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La Siria, Assad e il Califfato

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L’Italia non deve isolarsi di Franco Venturini Milano, 9 sett. 2015 - 07:56  corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA

Nel prendere le distanze dalla prospettiva di bombardamenti francesi e britannici in Siria, Matteo Renzi ha confermato una consolidata posizione italiana ma ha dimenticato la Libia.

Come ribadito di recente dal ministro degli Esteri Gentiloni, se i negoziati per far nascere un governo libico unitario dovessero fallire (o l’accordo si dimostrasse inefficace) l’Italia si aspetta che la coalizione anti Isis già operante in Siria e in Iraq sia estesa nei modi opportuni anche alla Libia, dove la presenza dell’Isis è stata abbondantemente accertata .

In particolare potrebbero essere usati droni armati, di cui l’Italia non dispone, contro bersagli che l’intelligence ha da tempo individuato. Ma se l’Italia si dimostra a dir poco timida rispetto alla maggioranza degli alleati nella sua presenza in Iraq (abbiamo inviato quattro Tornado e due droni con compiti esclusivi di ricognizione, addestriamo i curdi) , se non bombardiamo l’Isis né in Siria né in Iraq, quanto peso avrà domani la nostra eventuale richiesta di aiuto in Libia?

Eppure l’emergenza migranti passa per noi più dalla Libia che dalla Siria o dall’Iraq, e se i flussi ininterrotti mettono a dura prova la tenuta delle nostre strutture (e forse anche dei nostri equilibri socio-politici) dovrebbe essere la stabilizzazione della Libia la nostra priorità assoluta. Del resto l’acquisizione di crediti attraverso la partecipazione attiva è un meccanismo che ci è ben noto: da molti anni il rango internazionale dell’Italia è fortemente tributario delle nostre missioni militari all’estero.

Se poi i ventilati bombardamenti francesi o britannici in Siria siano destinati a cambiare alcunché, è discorso diverso e complesso.

Siamo entrati nel quinto anno di guerra civile tra il regime di Assad e i suoi oppositori, la mattanza ha prodotto 250.000 morti e sette milioni di profughi (una piccola parte di loro arriva ora in Europa, ma la maggioranza è ancora in Libano e in Giordania), il Presidente controlla appena il venticinque per cento del territorio, ma nessuno considera imminente la vittoria militare di una delle parti.

Chi si pone la questione cruciale del «che fare?» davanti a un simile massacro farebbe bene a non accontentarsi di risposte facili e astratte.

L’Occidente dovrebbe ricordare, per esempio, che nei primi due anni di guerra, quando era chiara a tutti la responsabilità soverchiante del regime e gli oppositori potevano in gran parte essere considerati amici o alleati, si decise di non intervenire perdendo poi progressivamente il controllo delle formazioni anti-Assad (a beneficio anche dell’Isis) .

Persino quando fu superata la «linea rossa» del ricorso alle armi chimiche, nell’estate del 2013, Obama si lasciò convincere dai russi a richiamare le navi che secondo le sue stesse parole dovevano infliggere un duro castigo ad Assad. Le brutte esperienze dell’Iraq, dell’Afghanistan e della Libia post-2011 hanno sicuramente avuto un peso sulla paralisi occidentale. E ora è troppo tardi.

Dopo la nascita del Califfato, l’Isis non ha fatto che crescere e avvicinarsi ai suoi nuovi obbiettivi: Damasco e Bagdad. Gli unici che l’hanno efficacemente contenuto sono stati i Peshmerga curdi e le milizie sciite patrocinate dall’Iran. A terra. Ma dall’aria i bombardamenti della coalizione guidata dagli USA, tanto in Iraq quanto in Siria per chi partecipa, non sono andati oltre un risultato di parziale contenimento.

Francesi e britannici non cambieranno di certo la situazione, così come rimarrà ambiguo il comportamento della Turchia (teoricamente anti-Isis ma in realtà anti-curdi) e Assad potrà continuare a contare sull’aiuto misurato dei russi (armi e consiglieri) e su quello diretto degli iraniani e dell’Hezbollah sciita libanese.

La guerra civile siriana è ormai una guerra per procura tra interessi opposti. Sciiti e sunniti si contendono la supremazia nel mondo islamico. La linea occidentale anti-Assad si scontra con il Cremlino che non vuole perdere né la sua influenza a Damasco né il porto mediterraneo di Tartus.

E il risultato complessivo è che immaginare oggi in Siria quell’intervento militare terrestre possibile qualche anno fa può essere il frutto soltanto di una incontenibile retorica. Per l’Occidente in Siria ci sono soltanto nemici giurati, Isis e al Qaeda da una parte, forze di Assad dall’altra.

I bombardamenti della coalizione colpiscono Isis e qaedisti identificati come il nemico numero uno, aiutando indirettamente Assad. Ma come se la caverebbero forze con «gli stivali sulla sabbia», tra i due schieramenti nemici?

Il tentativo di porre fine alla strage non può ormai che essere diplomatico.

Affiancando, d’accordo con la Russia, l’Iran post-accordo nucleare e l’Arabia Saudita, una campagna aerea molto più energica contro l’Isis e un processo politico parallelo che preveda un cambio della guardia a Damasco con l’uscita dignitosa di Assad.

A questo si sta lavorando, sapendo che si tratta dell’ultima spiaggia. L’alternativa è uno smembramento della Siria in zone disegnate dai Kalashnikov, e l’arrivo di nuove ondate di profughi in Europa .

fventurini500@gmail.com

Siria, l'errore del regime change di Robi Ronza 08-09-2015 lanuovabq.it

E’ una bella ipocrisia, come già ieri veniva ricordato, fare grande sfoggio di compassione per i profughi siriani (tra l’altro a spese di profughi di altra provenienza) mentre non solo non si fa nulla contro la guerra in corso in Siria, ma anzi in un modo o nell’altro si continua ad attizzarla.

Rientra perfettamente in questo orizzonte la notizia recentemente fatta circolare secondo cui il segretario di Stato americano John Kerry avrebbe protestato con il suo collega russo Sergei Lavrov per l’invio da parte di Mosca in Siria di un gruppo di esperti militari in missione esplorativa; e inoltre di alloggi-container nonché di impianti per un centro di controllo del traffico aereo destinati a un campo di aviazione.

Secondo Kerry tale iniziativa contribuirebbe ad “aggravare il conflitto” in corso. Frattanto il Dipartimento di Stato ha fatto sapere di non essere certo delle intenzioni russe in proposito, ma di ritenere che grazie a questi materiali la base aerea cui sono destinati potrebbe più facilmente venire impiegata o come punto di arrivo di aiuti militari o come punto di partenza per missioni di bombardamento dell’aviazione governativa.

Nell’insieme le due notizie, entrambe fatte deliberatamente filtrare in modo non ufficiale, costituiscono un tipico esempio di minuetto diplomatico. