SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Accusa di "islamofobia", preludio al terrorismo.
Ma il problema è veramente l'islam (?)

di Valentina Colombo08-01-2015 lanuovabq.it

Parigi, 7 gennaio 2015 ore 11.30, due uomini armati fanno irruzione nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo e al grido “Allahu akbar” iniziano a sparare sui giornalisti.

Bilancio provvisorio dodici vittime. Alle 13.37 viene pubblicato il comunicato dell’Union des Organisations Islamiques de France (UOIF): “Charlie Hebdo è appena stato oggetto di un orribile attentato. Al momento ci sono undici morti e quattro feriti gravi. L’UOIF condanna nel modo più fermo questo attacco criminale e questi orribili omicidi. L’UOIF porge le condoglianze alle famiglie e a tutti i dipendenti di Charlie Hebdo”. Una reazione tanto immediata, quanto formale. L’UOIF, ideologicamente affiliata ai Fratelli musulmani, non entra nel merito, non giudica, non fa alcun riferimento né all’islam né all’islamofobia. 

D’altronde l’UOIF ha già avuto modo di esprimere, sia a livello di comunicati e dichiarazioni, sia a livello legale, la propria opinione su Charlie Hebdo. Il 3 agosto 2006 gli avvocati dell’UOIF denunciavano Charlie Hebdo per avere pubblicato una vignetta di Cabu, una delle vittime dell’attentato odierno, e per avere ripubblicato due delle vignette del Jillands Posten. L’accusa è quella di "pubblico oltraggio nei confronti di un gruppo di persone per via della loro religione.” 

Nel marzo 2008 la corte d’appello di Parigi aveva respinto ogni capo d’accusa poiché le caricature “che si riferiscono chiaramente a una frazione e non all’insieme della comunità islamica, non costituiscono un oltraggio, né un attacco personale e diretto contro un gruppo di persone in virtù della loro appartenenza religiosa e non valicano il limite ammesso della libertà di espressione.”

Nel novembre 2011, a seguito del lancio di una bomba molotov contro la sede del giornale satirico, l’UOIF emise un comunicato di condanna dell’accaduto, ma a differenza del comunicato del 7 gennaio aggiunse un giudizio sull’operato di Charlie Hebdo. Dopo una ferma condanna, l’organizzazione islamica francese tenne a precisare di comprendere “che la satira fa parte della nostra società e che dei grandi giornali e riviste si sono specializzati in questo genere di informazione”, ma che “queste pubblicazioni, ben lungi da contribuire alla pace e alla coesione sociale, cercano di attaccare un simbolo della fede di circa un miliardo e mezzo di musulmani al mondo, e in modo particolare della comunità islamica di Francia, che si sentono offesi.”

Questa posizione, a seguito di un attentato senza vittime, è stata ribadita più volte. Sempre a ridosso dell’attentato del 2011 Rachid Laamarti, all’epoca amministratore dell’UOIF, intervistato dall’Huffington Post France, dopo una condanna iniziale dell’aggressione fisca, ha precisato che la libertà d’espressione pur essendo lecita e prevista dalla legge francese. Inoltre ha affermato: “Sono per la liberta di blasfemia, ma non sono a favore del consumo di tutte le libertà” ; “Non si può incoraggiare il blasfemo”; “la critica del dogma non deve passare attraverso la critica del messaggero di questo dogma”  ovvero Maometto. Ma la parte più interessante delle dichiarazioni di Laamarti riguarda le conseguenze della critica all’islam e al Suo Profeta:  “Non si possono calcolare le reazioni” poiché non ci si rivolge sempre a élite, ma a persone che possono reagire in modo diverso.

Di fatto è proprio questo il problema che si pone nell’islam e in modo particolare ai musulmani. In un contesto in cui non esiste un’autorità religiosa che possa guidare le menti e le azioni dei credenti, il peso delle parole è sempre più importante e fondamentale. Tuttavia non si tratta del peso delle parole, delle dichiarazioni e delle azioni dei non-musulmani, bensì del peso delle parole degli esponenti dell’islam e in modo particolare dell’islam organizzato che si presenta come il rappresentante della comunità islamica in un dato paese. 

