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“L'amore politico strumento di pace e democrazia”

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“L'amore politico strumento di pace e democrazia”Card. Zuppi Intervento alla conferenza “L'amore politico strumento di pace e democrazia” Roma, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

Alla 50ª Settimana Sociale dei Cattolici del 7 luglio Papa Francesco ha richiamato tutti ai valori della democrazia oggi infragilita e con molti nemici, definendola un cuore ferito.

“Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi – ha detto il Papa – se la costruzione e l’intelligenza mostrano un cuore ‘infartuato’, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale”.
Secondo Francesco, la cultura dello scarto aumenta i rischi per tutti e diventa un problema per l’intera società: esclusi, poveri, emarginati non soltanto pesano sulla struttura sociale del Paese, ma indeboliscono le sue istituzioni creando divisioni fra cittadini. Questo può provocare una rottura della coesione sociale che è un bene molto prezioso per qualunque Stato.

Perciò l’amore politico significa in primo luogo guardare all’interesse generale. Solo in un secondo momento si può ragionare in termini di competizione tra progetti di società diversi.
La competizione politica e l’alternanza al governo fanno bene alla democrazia, ma prima di tutto va messo l’interesse generale che si può definire anche come interesse nazionale. Una casa divisa in sé stessa declina, non riesce ad affrontare i marosi della storia che sono caotici e molto aggressivi, come sappiamo.

Il Papa è andato oltre nel suo discorso a Trieste: ha parlato della qualità di una democrazia, ciò che la rende forte.

La parola stessa ‘democrazia’ – ha ribadito – non coincide semplicemente con il voto del popolo”, cioè con la sovranità popolare. Le cosiddette democrazie popolari o socialiste, di ben nota memoria, si appoggiavano sui risultati elettorali per affermare che la volontà popolare era al di sopra di tutto. Noi sappiamo invece che una vera democrazia si costruisce con un equilibrio tra poteri, esecutivo-legislativo-giudiziario. La competizione tra questi poteri crea quei controlli e bilanciamenti (check and balances, in linguaggio politico anglosassone) che rendono l’equilibrio non solo virtuoso, ma anche efficace.
La stessa democrazia, come disse il Presidente Mattarella, non è la dittatura della maggioranza! Occorre sempre cercare il paziente ma fondamentale dialogo per stabilire e osservare le regole del gioco condivise, come deve essere, non contingenti, libere dal penoso opportunismo di una campagna elettorale permanente, che poco ha a che fare con la politica.
In realtà la democrazia è sempre un negoziato perenne, come diceva Ernest Renani della Nazione: un referendum ogni giorno.

“La democrazia – dice il Papa – richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal ‘fare il tifo’ al dialogare”. Chi non è pronto alla trattativa continua non sa cosa è la vera democrazia che significa mettere insieme pezzi diversi. Fare unità e fare giustizia è il compito della democrazia.
Ciò significa che l’amore politico mira alla pace: perché democrazia e pace vanno a braccetto. La guerra distrugge l’unità e divide il popolo, il conflitto sempre deturpa l’anima di un popolo e tira fuori il peggio da ciascuno. La guerra rende impossibile il dialogo. La democrazia invece ne ha un bisogno continuo: è la sua aria senza la quale non respira e muore.

Per questo pace e democrazia vanno assieme. Con disperazione e dolore vediamo le due grandi guerre vicine di Ucraina e Gaza (e le tante solo un poco più lontane, come quelle africane) produrre più odio di quanto si possa immaginare, come degli ingranaggi perversi che non si fermano. C’è troppo odio diffuso, onestamente banale, che rimane, si solidifica e sfigura l’architettura spirituale e umana di intere generazioni.

Tali conflitti, anche se non li “sentiamo” prossimi, come un veleno silenzioso stanno intossicando la nostra cultura democratica e l’aria che respiriamo, in altre parole il nostro vivere civile. Nessuno sfugge al lento avvelenamento della cultura – sia quella alta che quella popolare – e del convivere sociale: cambiano i progetti di vita, i gusti, le priorità, e le prospettive. Muta anche il modo di ragionare: si è più rassegnati e schiacciati sul presente, meno preparati a riflettere sul futuro che in genere viene percepito come minaccia e irto di pericoli.
All’inizio del 1933, quando Hitler era appena andato al potere, lo scrittore Heinrich Mann pubblicò un libro preveggente intitolato “L’odio”, in cui raccontava come l’odio e il bellicismo si stessero impadronendo della Germania. È una lezione utile ancora oggi.

