SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Cristiani caldei massacrati in Iraq
Cristiani iracheni combattono
l'ISIS

di Giorgio Bernardelli 25-02-2015 http://www.lanuovabq.it

Perché l'Isis massacra i cristiani nella valle del Khabur

Di fronte alle notizie ormai quotidiane sulle violenze contro i cristiani perpetrate dallo Stato Islamico, la prima reazione è sempre lo sgomento. E non potrebbe essere diversamente quando - come accaduto ieri - apprendiamo dei rastrellamenti e dei rapimenti in corso nell'alta valle del Khabur, nel nord est della Siria, con decine di caldei portati via. Oltre alla distruzione della chiesa di Mar Bithion, nel villaggio di Tal Hormuz.

Sarebbe tempo - però - che subito dopo cominciassimo anche a chiederci: perché proprio lì? E perché adesso?

Dell'autoproclamatosi califfo al Baghdadi – infatti – tutto si può dire tranne che si muova in maniera casuale. Erano lì a portata di mano almeno dall'estate scorsa questi trentacinque villaggi caldei nella zona a nord ovest di Hassaké, verso la frontiera turca di Ceylanpinar. Come mai vengono presi di mira proprio ora? La risposta ieri l'ha data molto chiaramente il vescovo locale Mar Aprem Athniel, contattato dall'Aiuto alla Chiesa che Soffre attraverso un proprio referente iracheno: avanzano nell'alta valle del Khabur perché hanno perso Kobane, la città curda sul confine con la Turchia, che si trova un centinaio di chilometri più a ovest. Kobane, la porta di accesso dei foreign fighters che vanno a combattere, ma anche delle armi che alimentano questo conflitto. Kobane, l'unica città accessibile per i giornalisti occidentali embedded tra i peshmerga curdi. Kobane per questo diventata l'unica battaglia raccontata della guerra contro lo Stato Islamico (quella che alla fine il califfo ha perso).

Persa una Kobane - però - se ne trova un'altra. Così ora è partito l'attacco ai villaggi caldei dell'alta valle del Khabur, per garantirsi un'altra via «sicura» di accesso dalla Turchia.

Cioè dal Paese che - appena qualche giorno fa - ha sfoderato un'incursione in grande stile in Siria per riportarsi a casa le spoglie di Suleyman Shah, il nonno del fondatore dell'impero ottomano: era sepolto in un mausoleo che per i mille bizantinismi dei trattati era rimasta un'area extraterritoriale turca. La stessa Turchia - però - al di qua della frontiera, quantomeno non si accorge dei traffici organizzati dallo Stato Islamico e comunque non sembra intenzionata a interferire. Così la valle del Khabur è perfetta per al Baghdadi: molto difficilmente qualcuno si preoccuperà davvero di 35 villaggi cristiani di un'area che in pochi sanno distinguere su una cartina. Perfetta anche perché per i giornalisti Tel Shamiram o Tel Hormuz resteranno comunque molto più difficilmente raggiungibili di Kobane e dunque non diventeranno un simbolo. Del resto - come dichiarato senza mezzi termini sempre ieri all'agenzia Fides dall'arcivescovo siro-cattolico di Hassaké, Jacques Behnan Hindo - anche i bombardieri americani mentre il califfato sferrava il suo attacco hanno sorvolato l'area senza intervenire.

Perché - alla fine - la valle del Khabur è un altro posto dove lo Stato Islamico può contare sul suo vero alleato di ferro: le mille partite diverse che tutti continuano a giocare in Siria, rendendo la coalizione che dovrebbe combatterlo un ammasso di parole. Il tutto alla viglia dell'annunciata battaglia di Mosul; che - nonostante i proclami - non si sa bene quando arriverà davvero; ma con questa mossa certamente al Baghdadi si sta preparando.

Ci sarebbe poi da aggiungere anche qualcos'altro. E cioè che cosa rappresenta la valle del Khabur per i cristiani caldei.