Se è vero quel che ha affermato Laamarti nel 2011 ovvero che non si possono calcolare le reazioni dei musulmani a certe “provocazioni”, è altrettanto vero che non si possono calcolare le reazioni degli stessi a certe dichiarazioni di associazioni, organizzazioni e singoli individui che hanno come unico scopo quello di individuare l’islamofobo di turno.  Questo non significa che non bisogna denunciare atti di vera islamofobia, ma significa che definire islamofobo chiunque critichi l’islam, e in modo particolare l’estremismo islamico, può creare il sostrato per reazioni estreme e violente.

Ebbene l’UOIF, unitamente a tutte le associazioni che in Occidente fanno riferimento al contesto dei Fratelli musulmani, hanno creato negli ultimi anni lo spettro dell’islamofobia, laddove islamofobia viene intesa in senso molto lato. Basti pensare alle reazioni e/o alle azioni legali intraprese dall’UOIF, dal Comité 15 mars & Liberté, dalla Foire musulmane di Bruxelles  a seguito della pubblicazione da parte del Corriere della Sera dell’intervista a Eric Zemmour. Zemmour viene accusato di essersi pronunciato a favore della deportazione dei musulmani di Francia. Lo stesso Comité 15 mars il 2 gennaio scorso ha scritto su Twitter che “i propositi criminali di Eric Zemmour non devono essere ignorati né minimizzati. La reazione che meritano non deve essere timorata”. Citando Laamarti, “non si possono calcolare le reazioni”. 

L’accusa di islamofobia corrisponde a quella di “nemico dell’islam” e il nemico dell’islam, in ambito estremista islamico, va attaccato – fisicamente e/o legalmente. D’altronde la pericolosità di questa accusa e di coloro che si fanno promotori della difesa dell’islam e dei musulmani è stata ricordata, e continua ad essere ricordata, da chi conosce l’estremismo islamico da vicino.

La ricercatrice tunisina Raja Benslama, in occasione della pubblicazione delle vignette danesi, ha scritto: “Vediamo i musulmani piangere perché si attenta all’immagine dell’islam e dei musulmani. Come se questa immagine non fosse conforme all’originale. Deplorano l’ascesa dell’islamofobia come se l’islam, così come lo viviamo oggi, fosse indenne da ogni fobia. Fobia delle donne e dei deboli, fobia delle persone che pregano e pensano in maniera diversa. Vengono poi le grida di coloro che hanno imposto la loro tutela all’islam, inturbantati o meno. Partono in quarta e ripetono allo sfinimento che l’islam è la religione dell’amore, della tolleranza, dell’uguaglianza e della ragione. Esigono che chiunque voglia parlare dell’islam sia musulmano come loro, che appoggi le loro opinioni sull’islam. Altrimenti che chieda scusa. Altrimenti peggio per lui!”

Anche l’egiziano copto Magdi Khalil, presidente del Middle East Freedom Forum, ha messo in guardia da chi denuncia il dilagare dell’islamofobia: “Esiste un numero considerevole di singole persone e organizzazioni che sostengono il concetto di “islamofobia”, tra le quali spiccano Tariq Ramadan in Europa e l’organizzazione islamica CAIR negli Stati Uniti,  tuttavia nessuno di costoro ha mai definito i terroristi come infedeli che hanno abbandonato l’islam. Di fatto le affermazioni di queste persone e di queste organizzazioni condannano in maniera vaga e generale il terrorismo mentre le loro azioni alimentano l’indignazione dei musulmani, e caldeggiando continuamente il concetto di islamofobia, aumentano il risentimento e la rabbia in seno alle comunità islamiche in occidente e facilitano il compito di reclutamento da parte delle organizzazioni terroristiche”.

Una conferma al legame tra accusa di islamofobia e il movimento dei Fratelli musulmani è giunta anche da Abd al-Khaliq Husein, iracheno residente in Gran Bretagna: “Sono i seguaci dell’islam politico ad avere inventato l’espressione “islamofobia”, sono loro a trarne vantaggio e sono loro che fanno di tutto per alimentarla. Il loro scopo è quello di porre le comunità islamiche in occidente in contrapposizione e confronto con i popoli delle nazioni ospitanti e spingere i musulmani verso l’estremismo religioso”. Husein chiarisce un punto fondamentale: “In occidente non esiste la paura dell’islam in quanto religione, bensì esiste la paura dell’islam politico che ha come conseguenza il terrorismo islamico che colpisce e danneggia più i musulmani che l’occidente”. 