Scriveva Mann: “nella mente delle persone civilizzate la guerra (…) è un’ossessione di cui non possono liberarsi nemmeno per sfinimento… quanto minore rispetto nutrono verso di sé, tanto più intenso è l’odio per gli altri: ‘se non possiamo combattere, vogliamo almeno odiare!’ (…) l’odio nazionale è il più vuoto, il più incomprensibile di tutti i sentimenti…”.

Sappiamo com’è andata a finire. Tale clima di odio e guerra fa ammalare tutta la società e fa male soprattutto ai giovani che si trovano in un contesto in cui il futuro scompare, cancellato dalle minacce mentre dovrebbe essere il loro orizzonte naturale. Oggi sembra che siamo rientrati in un simile clima: 59 guerre nel mondo secondo gli esperti, di cui due molto grandi e preoccupanti (Ucraina e Terra Santa).

In pochi anni è avvenuto un cambiamento profondo: la pace è diventata un auspicio mentre la guerra una realtà. La guerra è stata rivalutata de facto come risolutrice di contese. Chi è diplomatico lo sa bene: viene messa troppo da parte l’arte della diplomazia considerata spesso inutile o ingenua, come se il dialogo fosse una specie di accanimento o, peggio, negare la realtà.

Il discorso prevalente è quello di attrezzarsi alla guerra ad alta intensità, sull’esempio dell’Ucraina. “Prepariamoci ad essere carnivori: non possiamo restare erbivori in un mondo di carnivori”, ha detto recentemente un importante leader europeo. E così la conseguenza è fabbricare e acquistare più armi, con l’angoscia di non averne abbastanza. Forse questo accade perché abbiamo perso la memoria di cosa è la guerra, del terribile ingranaggio che rappresenta, della scelta di cercare una soluzione dei conflitti che non fosse proprio il ricorso alle armi.

Si considera la pace un’idea da “anime belle”, a volte apprezzate, altre volte accusate per la loro ingenuità o giudicate come pericolose per la confezione che generano per chi pensa la guerra l’unica possibilità. In realtà solo a conoscere la storia per noi europei sembra di essere tornati a prima della grande Guerra, al tempo dei “sonnambuli” che caddero nella trappola bellica quasi senza accorgersene.

La storia non si studia più: si vive solo il presente che è menzognero e pieno di fake news. Non a caso Papa Francesco ha appena scritto una lettera sulla storia e sullo studio della storia: ci vuole proteggere dagli effetti di uno sguardo superficiale degli avvenimenti. Oggi la prospettiva della pace è oscurata da tante guerre. Il brutale attacco terroristico di Hamas a Israele e il rapimento di oltre 200 ostaggi ha innescato una rappresaglia senza fine, che smarrisce il senso del limite. In Ucraina siamo già al milione di morti con conseguenze atroci e inquietanti.

Il mondo è in guerra su vari fronti. Merita di essere ricordato il Sudan con una guerra che sta spezzando il Paese e creando un grave danno alla gente costretta alla fame (2,5 milioni a rischio vita); i conflitti nel Sahel, in Ciad, Mozambico, in Kivu (RDC), in Sud Sudan e tanti altri.

Davanti a tutta questa violenza si rimane rassegnati e impotenti, ma il messaggio che la Chiesa vuole portare a tutti è che sempre si può fare qualcosa. L’impotenza non è oggettiva, ma una scelta. La guerra inizia anche a casa propria: troppa violenza nelle nostre città, tra giovani e dei giovani. Una solitudine che si espande e crea isolamento e violenza anche nel mondo ricco. Esagerazione dell’autodifesa, parole dure di odio, hate speech, paura, razzismi, abbandono degli anziani, rifiuto degli immigrati trattati come scarti
La guerra inizia nel cuore dell’uomo e si fa cultura, diventa un disegno poi e poi esplode con le armi. Come sfuggire al ricatto dell’ingranaggio della guerra?
Come mai l’ONU non funziona come sarebbe necessario e il multilateralismo è in crisi? Sono domande diffuse nel vostro mondo e in molti si interrogano su cosa fare. Se la diplomazia sembra indebolita o umiliata, anche la politica appare debole e frastornata: tante riunioni internazionali, ma nessun freno apparente a queste derive. Non si riesce più a intervenire e sembra che non ci sia più nessun principio di autorità che possa imporre se non l’ordine almeno la calma e l’abbassamento delle tensioni.

Le guerre sembrano perpetuarsi e diventare infinite: conflitti intrattabili. Come si dice in gergo diplomatico.

