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Il  cristianesimo del futuro

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QUALE FORMA ASSUMERÀ IL CRISTIANESIMO DEL FUTURO? source :José Frazão Correia S.I. © La Civiltà Cattolica 2023 I 593-599 | 4146 (18 mar/1 apr 2023)

Ne Il segno delle chiese vuote (1), una riflessione scritta mentre si approssimava la fine del grande confinamento a cui la pandemia di Covid-19 ha costretto il mondo intero, il pensatore cattolico ceco Tomáš Halík ha individuato nelle chiese chiuse e deserte un segnale di allarme profetico riguardo a ciò che la Chiesa potrebbe diventare: per l’appunto, chiusa e vuota. (1). T. Halík, Il segno delle chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Milano, Vita e Pensiero, edizione Kindle, 2020. NOTE E COMMENTI 594) Si tratta di un segnale d’allarme, perché preconizza quale sarà la condizione permanente della Chiesa in un futuro prossimo – in alcuni luoghi d’Europa è già una realtà –, se non verranno prese sul serio le sfide della nuova era emergente, quel cambiamento dei tempi che è in corso e a cui papa Francesco ha fatto riferimento come a qualcosa di più che un tempo ordinario di cambiamento.

Anche se ritmi e modalità potrebbero variare tra un luogo e l’altro del mondo, sembrerebbe che sia questa tendenza di fondo, verso una condizione chiusa e vuota, ad attendere la Chiesa, se essa non saprà confrontarsi con tali sfide da un punto di vista sia intellettuale sia operativo; se, in altri termini, non riuscirà a imprimere una profonda trasformazione non solo alle strutture ecclesiali, ma anche alla dimensione esistenziale e spirituale della fede.

Ed è un segnale di allarme profetico, perché il dramma costituito dalla perdita di persone, di rilevanza e di credibilità, così come la crisi generata dal vuoto degli spazi e dei riti, delle pratiche e dei concetti, oggi si presenta come un tempo opportuno per instaurare importanti processi di vera conversione spirituale e di profonda riforma ecclesiale.

La crisi attuale come un’opportunità di trasformazione per la Chiesa Nell’opera Pomeriggio del cristianesimo (2 ) , Halík riprende quel segnale di allarme e ne esplora la portata profetica. In quanto soglia di una nuova era per il cristianesimo, la crisi attuale si presenta come un’opportunità di trasformazione per la Chiesa.
  ( mis 2) . Id., Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare, Milano, Vita e Pensiero, edizione Kindle, 2022) Questo è l’interrogativo che egli pone: quale sarà il futuro del cristianesimo e quale forma assumerà la Chiesa del futuro?

Per chiarezza terminologica, possiamo intendere per «forma» «un insieme, il più possibile unificato, di convinzioni, di azioni, di sensibilità, di leggi, attraverso le quali sia possibile vivere autenticamente il Vangelo», secondo la definizione del benedettino francese Ghislain Lafont.

Seguendo l’analisi di questo teologo, dal Concilio Vaticano II in poi «non abbiamo ancora trovato la “forma” che ci possa permettere di avanzare più liberamente e speditamente». La forma all’interno della quale oggi comprendiamo noi stessi e interagiamo con la realtà – la si chiami forma «gregoriana», «tridentina» o «romana» – è «certamente venerabile e […] ha portato i suoi frutti», ma non è più «adatta alla congiuntura presente».

Quindi, più che di aggiornarla, forse ora è il momento di «“dare alla luce del giorno” una nuova forma» (3) . Halík avverte senza mezzi termini che «un rinnovamento reale della Chiesa non può venire dalle scrivanie dei vescovi né da riunioni e conferenze di esperti, ma presuppone forti impulsi spirituali, approfondite riflessioni teologiche e il coraggio di sperimentare» (pp. 83 s).
( 3 ) . G. Lafont, «Prefazione», in S. Morra, Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale, Bologna, EDB, 2015.) La teologa Stella Morra pensa la «forma ecclesiale» nella prospettiva della misericordia. LE CHIESE CHIUSE E DESERTE DURANTE LA PANDEMIA: UN SEGNALE DI ALLARME PROFETICO RIGUARDO A CIÒ CHE LA CHIESA POTREBBE DIVENTARE? NOTE E COMMENTI  595 QUALE FORMA ASSUMERÀ IL CRISTIANESIMO DEL FUTURO? Tuttavia, il fatto che la Chiesa cattolica oggi sia impegnata, a livello mondiale, nel Sinodo su «Comunione, partecipazione...sione» – che il Papa ha deciso di prorogare di un altro anno, fino al 2024 –, manifesta in qualche modo questa stessa ansia per una futura forma di Chiesa, il desiderio di essere all’altezza della forza spirituale del Vangelo e dell’esigenza connessa con la missione di annunciarlo nel tempo presente.