Concludendo, l’efferato attentato ai giornalisti di Charlie Hebdo dovrebbe portare a una profonda riflessione sul peso delle parole, sulle conseguenze delle parole. Ripetute pubbliche accuse di islamofobia, ripetuti attacchi legali e verbali nei confronti di chi attaccherebbe l’islam e i musulmani, non fanno altro che accrescere la vittimizzazione dei musulmani, non fanno altro che accrescere l’astio nei confronti di un occidente nemico e ostile, non contribuiscono “alla pace e alla coesione sociale”. L’islamofobia, da condannare quando è vera, è utile solo a chi vuole ergersi a rappresentante politico e legale dell’islam a scapito della maggioranza dei musulmani che non leggono né Charlie Hebdo né Eric Zemmour. 

Benvengano tutte le condanne dell’attentato, ma sarebbe bene promuovere una profonda riflessione sul significato profondo dell’azione dei “difensori dell’islam” dalla cosiddetta islamofobia e soprattutto sulle conseguenze dell’accusa di islamofobia che se per alcuni musulmani può essere combattuta per vie legali, per altri può essere combattuta solo con azioni violente dalle tragiche conseguenze, come nel caso dell’attentato di ieri.

Ma il problema è veramente l'islam
di Gianandrea Gaiani 08-01-2015 lanuovabq.it

La strage compiuta nella redazione di Charlie Hebdo non è un attentato contro la libertà di stampa, come in molti vanno ripetendo, ma un attacco contro l’Occidente e contro la Libertà, bersagli non da oggi nel mirino dell’islam.

Un attacco portato non dai terroristi islamici che hanno compiuto materialmente la strage, ma dall’ideologia islamica. Tra i tanti musulmani “moderati” che oggi condannano il massacro vi sono quelle stesse associazioni che volevano portare in tribunale il settimanale satirico francese per il reato di “islamofobia”, cioè per aver pubblicato vignette satiriche su Maometto, sulla religione musulmana e su diversi esponenti della società islamica.

Dovremmo quindi essere lieti nell’osservare che gli islamici estremisti trovano legittimo uccidere in nome di Allah giornalisti e vignettisti che scrivono e disegnano cose a loro sgradite, mentre i moderati si accontentano di vederli in galera o di far chiudere le loro testate? Per i “moderati” il modello di riferimento ideale è Recep Tayyip Erdogan (la cui vicinanza ai Fratelli Musulmani lo accomuna a molti  “islamici moderati” attivi in Europa e in Italia) che in Turchia ha fatto chiudere giornali e incarcerare cronisti scomodi. Impossibile, quindi, negare ciò che anche un cieco vede benissimo. L’islam soffre di una fortissima intolleranza nei confronti della Libertà in tutte le sue forme politiche, civili e personali.

Ai soliti seguaci del pensiero ottuso, i “pasdaran” del politicamente corretto, che ci ricordano a ogni attentato che la violenza è solo un’aberrazione che con l’islam non ha nulla a che fare, consigliamo di osservare cosa accade in tutti i Paesi musulmani dove i diritti fondamentali e persino quelli basilari (come guidare un’automobile se sei una donna in Arabia Saudita) sono calpestati in nome della religione.

Nei Paesi islamici sono quasi sempre e quasi del tutto negati, non tanto i diritti e le opportunità tipici della società occidentale, ma soprattutto quanto previsto sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, vale la pena ricordarlo, venne redatta dalle Nazioni Unite nel 1948 e comincia con la frase “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.

E’ interessante rileggerla oggi o osservare quanto poco abbia in comune con precetti, usi e leggi islamici. Perché stupirsi di quanto accaduto a Parigi quando già sappiamo delle folle islamiche esultanti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001? Quando sappiamo che un sondaggio in Arabia Saudita ha evidenziato che il 97% degli intervistati considera del tutto condivisibile l’Islam applicato dallo Stato Islamico in Siria e Iraq?

