa fosse un prodotto delle nostre analisi, dei nostri programmi, accordi e decisioni».

Tra chi fa parte di realtà organizzate nella Chiesa si fa strada «l’idea non detta di appartenere a un’aristocrazia», che si esprime «in complicità o in competizione con altre élite ecclesiastiche, e addestra i suoi membri secondo i sistemi e le logiche mondani della militanza o della competenza tecnico-professionale, sempre con l’intento primario di promuovere le proprie prerogative oligarchiche».

Questa dura analisi prosegue con gli effetti delle malattie esaminate: l’astrazione, l’insofferenza verso «il popolo di Dio che magari frequenta le parrocchie e i santuari, ma non è composto di “attivisti” occupati in organizzazioni cattoliche».

Ma anche il vezzo dei «luoghi di elaborazione strategica» che «servono solo come strumenti di autopromozione di chi li inventa», «laboratori intellettuali, dove tutto viene addomesticato, verniciato secondo le chiavi ideologiche di preferenza» e «dove tutto, fuori dal contesto reale, può essere cristallizzato in simulacro, anche i riferimenti alla fede o i richiami verbali a Gesù e allo Spirito Santo», inseriti come «una specie di “omaggio formale” alla Santissima Trinità, una formula convenzionale introduttiva per interventi teologici e piani pastorali».

E poi l’illusione funzionalista «di “sistemare i problemi” con equilibrio, tenere le cose sotto controllo, accrescere la propria rilevanza, migliorare l’ordinaria amministrazione dell’esistente». Una Chiesa che si fonda su efficientismo e funzionalismo «è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli», scrive Francesco, tutto di seguito, lasciando il lettore senza respiro.

Un cammino non funzionalista

Nell’ultimo capitolo del suo Messaggio Francesco offre suggerimenti per il cammino e per aiutare nel discernimento delle Pontificie Opere Missionarie. Esse rappresentano le grandi linee per la missione della Chiesa.

Il criterio principale è l’inserimento, l’immersione, anzi «l’immanenza alla trama di vita reale così com’è». Torna il tema dell’ordinarietà della vita e del «corpo a corpo» che in essa si realizza. Se si è a contatto con la vita, allora ci si predispone a «dare risposte a domande ed esigenze reali, più che formulare e moltiplicare proposte». Infatti «non serve complicare ciò che è semplice»[6] .

Questo inserimento predispone a custodire «i germogli di vita teologale che lo Spirito di Cristo fa sbocciare e crescere dove vuole Lui, anche nei deserti». Non c’è luogo dove lo Spirito non possa soffiare. Per questo il Papa suggerisce la sola cosa che «può essere utile: chiedere che per noi, per l’intimo del nostro cuore, l’invocazione allo Spirito Santo non sia ridotta a un postulato sterile e ridondante delle nostre riunioni e delle nostre omelie».

Guardare Dio significa necessariamente non guardare se stessi allo specchio: «Rompete tutti gli specchi di casa», insiste Francesco, con un’immagine tra le sue più forti. In questo senso, il Pontefice propone anche un principio pratico di governance, a proposito dell’individuazione dei successori ai vertici delle varie opere, invitando i direttori ad applicare come «unico criterio quello di segnalare non persone del suo giro di amici o compagni di “cordata” ecclesiastica, ma persone che gli sembrano avere più fervore missionario di lui».

Il Papa raccomanda la predilezione per i poveri e i piccoli: «le opere di carità spirituale e corporale verso di loro manifestano una “preferenza divina” che interpella la vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere gli stessi sentimenti di Gesù (cfr Fil 2,5)».

Circa il reperimento dei fondi delle Opere – il criterio deve sgorgare «dal cuore con cui si fanno le cose, più che dalle cose che si fanno» – Francesco avverte di non cadere nella tentazione di cercare solamente la scorciatoia dei «grandi donatori», anche per «coprire» l’affievolirsi della spontaneità delle donazioni.

Perché la Chiesa deve «prioritariamente» rivolgersi alla moltitudine dei battezzati e continuare «ad andare avanti anche grazie all’obolo della vedova, al contributo di tutta quella schiera innumerevole di persone che si sentono guarite e consolate da Gesù e che per questo, per il traboccare della gratitudine, donano quello che hanno».

Ed è chiaro che i fondi non devono essere usati per «forme di assistenzialismo», che finiscono per alimentare anche nella Chiesa fenomeni di «clientelismo parassitario» o iniziative partorite dal «narcisismo clericale di qualcuno». Tutto questo senza cedere «a complessi di inferiorità o tentazioni di emulazione» di «organizzazioni super-funzionali che raccolgono fondi per cause giuste».

Infine Francesco ribadisce che «la rivelazione del Vangelo non si identifica con nessuna cultura e, nell’incontro con nuove culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non bisogna imporre una determinata forma culturale insieme con la proposta evangelica». Le «omologazioni culturali di impronta neo-colonialista» non fanno parte della missione della Chiesa [7] .

«Alleggerite!»

Slancio, alleggerimento, flessibilità operativa, prontezza, ma soprattutto «l’unica cosa necessaria», cioè «un po’ d’amore vero alla Chiesa, come riflesso dell’amore a Cristo»: questo è ciò che il Papa chiede alle Pontificie Opere Missionarie, invitandole a fare nel loro lavoro, «come se tutto dipendesse da voi, sapendo che in realtà tutto dipende da Dio» (S. Ignazio di Loyola). E questo è certamente un messaggio per la Chiesa intera, il criterio per la missione che richiede il Vangelo.

***

[1] Le Pontificie Opere Missionarie sono quattro:
Pontificia Opera per la Propagazione della Fede,
Pontificia Opera di San Pietro Apostolo,
Pontificia Opera dell’Infanzia Missionaria,
Pontificia Unione Missionaria.
Il Pontefice avevo deciso di partecipare alla loro Assemblea generale annuale, giovedì 21 maggio, festa dell’Ascensione del Signore. Poi l’Assemblea è stata annullata a causa della pandemia. Così ha deciso di inviare un messaggio.

[2]  A. Ivereigh, «Il Papa confinato. Intervista a papa Francesco», 8 aprile 2020.

[3] A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449 – 477.


[4]
 Francesco, Discorso nell’Incontro con l’episcopato brasiliano, Arcivescovado di Rio de Janeiro, 27 luglio 2013.


[5] I corsivi sono nostri.


[6] In particolare, il Papa, a mo’ di criterio di discernimento, fa riferimento al fatto che «gli iniziatori delle Opere Missionarie, a partire da Pauline Jaricot, non inventarono le preghiere e le opere a cui affidare i loro desideri riguardo all’annuncio del Vangelo, ma li trassero semplicemente dal tesoro inesauribile dei gesti più familiari e abituali per il Popolo di Dio in cammino nella storia».


[7] Cfr Francesco, «Lettera in occasione del centenario della promulgazione della Lettera apostolica “Maximum illud” sull’attività svolta dai missionari nel mondo» (22 ottobre 2017). Cfr anche B. Lobo, «A cento anni dalla «Maximum Illud». Il percorso missiologico del Magistero cattolico», in Civ. Catt. 2019 IV 541-555.




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