Ebbene, il libro di Halík offre, a nostro avviso, un contributo importante a questa causa. Perché il «pomeriggio del cristianesimo» è un tempo propizio per «il coraggio di cambiare»? L’espressione è ripresa da Carl Gustav Jung (1875-1961), psicoterapeuta svizzero, che paragona le dinamiche della vita umana individuale al corso di una giornata: il «mattino» corrisponde alla giovinezza e all’inizio dell’età adulta; il «mezzogiorno» richiama quel periodo di crisi in cui ciò che prima era sicuro viene messo in discussione, e ciò che prima dava soddisfazione poi non basta più; il «pomeriggio» indica la maturità e la vecchiaia.

Applicando queste tre tappe alla storia del cristianesimo, Halík fa corrispondere il «mattino» al periodo che va dai primordi alle soglie della modernità, «un lungo periodo in cui la Chiesa ha edificato in primo luogo le sue strutture istituzionali e dottrinarie» (p. 48). Poi è sopraggiunta la crisi del «mezzogiorno», «che ha scosso quelle strutture» (ivi).

È stato un lungo periodo, che è durato «dal tardo Medioevo fino a tutta l’età moderna, dal Rinascimento e dalla Riforma, dalla divisione interna al cristianesimo occidentale e dalle guerre conseguenti, che hanno messo in dubbio la credibilità delle singole confessioni, fino all’Illuminismo, l’epoca della critica delle religioni e della diffusione dell’ateismo, e sino alla fase seguente, che ha portato a un lento superamento dell’ateismo in favore dell’apateismo, dell’indifferenza religiosa» (ivi).

Il «pomeriggio» è la fase in cui stiamo entrando, nella quale l’impatto della crisi del «mezzogiorno» è stato superato e «il cristianesimo cerca nella società plurale postmoderna e postsecolare una nuova casa, nuove forme di espressione» (p. 124).

È pur vero, come si riconosce nelle ultime righe del libro, che il «pomeriggio» può suggerire «la prossimità della sera, della fine e della morte» (p. 260), una tappa che annuncia la fine. Tuttavia, spiega Halík, «nell’interpretazione biblica del tempo il nuovo giorno comincia con la sera» (ivi). È così che, al termine di questo lungo periodo di crisi, come «il momento in cui nel cielo della sera apparirà la prima stella» (ivi), già si intravedono tratti capaci di dare al cristianesimo una forma nuova e promettente.

Questi tratti si scorgono, per esempio, quando la fede, più matura e più umile, si mostra capace di prendere sul serio, di accogliere e di integrare l’esperienza del buio e del vuoto dovuti alla perdita di centralità, di controllo e di sicurezza, causata dalle crisi del «mezzogiorno», riconoscendo che proprio questa stessa esperienza di morte è caratteristica del Vangelo e testimonia la verità di un’avventura spirituale. I tratti si scorgono anche quando si riconosce che la secolarizzazione non è la fine della religione o della fede cristiana, ma piuttosto la trasformazione del significato divenuto più comune – eminentemente sociale, politico e culturale – nel sistema delle narrazioni, riti e simboli che esprimono e consolidano l’identità di una società, e che ciò che si perde, in fondo, schiude la possibilità di una rinnovata autenticità evangelica e di altri modi di intendere il ruolo della religione e la portata della fede cristiana.

I tratti si scorgono ancora quando il cristianesimo rifiuta di lasciarsi confondere con qualsiasi ideologia identitaria o con un vago esoterismo; quando intraprende l’esercizio di una continua lettura dei segni dei tempi, scrutando la portata spirituale della fisionomia umana, le sue espressioni culturali e artistiche e i grandi interrogativi e ricerche degli uomini e delle donne di oggi.

