di Robi Ronza12-02-2015 lanuovabq.it
Il contrasto e la delegittimazione dell’estremismo islamista,
e del terrorismo che ne deriva, è innanzitutto una responsabilità e
un compito degli stessi musulmani di buona volontà. È venuto
il momento che costoro non si limitino più a deprecare l’estremismo
ma si impegnino anche a combatterlo attivamente. Gli altri,
i cristiani e gli occidentali in genere devono sostenerli e aiutarli,
ma non possono sostituirli. È questo quanto ha detto tra l’altro
il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, capitale della
Nigeria, prendendo la parola nel Duomo di Milano la sera di lunedì 9
scorso, al termine di un momento di preghiera per le vittime della
violenza e delle guerre oggi in atto nel mondo.
Davanti ai fedeli che malgrado il freddo (per le
sue dimensioni l’edificio non può venire riscaldato)
avevano riempito la cattedrale ambrosiana, mons. Onaiyekan, ospite
del cardinale Scola, ha parlato della Chiesa in Africa, dell’Africa
e in particolare della Nigeria; non però a partire dal caso
di Boko Haram ma arrivandovi solo dopo aver delineato un ampio
quadro di quel grande Paese, quasi 160 milioni di abitanti per metà musulmani
e per metà cristiani (in crescita, e in maggioranza relativa
cattolici).
Tutto ciò ha consentito di capire due cose che raramente
si vengono a sapere: da un lato che quello di Boko Haram,
delle sue incursioni sanguinarie e delle sue conquiste territoriali è un
caso tragico ma modesto relativamente alle dimensioni della
Nigeria; dall’altro che la Nigeria è cruciale agli
effetti del confronto e della costruzione della convivenza tra cristianesimo
e islam, un problema che non riguarda soltanto il mondo arabo.
Il cardinale nigeriano proveniva da Amman dove
aveva partecipato, a fianco del sultano di Sokoto, massima autorità spirituale
dei musulmani della Nigeria, a un incontro di autorità religiose
di varie fedi promosso dal re di Giordania Abdullah II. Oggetto dell’incontro:
la comprensione reciproca tra le varie fedi religiose e il comune
impegno contro il fanatismo.
Potendo contare sullo straordinario prestigio che deriva
alla sua famiglia dall’essere discendente diretta
di Maometto (condizione che condivide solo con la dinastia reale
del Marocco), già da tempo il re di Giordania ha dato il via
a un processo di aggiornamento dell’islam e di mobilitazione
contro l’estremismo islamista che meriterebbe di trovare maggiore
eco sul circuito massmediatico mondiale e maggiore simpatia e attenzione
nel resto del mondo, e in primo luogo in Occidente.
Nel novembre 2004 aveva in tal senso pubblicato un manifesto, il
Messaggio di Amman (“The Amman Message” nella versione
in inglese) inteso a “definire che cosa è l’islam
e che cosa non lo è, quali azioni sono coerenti con esso e
quali no”, nonché a “chiarire al mondo moderno
la vera natura dell’islam e la natura del vero islam”.
Il documento era stato poi sottoposto a una procedura di verifica
e di completamento cui parteciparono in una prima fase 24 tra i più autorevoli
teologi musulmani di ogni scuola di pensiero e di ogni parte del
mondo, poi sei assemblee internazionali di teologi appositamente
convocati finché entro il luglio 2006 oltre 500 autorevoli
teologi musulmani di ogni parte del globo lo sottoscrissero.
Con questa iniziativa, la prima di tale autorevolezza e dimensione
da oltre mille anni a questa parte, ci sono le basi perché un
processo di aggiornamento e di confronto con la modernità possa
mettersi in moto all’interno del mondo islamico. Sin qui però il
Messaggio di Amman non aveva dato tutti i risultati che ci si sarebbero
potuti attendere. Adesso il feroce assassinio del pilota giordano
prigioniero dell’ISIS sembra aver finalmente provocato un sussulto
nel mondo del cosiddetto “islam moderato”.
Chi lo ha spietatamente bruciato vivo dopo averlo
rinchiuso in una gabbia di ferro, e lo ha cinicamente videoripreso
mentre veniva divorato dalle fiamme, ha ottenuto un effetto opposto
a quello che sperava. Oggi la volontà della Giordania di spazzare
via lo pseudo-califfato dell’ISIS sta raccogliendo consensi
inattesi e tali che potrebbero anche superare il machiavellico desiderio
della Turchia di vederlo sussistere come spina nel fianco sia della
Siria che dell’Iraq.
Ieri Obama ha chiesto al Congresso i “poteri di guerra”, ossia
i poteri avvalendosi dei quali George W. Bush attaccò l’Afghanistan
sotto governo talebano. Ci sono dunque tutte le condizioni perché il
cosiddetto Stato Islamico, che controlla un territorio ben più esiguo
e strategicamente accerchiato dell’Afghanistan, possa venir
spazzato via. Alla facile vittoria militare - dopo la quale occorre
però che gli Usa e l’Occidente escano di scena il
più presto possibile - dovrebbe poi far seguito la ben più difficile
vittoria culturale. A tale riguardo risulta decisiva l’entrata
in campo di chi nel mondo musulmano è su posizioni come
quelle che si raccolgono attorno al Messaggio di Amman. La certezza
del non ritorno dell’ISIS nonché della successiva disfatta
degli Shabaab in Somalia, dei Boko Haram in Nigeria e del terrorismo
islamista in Europa e altrove sta nelle loro mani.
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