Corso di Religione
Il 20 marzo 2015 Papa Francesco ha reso pubblica una lettera alla
Commissione internazionale contro la pena di morte, dove afferma
di volere spiegare – con maggiore dettaglio rispetto a precedenti
occasioni – perché oggi la Chiesa è contraria alla pena capitale.
Il Pontefice è consapevole che, sul punto, la posizione della Chiesa
Cattolica ha conosciuto un’evoluzione. Il «Catechismo della Chiesa
Cattolica» del 1992 ricordava al n. 2667 che «l’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità
e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte,
quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente
dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani».
Lo stesso «Catechismo»
ricordava però che la Chiesa ha sempre fissato condizioni
molto rigorose perché la pena di morte potesse essere applicata
legittimamente. E concludeva che «oggi, a seguito delle possibilità
di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine
rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli
definitivamente la possibilità di redimersi, i casi
di assoluta necessità
di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura
praticamente inesistenti”».
La citazione finale è di san Giovanni Paolo II, tratta dall’enciclica «Evangelium vitae», e autorevoli interpreti come il cardinale americano Avery Dulles avevano già tratto dall’accenno alla «pratica inesistenza» conclusioni che tendevano a escludere del tutto la legittimità oggi della pena di morte. Con la lettera alla Commissione internazionale Papa Francesco interviene autorevolmente a sostegno di questa interpretazione.
Il Pontefice parte dalla considerazione evidente secondo
cui la vita è sacra.
Già sant’Ambrogio, ricorda Francesco, affermava citando il
caso di Caino che «Dio
non volle punire l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento
del peccatore più che la sua morte». Dunque, commenta il Papa, «neppure
l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante».
Pertanto la pena di morte è contraria «al senso di ‘humanitas’ e alla misericordia
divina, che dovrebbe essere un modello per la giustizia degli uomini. Implica
un tratto crudele, inumano
e degradante, come lo è anche l'angoscia che precede il momento dell’esecuzione
e la terribile attesa tra la sentenza e l’applicazione della pena, una
‘tortura’ che in nome di un giusto processo, dura solitamente molti anni
e che in attesa della morte non di rado porta alla malattia e alla follia».
Oggi la situazione è resa più grave dall’uso strumentale che
della pena di morte fanno i «regimi
totalitari», per non parlare dei «gruppi di fanatici»
che trasformano le esecuzioni capitali in spettacoli via Internet di cui
sono spesso vittima «nuovi martiri» cristiani.
La Chiesa sa bene che ancora oggi la pena di morte è
applicata anche da Stati di diritto
e membri rispettati della comunità internazionale.
Ma resta, scrive il Papa, «un fallimento» della giustizia, «inammissibile
per quanto grave sia il delitto della persona condannata» perché «non rende
giustizia alle vittime, ma incoraggia la vendetta». Francesco cita Dostoevskij:
«Uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più
grande della stessa punizione del crimine. L'omicidio in virtù di una sentenza
è più spaventoso dell'omicidio che commette un criminale». No, commenta
il Pontefice, «non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere
umano».
Nello sviluppo storico della sua dottrina, la Chiesa
ha riflettuto sul fatto che «la
giustizia umana è imperfetta» e «con l'applicazione
della pena capitale si nega al condannato la possibilità di riparare o
di emendare il danno commesso», «della confessione attraverso cui l'uomo
esprime la propria conversione interiore» e della «contrizione che porta
al pentimento e all'espiazione, per giungere all’incontro con l’amore misericordioso
e risanatore di Dio». I dibattiti sul «modo umano»
di amministrare la pena capitale non risolvono il problema. «Non c'è un
modo umano di uccidere un'altra persona».
E Francesco ricorda le riserve che in altre occasioni ha
espresso sulle condanne
all’ergastolo senza speranza di liberazione, una specie
di «pena di morte nascosta»
che priva totalmente il condannato della speranza. Mentre la giustizia
«può prendere il tempo dei colpevoli, ma non potrà mai prendere la loro
speranza». E sono contrarie alla dottrina sociale della Chiesa anche le
condizioni carcerarie che non rispettano la «dignità umana»
dei detenuti.
Francesco invita implicitamente a leggere anche il suo Magistero sulla pena di morte secondo l’ermeneutica della «riforma nella continuità», che nell’enciclica «Caritas in veritate» Benedetto XVI chiedeva di applicare non solo al Vaticano II ma a tutto l’insegnamento della Chiesa. C’è una riforma nelle parole di Francesco rispetto al Magistero precedente? Certamente sì. Il Papa invita ad accettarla lealmente, e mostra che si situa nella linea di uno sviluppo del Magistero che tiene conto di condizioni storiche e di contesti giuridici mutati, e che già era stato avviato da san Giovanni Paolo II.
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