E i tratti si scorgono anche quando il cristianesimo diventa consapevole del fatto che il quadro delle democrazie liberali non è meno favorevole alla sua identità e missione di altri sistemi politici entro i quali si suppone si sia trovato meglio in passato; quando impara a confrontarsi in modo sano con l’alterità, la differenza e la pluralità di coloro a cui si rivolge, superando il malsano sospetto verso tutto ciò che è nuovo, senza che ciò equivalga a cedere all’attrazione superficiale e acritica delle mode del momento.

La forma nuova del cristianesimo come opzione di fede Halík avverte che «la forma pomeridiana del cristianesimo – come tutte le sue forme precedenti – non è stata generata da una logica impersonale e irreversibile dello sviluppo storico» (p. 49).

Non siamo, quindi, di fronte a una necessità che, ci piaccia o meno, dovrà comunque realizzarsi. Al contrario, questa forma ci si presenta come un kairos, «un’opportunità che si apre e si offre in un certo momento, ma che si realizza soltanto quando le persone la comprendono e la accettano liberamente» (ivi).

Essa implica un’assunzione di consapevolezza e di libera determinazione. In linguaggio ignaziano, si tratta di un’elezione, di una scelta che rende necessarie azioni conseguenti. In questo «pomeriggio» in cui ci troviamo c’è dunque il rischio di «invecchiare male», cioè di non riconoscere e non cogliere il carattere favorevole del nostro tempo e dei suoi movimenti più vitali. Sarà così se, in modo imprudente e superficiale, verrà negata o soffocata la vita così come si presenta esistenzialmente e culturalmente, e se si pretenderà di risolvere la crisi attraverso semplici cambiamenti esteriori di «alcune strutture istituzionali» o di «qualche paragrafo del catechismo, del codice di diritto canonico e dei testi di morale» (p. 9), senza coinvolgere il retroterra spirituale, teologico e religioso dell’atto di fede e delle prassi cristiane. In tal caso, i risultati sarebbero superficiali e confusi. Ancor più gravoso sarebbe trincerarsi dietro atteggiamenti difensivi, ostili, nella convinzione che essere fedeli equivalga a riprodurre il passato «esemplare» che ha preceduto la crisi del «mezzogiorno».

Di tale atteggiamento è un esempio paradigmatico la lotta antimodernista, scatenatasi dalla metà dell’Ottocento fino alla metà del Novecento. Se la Chiesa allora si arroccava e perdeva incisività e capacità di dialogo con la cultura filosofica, scientifica e artistica del tempo, oggi correrebbe il rischio di «generare una forma avvelenata e ripugnante di cristianesimo» (p. 49).

Se ciò che la Chiesa vive e ha da offrire non viene riconosciuto come un bene esistenziale sensato e significativo per la vita delle persone e delle comunità reali, e se non è capace di inserirsi creativamente nel tessuto culturale in cui oggi le persone si ritrovano, si comprendono e si esprimono, finirà per essere identificato, e nella maggior parte dei casi respinto, come una pratica devozionale irrilevante, un rito religioso o un ideale morale di parte, un’ideologia identitaria, finalizzata all’affermazione o alla strumentalizzazione politica.

In questo senso, il clericalismo, il fondamentalismo, l’integrismo e il trionfalismo, che tendono a esibire un’autoreferenzialità esteriore e superficiale, saranno forme incapaci di sostenere un’autentica opzione di fede. Il tempo di cambiamenti storici che stiamo vivendo offre delle opportunità al cristianesimo.

La Chiesa accetti con serenità, senza negarne il costo, che sta per concludersi una lunga epoca della sua storia e che, per essere all’altezza della sua identità più intima e della sua missione di annunciare il Vangelo di Gesù, dovrà passare inevitabilmente attraverso un parto faticoso.

Per dirla con il benedettino tedesco Elmar Salmann, nel momento della nascita, come in tanti altri inizi significativi, c’è sempre molto che muore, come pure nei processi di morte c’è molto che nasce. Dopotutto, è questa la storia del cristianesimo, fin dai suoi inizi.