Voglio dire che nella sapienza della Chiesa – in particolare dei Papi del secolo scorso – i cattolici hanno compreso che la guerra non è uno strumento come un altro: si tratta di un ingranaggio del male che sfugge al controllo umano, come una palla di neve che scende a valle e aumenta fino a travolgere tutti. Ma soprattutto, malgrado tutta la sua violenza, la guerra appare per ciò che è: inutile.
Ciò che accade a Gaza non darà uno Stato ai palestinesi né aumenterà la sicurezza di Israele. Allo stesso modo la guerra in Ucraina non servirà alla Russia per recuperare ciò che aveva ai tempi dell’Urss, né a Kiev per ottenere la vittoria. La vittoria è una chimera per tutti: non ci sarà vittoria per nessuno ma solo un cumulo di macerie. Sarà stato tutto inutile. Più conflitti producono nuovi conflitti o terrorismo; più guerra produce più vendette. È l’eternizzazione dei conflitti nell’attuale situazione geopolitica: una guerra che non finisce più ma che non ottiene nessuno degli obiettivi che si è data, da qualunque parte la si guardi.

Per uscire dal tunnel (o da più tunnel) occorre tornare a parlare di pace e delle ragioni della pace. Perché riparlare di pace? A che serve? Non è inutile perché ce n’è bisogno per disintossicare l’aria che respiriamo da troppi discorsi di guerra.
Certo la pace non è mai perfetta. Ma bisogna rimetterla al centro dell’agenda internazionale. Bisogna moltiplicare l’iniziativa diplomatica, creare contatti, far uscire tutti dall’isolamento (che porta a visioni distorte), esplorare le prospettive dei diversi attori, trovare convergenze e compromessi. Si deve fare questo, perché non si può vivere sempre in guerra e di guerra: questo è il messaggio di Papa Francesco.

Parlare di pace significa guardare in faccia la guerra e le sue conseguenze per quello che veramente è: partire non da ragionamenti astratti, geopolitici, ideologici, giuridici o politicisti ma partire dalle vite spezzate. Da che parte stare dunque? La Chiesa non è neutrale, ma sempre dalla parte delle vittime. Il nostro punto di vista vuole essere quello delle vittime, soprattutto i bambini, gli anziani, le donne, i più poveri, chi non può fuggire.
Dobbiamo ricordare che la guerra nasconde brutture di ogni tipo e trasforma chi combatte in peggio. La guerra deturpa l’anima dei popoli che la fanno o la subiscono. La guerra tira fuori il peggio da ciascuno. L’esperienza insegna che i Paesi che vi sono trascinati ne fuoriescono deteriorati, inaspriti, regrediti, peggiori di come vi sono entrati.

La pace non è facile, ma bisogna assumerla come prospettiva: un ribaltamento della cultura di guerra. Questo è il desiderio, sovente inespresso, di tanti popoli. Eredità della storia per gli europei, che dovrebbero ricordare gli orrori della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Sulla base di questa memoria è stata realizzata la ricostruzione democratica in Italia: è lo spirito iscritto nella costituzione italiana che non vogliamo mai abbandonare. Ma vale per tutti.
C’è in realtà una domanda di pace nel mondo, molto diffusa ma non ascoltata e spesso silenziosa. Per i cristiani la guerra è un terreno impossibile: la guerra è sempre fratricida, nemica della vita (umana, di ogni essere vivente e della natura: in una parola del pianeta intero), un male da abbreviare al più presto e ad ogni costo. Per il Papa ogni guerra è sacrilega, contraria alla sacralità della vita umana, una “sconfitta vergognosa”.
Più il conflitto dura e più si favorisce il ciclo infinito delle vendette. Dobbiamo creare spazi di dialogo nei nostri quartieri in cui imparare l’arte del dialogo, soprattutto la stima per il dialogo. Di questo occorre parlare senza stancarsi, consapevoli che si tratta di una scelta di realismo. Gli idealisti illusi sono coloro che pensano che la guerra risolve. La guerra non risolve ed è inutile.

Con lo sguardo fisso sulle vittime vorrei essere realista, cioè dirvi che soltanto la convivenza pacifica, fatta di un continuo negoziato tra popoli, religioni e identità diverse, può dare come frutto quell’unità del genere umano a cui tutti tendiamo.
So bene che mi comprendete e che nel profondo della vita personale di ciascuno di voi qui, c’è tale anelito che è anche all’origine della vostra scelta di diventare diplomatici.