Perché questi trentacinque villaggi sono il risultato di un'altra ferita: i cristiani iracheni arrivarono qui in fuga nel 1933 al termine dell'ultimo capitolo del genocidio assiro, parente stretto del genocidio degli armeni (ma ancora meno conosciuto). Perché nelle stragi e nelle deportazioni forzate di un secolo fa anche i cristiani assiri nell'Impero Ottomano subirono la stessa sorte degli armeni. E le loro sofferenze ebbero un'appendice negli anni Trenta quando l'Iraq - appena divenuto indipendente - stroncò nel sangue le richieste di autonomia degli assiri nel massacro di Simele. In quei giorni drammatici in migliaia varcarono il confine con la Siria, allora ancora sotto dominio francese. E nacquero questi villaggi che poi grazie alle dighe e alle opere di canalizzazione del preziosissimo fiume Khabur sarebbero diventate il granaio del Paese. Prima di un folle gioco al massacro che oggi non è solo lo Stato Islamico purtroppo a giocare.

In lotta contro la jihad: la brigata cristiana
di Gianandrea Gaiani 25-02-2015

Cristiani alla riscossa contro lo Stato Islamico in Iraq.

Migliaia di cristiani iracheni, molti dei quali provenienti dai campi profughi istituiti in Kurdistan per ospitare i 100 mila cristiani e yazidi fuggiti l’anno scorso all’avanzata del Califfato, hanno imbracciato le armi e si stanno addestrando nel Nord-est dell'Iraq per riconquistare città e villaggi. Un reportage di Newsweek ha raccontato la scorsa settimana che le Unità di protezione della piana di Ninive contano al momento 3.000 uomini arruolati e in attesa di ricevere l’addestramento oltre a 500 cristiani già operativi e dislocati nei villaggi assiri nel Nord dell'Iraq e altri 500 in fase di addestramento.

L'iniziativa militare è stata lanciata dal partito iracheno Movimento Democratico Assiro con l'obiettivo di liberare i centri occupati e costituire una zona per cristiani e yazidi così come per le altre minoranze. "Questa è una battaglia per riprenderci e tornare nella nostra terra - ha detto al Wall Street Journal un parlamentare assiro, Onadam Kanna - è come se le nostre radici di migliaia di anni fossero state strappate dalla terra".

"Nessuno ha protetto queste minoranze e nessuno lo farà in futuro" ha denunciato Kaldo Oghann, un esponente del partito assiro coinvolto nell'iniziativa militare. Secondo il Wsj, la proposta di creare la milizia sarebbe stata snobbata dal governo centrale di Baghdad, inducendo così il partito assiro a rivolgersi alle autorità curde che hanno concesso loro l'uso dell'ex base militare Usa Manila, appena fuori Kirkuk. L'iniziativa militare ha incontrato anche la disapprovazione del patriarca Louis Sako, capo della chiesa caldea cattolica, seguita da molti assiri. Forte invece il sostegno della diaspora assira, concentrata in particolare negli Stati Uniti, in Australia e in Svezia, che, secondo la rivista britannica Catholic Herald, sarebbe l'unica fonte di finanziamento. John Michael, un assiro britannico, ha dichiarato: "Questa è la nostra ultima possibilità, se fallisce allora la cristianità sparirà dall'Iraq".

A combattere tra le fila della milizia cristiana stanno affluendo anche volontari internazionali a conferma che la caratteristica religiosa/ideologica di questo conflitto mobilita i cosiddetti “foreign fighters” sui due lati della barricata. Non ci sono numeri ufficiali ma diversi cittadini occidentali che hanno raggiunto l'Iraq per entrare a far parte di Dwekh Nawsha,(“votati all’immolazione” nella lingua aramaica ancora parlata dai cristiani assiri) la milizia cristiana attiva al fianco dei peshmerga curdi.

Tra i volontari, il sito di Ankawa cita il 28enne Brett, veterano dell'esercito americano tornato in Iraq per combattere l'IS in quella che descrive come la guerra tra il bene e il male. “Vogliamo garantire la sicurezza qui, dove vive un grande popolo. Nelle città che stiamo controllando la gente ha ripreso a condurre una vita decente, possono andare al lavoro, le campane della chiesa suonano e riprenderemo anche altre città da Daesh”, ha detto usando l'acronimo arabo dell'IS.

Primo occidentale a essere entrato a far parte della milizia cristiana irachena, Brett è stato di recente seguito da altri, come l'ingegnere informatico Scott, per sette anni tra le fila dell'esercito americano. Inizialmente Scott voleva entrare a far parte delle unità di protezione del popolo curdo (YPG) impegnate negli scontri contro il Califfato per la liberazione di Kobane in Siria, ma ha cambiato idea dopo i sospetti di legami tra le milizie curde siriane e il PKK, considerato dagli Usa un'organizzazione terroristica.