Ricevere un’eredità comporta sempre l’onere di darle un aspetto specifico, secondo la particolarità dei tempi e dei luoghi. Gratitudine e fedeltà richiedono appropriazione, differenziazione, traduzione e rischio (4) . Se è così, è necessario continuare a compiere, sulla scia del Vaticano II, il cammino sereno, paziente e coraggioso di individuare ciò che deve essere conservato e ciò che va abbandonato, ciò a cui la Chiesa deve dedicarsi in quanto essenziale e ciò che, in quanto superfluo, può e deve sacrificare.
( 4) Cfr E. Salmann, «Fim de uma época da Igreja», 6 ottobre 2022 (www. ihu.unisinos.br/categorias/622783-fim-de-uma-epoca-da-igreja-artigo-de-elmar-salmann) L’esercizio richiede tempo e cura, nella misura in cui, come avverte il teologo Pierangelo Sequeri, sbagliare in materia di consacrazione e di sacrificio ha conseguenze tragiche, perché il cuore si perde o si salva in ciò che riconosce come il suo tesoro (5) . Al dolore della morte corrisponderà la nascita di un’altra forma e stile di Chiesa.
(5). Cfr P. Sequeri – E. Salmann – C. Theobald, «La teologia non ha futuro senza immaginazione», in Vita e Pensiero 108 (2021/4) 76 s. Non si tratta di un’altra Chiesa, ma di un’altra forma di Chiesa. La Chiesa non è stata sempre «gregoriana», «tridentina» o «romana». Si tratta di un’altra forma che, per molti aspetti, in questo momento possiamo solo presagire e intravedere.

Sappiamo che certe forme del passato – Chiesa di Stato e di potere, Chiesa giuridica, Chiesa sacrale, Chiesa borghese – stanno morendo, e ancora non vediamo chiaramente quale altra forma la Chiesa dovrebbe e potrebbe assumere nel presente affinché abbia un futuro.

Quattro caratteristiche della nuova forma di Chiesa In ogni caso, Halík si spinge a proporre quattro tratti di una nuova forma di Chiesa e di cristianesimo dotati di futuro.

In primo luogo, la Chiesa si deve intendere come popolo di Dio nella storia, quindi in movimento, in processo. Come papa Francesco afferma in Fratelli tutti, n. 160, «un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso.. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione a essere messo in movimento e in discussione, a essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi» (p. 230).

In secondo luogo, la Chiesa deve essere una scuola di vita e di sapienza, alla luce dell’idea originaria delle università medievali, «sorte come comunità di docenti e alunni», comunità «di vita, preghiera e insegnamento» (p. 232), in grado di sostenere una fede meditata e matura a livello intellettuale e morale, ma anche a livello terapeutico, in quanto baluardo contro l’intolleranza, il fondamentalismo e il fanatismo.

In terzo luogo, la Chiesa si deve realizzare come un ospedale da campo, realizzando la propensione e la disponibilità a farsi trovare «con coraggio e disinteresse […] nei luoghi in cui le persone sono ferite fisicamente, socialmente, psicologicamente e spiritualmente, e provando a medicare e guarire quelle ferite» (p. 233). Questa presenza implica la capacità di fare buone diagnosi, l’eccellenza nell’«arte di leggere e interpretare i segni dei tempi», nell’«ermeneutica teologica dei fatti della società e della cultura», con particolare attenzione «alle epoche di crisi e di cambiamento dei paradigmi culturali» (ivi).

In quarto luogo, la Chiesa deve essere luogo di incontro e di dialogo. Per questo, «deve tornare a essere la società della Via, sviluppare il carattere peregrinante della fede» e costruire centri spirituali vivi, «da cui trarre il coraggio e l’ispirazione per nuovi viaggi» (p. 239).

Quando la Chiesa si rende conto che il cristianesimo sta vivendo la fine di un’epoca e che i rischi di naufragio sono reali, se non altro per irrilevanza esistenziale e culturale, per «ghettizzazione» o per nuove e dolorose fratture interne, impegnarsi a interpretare la metamorfosi epocale e porre, come fa Halík, la questione della forma che essa potrebbe assumere in futuro è un atto di responsabilità ecclesiale.

Si tratta di una forma capace di realizzare una fede esistenzialmente adulta e spiritualmente significativa, in contatto vivo e qualificato con le fibre più elementari della vita, con la Scrittura, la Tradizione e i segni spirituali dei tempi. Una forma segnata dall’umiltà e modellata dallo sguardo che proviene da ciò che è marginale, da ciò che è più periferico, da ciò che è precario.

Una forma determinata nell’impegno verso ciò che salvaguarda ed eleva la vita, soprattutto verso i più deboli, e anche verso il creato. Una forma che nelle pratiche rituali, nel pensiero teologico e nelle strutture istituzionali tenga conto delle categorie dinamiche e dei processi. Tutti questi elementi potranno caratterizzare la nuova forma ecclesiale.

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