Unità del genere umano vista come convivenza e non come omologazione, unità come vivere insieme pur restando ciò che siamo, diversi e plurali.
Davanti alle tempeste del tempo presente ci poniamo anche la domanda sulla democrazia e sul valore dei diritti umani, cioè della legge internazionale. Ciò che spaventa della democrazia liberale è la sua presunta incapacità a gestire le sfide dei tempi, impedendo le guerre, disordini, caos economico.

La globalizzazione ha separato molto di più di quanto abbia unito e oggi va in crisi assieme a molti valori e al multilateralismo. Le regole internazionali non sono più seguite e tutti vorrebbero cambiarle: alcuni vorrebbero tornare alle antiche sfere di influenza; altri alla politica dei blocchi; le democrazie occidentali spingono sui diritti individuali ma usano il doppio standard; altri sistemi pensano piuttosto a dei valori e diritti comuni, cioè della comunità.

Progressivamente anche nelle democrazie occidentali cresce quella parte di cittadini che accetterebbero una (magari temporanea) limitazione delle libertà pubbliche (attenzione: non quelle private!) in cambio di sicurezza e di migliori performance economiche. Basta non andare a intaccare le decisioni soggettive delle persone, quelle sull’identità e i valori, sul modo che scelgono di vivere e/o di identificarsi. Ci sono dei Paesi precursori: reazionari sui migranti; sovranisti contro l’unità europea; laicisti contro la religione; libertari e fochisti per le scelte individuali; pub del mercato finanziario globale quasi da paradiso fiscale; favorevoli alla guerra. È tutta una contraddizione.
D’altronde anche i vecchi fascismi del secolo scorso avevano dovuto patteggiare con il settore privato e trovato un limite nella religione. C’è tuttavia una condizione imprescindibile: se il modello illiberale non riesce a compiere lo scambio “controllo-prosperità” è destinato a fallire. In tal caso per mantenersi gli resta solo la (antica) risorsa del nemico esterno come capro espiatorio a cui addossare le colpe, cioè in ultima analisi la guerra che inizia sempre come guerra interna contro i più poveri, i diversi e i devianti, gli ultimi (migranti, rom ecc.), per poi rivolgersi contro lo straniero.
Il modello democratico illiberale si configura dunque non come un regime ‘repressivo’ (al pari dei vecchi autoritarismi di un tempo) ma ‘preventivo’ delle libertà pubbliche, in particolare utilizzando la tecnologia di tracciamento, riconoscimento facciale e della sorveglianza digitale.
Possiamo osservare che il desiderio di controllare a monte le reazioni sociali è diventata l’aspirazione di tutte le democrazie, comprese quelle più avanzate in tema di diritti. In questo senso la democrazia controllata o limitata non è un ritorno indietro a vecchie forme di fascismo, ma piuttosto un’inattesa evoluzione che prospetta il futuro collettivo
La Chiesa ha esempi illustri di chi ha cercato di difendere democrazia e pace allo stesso tempo, puntando sul valore della convivenza mediante lo strumento dell’amore politico.
Potrei fare tanti esempi, ma mi limito a quello di Giorgio La Pira, il sindaco santo, che volle fare della sua città un centro di dialogo andando oltre la cortina di ferro e superando anche l’odio tra ebrei e musulmani, tra israeliani e palestinesi. Firenze divenne per un certo tempo un crogiuolo di convivenza mediterranea di cui oggi ci sarebbe molto bisogno. I Dialoghi Mediterranei (MedDialogues) organizzati ogni anno dal Ministero degli Affari esteri dovrebbero tener conto anche di tale aspetto. Un altro esempio illuminante è la decisione di Papa Giovanni Paolo II di fare di Assisi il cuore del mondo mediante la preghiera interreligiosa del 1986.

C’ero e posso testimoniare direttamente quanta leadership morale ci fu da parte del Papa, riconosciuta da tutti, anche dai musulmani. Il cammino di dialogo proseguito dalla Comunità di Sant’Egidio (a cui il ministro Antonio Tajani ha partecipato a Berlino), dimostra l’utilità dell’incontro fraterno come costruzione di un terreno comune.


Ciò è tanto più necessario oggi, tempo di guerre spaventose, una dimostrazione molto concreta di amore politico per il nostro mondo caotico. Fa parte di quella che Papa Francesco ha chiamato la capacità di “organizzare la speranza”.
Che fare allora? “Dobbiamo essere voce – dice Francesco – voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide”.
Mi paiono le parole più chiare su cui non c’è nulla da aggiungere e che diventano il nostro programma.


S.Em. Card. Matteo Maria Zuppi

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