“Sono qui in Kurdistan per aiutare tutte le persone che vengono vendute come schiavi. Qui i bambini vengono uccisi, i cristiani sfollati ed è fondamentale proteggere chiunque, al di là della sua religione. Vengo dalla Carolina del Nord, negli Stati Uniti, ma sono più felice qui. Quello che voglio è cacciare Daesh dal Paese, distruggere le sue basi” ha raccontato Scott. “Vorrei che tutte le comunità lavorassero insieme, persone di ogni razza e religione insieme per combattere l'IS che è la vera minaccia, non solo in questa parte di mondo, ma anche in Europa e Nord America. E' un problema  mondiale e dobbiamo essere tutti coinvolti'', ha detto Andrew, un altro foreign fighter.

Tra i volontari stranieri anti-jihad c’è anche una donna che racconta di essere stata ispirata dal ruolo femminile nelle milizie curde YPG, ma spiega di identificarsi molto di più con i valori “tradizionali” dei combattenti cristiani. "Sono dei barbari, non fanno distinzioni quando si tratta di uccidere o torturare, e Dwekh Nawsha è in prima linea per difendere questa città". Così Khamis Gewargis Khamis, cittadino australiano di Melbourne, intervistato dall'Abc a Baqofa, 30 chilometri da Mosul e a due chilometri da Batnaya, da dove i miliziani dell'IS hanno cacciato i cristiani assiri. 

La milizia cristiana potrebbe venire impiegata anche nell'offensiva prevista per aprile per la liberazione di Mosul che vedrebbe impegnati 20-25mila militari curdi e iracheni come ha reso noto il Central Command statunitense. Le forze di Dwekh Nawasha si trovano già in prima linea ma, lamenta Khamis, ricevono ben pochi aiuti pur combattendo sullo stesso fronte. "Per essere onesti, non riceviamo niente dal governo centrale o del Kurdistan, dal momento che siamo una milizia indipendente, così abbiamo bisogno di aiuti" da parte della comunità internazionale.

"Così noi chiediamo alla comunità internazionale di aiutarci", conclude sottolineando anche come non sia preoccupato da un'eventuale incriminazione una volta tornato in Australia per essersi unito ad una milizia irregolare. I leader della comunità assira in Australia hanno chiesto al governo di non applicare in questo caso la legge che punisce chi va all'estero per combattere perché "non si tratta di terroristi partiti per unirsi all'IS ma per sostenere il nostro Dwekh Nawasha".

Alla milizia stanno aderendo anche altri occidentali, tra i quali alcuni cittadini americani e non è un caso che i volontari stranieri provengano per lo più dai Paesi dove questa comunità è più forte e dove più sentita è la necessità di sostenere lo sforzo contro l’IS. Per tutti si pone però il problema legale di venire tacciati di “mercenariato” o di subire pene pensate per i terroristi che combattono con lo stato Islamico.

Discriminare i foreign fighters “buoni” da quelli “cattivi” significa fare i conti con l’ambiguità dell’Occidente su questo tema spinoso. Del resto finché non sono rientrati a casa con propositi terroristici i “volontari” che aderivano all’ISIS o al Fronte qaedista al-Nusra andavano benone anche agli occidentali e nessuno si è mai sognato di perseguire chi andava a combattere contro il regime di Bashar Assad, considerato in Europa e USA un tiranno da  abbattere con le armi dell’insurrezione.

Stesso problema si pone per i tanti volontari occidentali che combattono al fianco dei curdi. Un soldato del British Army di appena 19 anni ha dato le dimissioni per unirsi alle forze curde che stanno combattendo contro lo Stato Islamico in Iraq e in Siria.

Nei giorni scorsi il Daily Mail ha raccontato la storia del giovane, di cui non è stato rivelato il nome, che avrebbe annunciato ai suoi genitori l'intenzione di partire due giorni fa. "Quei ragazzi hanno bisogno d'aiuto", avrebbe detto riferendosi ai peshmerga in lotta contro l'Isis. Secondo Skynews il militare ha studiato l'arabo. Il ministero della Difesa sta verificando la notizia. Tre mesi fa altri due soldati dell'esercito britannico sono partiti per la Siria per unirsi ai combattenti curdi: James Hughes, 26 anni, e Jamie Read, 24, che attualmente pare combattano sul fronte di Kobane.

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