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«Proposta Kasper»: è un divorzio mascherato |
di Enrico Cattaneo 28-01-2015 lanuovabq.it Uno dei temi più scottanti trattati al Sinodo straordinario sulla famiglia è stato quello dei divorziati risposati. È stato notato che soprattutto nei paesi occidentali, questo fenomeno è molto diffuso anche tra i battezzati, con grosse sofferenze sia per i coniugi sia per i figli. C’è anche però un certo numero di divorziati risposati che intende continuare un cammino di fede. Come deve comportarsi con loro la Chiesa? Al Sinodo straordinario, svoltosi nell’ottobre scorso, sembra che siano state proposte due vie per risolvere la questione dell’accesso alla Comunione dei divorziati risposati: la prima è quella di snellire le procedure circa la verifica della sussistenza o meno del vincolo matrimoniale, cioè dei casi di “nullità”. Notiamo che in ambito cattolico non è corretto parlare di “annullamento”, come molti fanno, ma solo di “riconoscimento di nullità”, e cioè si riconosce che il matrimonio celebrato è stato solo una cerimonia senza “sostanza”, in quanto mancava qualcuno degli elementi essenziali del matrimonio (ad es. la piena libertà, la consapevolezza, l’intenzione di sposarsi, ecc.). Quindi il matrimonio viene dichiarato “nullo”, cioè che non è mai esistito. Per arrivare a questa dichiarazione, la Chiesa oggi prevede un accurato processo, in duplice grado, e per il quale si richiede almeno qualche anno, con delle spese per gli avvocati e per gli spostamenti dei testimoni, ecc. Ora a molti vescovi tutto questo è sembrato troppo penalizzante, e quindi hanno proposto uno snellimento della procedura. È stata prospettata però anche una seconda via, ed è quella che per brevità chiamiamo “proposta Kasper”, la quale si avvicina alla prassi delle Chiese ortodosse. Come si comportano queste Chiese? Pur mantenendo la dottrina della indissolubilità del matrimonio, esse prevedono che ci siano delle “eccezioni”, delle “dispense” (che chiamano oikonomia, in latino dispensatio): quando il vescovo locale constata che il precedente matrimonio è “morto”, cioè non esiste più, può rilasciare un certificato di “annullamento”, grazie al quale le persone sono libere di contrarre un nuovo matrimonio, sia pure in forma non solenne, e quindi possono fare la Comunione pubblicamente. Ora queste due vie (quella della dichiarazione di “nullità”, e quella “penitenziale”) a ben vedere sono incompatibili, nel senso che se al prossimo Sinodo passasse la “proposta Kasper”, la Sacra Rota potrebbe andare in pensione. Vediamo di spiegarci. Notiamo anzitutto che l’istituto processuale, che potrebbe portare (ma non necessariamente) alla dichiarazione di nullità, esiste solo nella Chiesa Cattolica, cioè solo in quella Chiesa che ha conservato integralmente il precetto divino della indissolubilità del matrimonio rato e consumato tra battezzati. Infatti, tutte le altre Chiese o Confessioni cristiane ammettono il divorzio, anche se con modalità diverse, e di conseguenza non sono interessate a indagare sulla validità o meno del precedente vincolo coniugale. Diciamo anche che solo la Chiesa Cattolica ha sviluppato una vera e proprio teologia del matrimonio, con i necessari aspetti giuridici (quando si ha a che fare con persone, non si può liquidare l’aspetto giuridico come irrilevante). In particolare, per quanto riguarda il famoso “inciso matteano”, che dice «se non in caso di porneia», comunque si voglia tradurre questa parola (adulterio, concubinato, unione illegittima), l’interpretazione cattolica (a differenza di quelle ortodosse e protestanti) lo intende come possibilità od obbligo di “separazione”, non come una apertura al divorzio. Ora se passasse la proposta Kasper, e cioè se due divorziati risposati potessero accedere pubblicamente all’Eucaristia, con l’indulto del vescovo, non ci sarebbe più bisogno di andare ad indagare se il precedente matrimonio sia valido o nullo. Si arriverebbe cioè alla situazione delle Chiese ortodosse, e la via della dichiarazione di nullità diverrebbe una superflua perdita di tempo e di denaro. È bene dunque sapere a che cosa potrebbero condurre certe decisioni. Qualcuno potrebbe dire: «Ma questo è proprio quello che noi vogliamo! Per noi andrebbe bene così!». Obiettiamo: ma allora la Chiesa Cattolica si è sbagliata in questi duemila anni tenendo fede alle parole di Gesù sul divorzio? Rispondono: «Non diciamo che si è sbagliata, ma che ha interpretato in maniera troppo rigida le parole di Cristo, e che ora è tempo di cambiare. Del resto – proseguono costoro – non ammette forse la dottrina cattolica un progresso nella comprensione della rivelazione, come afferma la Dei Verbum del Vaticano II? Non dice inoltre la Relatio Synodi che proprio in questo campo la Chiesa dovrebbe fare “scelte pastorali coraggiose” e intraprendere “cammini pastorali nuovi” (n. 45)? E che cosa vuol dire questo, se tutto deve rimanere come prima? Ritornando alla oikonomia ortodossa, che cosa significa in fondo se non un ritorno di fatto alla legge di Mosè, prima delle parole di Cristo? Mosè conosceva bene il comandamento di Dio, ma, di fronte alla “durezza di cuore” degli uomini, dice Gesù, “Mosè vi ha permesso il divorzio” (cfr Mt 19, 8). Oggi gli ortodossi dicono: «Conosciamo e manteniamo la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, ma di fronte alla “fragilità di cuore” delle coppie, concediamo, sia pure con dolore, il divorzio». In conclusione, questa è la mia interpretazione della dottrina della Chiesa: perché i divorziati risposati, che intendono proseguire un cammino di fede nella Chiesa, possano accedere pubblicamente alla Comunione eucaristica, c’è una sola via, e questa è quella di arrivare, dopo un serio processo, alla dichiarazione di nullità del precedente matrimonio. |
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