Ormai anche molti leader di Paesi musulmani si sono resi conto che il problema non è il terrorismo, ma l’islam e cominciano a parlarne pubblicamente. Poche settimane or sono Salman bin Hamad al-Khalifa, principe ereditario del Bahrein, ha buttato alle ortiche la retorica della “guerra al terrorismo” ammettendo che quest’ultimo non è un’ideologia ma solo un mezzo per perseguirla. Per il principe “non stiamo solo combattendo i terroristi, stiamo combattendo i teocrati”, cioè quegli uomini che sono posti “ai vertici di un’ideologia religiosa e che detengono il potere, in virtù di un editto religioso, di privare qualcuno dell’avvenire e lo usano per finalità politiche”. Come ha fatto notare Daniel Pipes, il principe al-Khalifa non ha completato la sua analisi (forse per timore delle possibili conseguenze) evitando di dichiarare che l’ideologia “perversa” e “barbara” che egli descrive è tipicamente islamica e i teocrati sono tutti musulmani.

Pochi giorni or sono, parlando all’università al-Azhar del Cairo, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha avuto il coraggio di dire a brutto muso ai leader religiosi della massima istituzione sunnita che il mondo musulmano non può più essere percepito come “fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione” per il resto dell’umanità. E le guide religiose dell’Islam devono “uscire da loro stesse” e favorire una “rivoluzione religiosa” per sradicare il fanatismo e rimpiazzarlo con una “visione più illuminata del mondo”. Se non lo faranno, si assumeranno “davanti a Dio” la responsabilità per aver portato la comunità islamica alla rovina.

“È mai possibile – ha detto al-Sisi – che un miliardo e 600 milioni di persone possano mai pensare di riuscire a vivere solo se eliminano il resto dei 7 miliardi di abitanti del mondo? No, è impossibile”.

Nessun leader occidentale ha avuto finora il coraggio di usare parole simili. Anzi, stanno tutti attenti a non ferire i sentimenti degli islamici che, come è noto, si offendono facilmente. Eppure il massacro di Parigi ci ricorda quello che già sappiamo e cioè che le risposte che la Francia e l’intera Europa sono chiamate a trovare, e pure in fretta, passano attraverso la scomoda ammissione che l’islam è il problema: lo è per l’Occidente come per gli stessi Paesi musulmani.

Occorre rivedere la politica buonista che ci ha portato a tollerare sacche di illegalità praticate dalle comunità di immigrati islamici e perseguire con forza le discriminazioni che abbiamo finora tollerato in nome della “diversità culturale”. Dovremmo ribadire perentoriamente la forza della nostra civiltà basata su diritti e libertà mettendo al bando concessioni come quelle che consentono già in Gran Bretagna la gestione di interi quartieri sotto la sharia invece che sotto le leggi di Sua Maestà.

L’immigrazione va gestita e non solo subita come fa l’Italia che invia addirittura la flotta a imbarcare clandestini e occorre ridefinire tutti i parametri della cosiddetta società “multiculturale”. Perché dovremmo continuare a riempire le nostre città di immigrati islamici che in molti casi contestano le nostre leggi e il nostro stile di vita (perché basato sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo), faticano a integrarsi (con conseguenti altissimi costi assistenziali) e spesso nutrono odio e disprezzo nei nostri confronti?

Ogni Stato ha il dovere di tutelare gli interessi dei suoi cittadini. Per questo, ammesso e non concesso che l’Europa abbia bisogno di immigrati anche in questa lunga fase recessiva, sarebbe più conveniente sceglierli tra i Paesi che hanno cultura e religione compatibili con le nostre. Molti islamici interpretano come debolezza quella che noi definiamo tolleranza e accoglienza e solo una politica accorta e molto rigida in questi settori potrà rendere la vita dura ai “teocrati” e contenere la crescita di consensi dei movimenti anti-islamici che diventerà presto incontenibile in tutta Europa.

Circa la capacità della classe politica europea di reagire alla minaccia, lo scetticismo è però più che giustificato. Non si tratta solo di codardia e incapacità ma, come al solito, di affari. Le monarchie del Golfo che alimentano i gruppi islamisti e jihadisti sono le stesse che finanziano moschee, centri di cultura e organizzazioni islamiche presenti in tutta Europa, ma sono soprattutto le stesse che investono nel Vecchio Continente centinaia di miliardi di dollari. Una pioggia di petrodollari che condiziona da tempo la politica europea, che oltre Atlantico finanzia think-tank molto ascoltati dalla Casa Bianca e che non serve quindi solo ad acquistare aziende, alberghi e squadre di calcio. Il Qatar ha offerto a Parigi 100 milioni di euro per “riqualificare le periferie disagiate”.  Qualcuno mostrerà stupore quando il prossimo Califfato, con annessa jihad, verrà proclamato in una città europea?

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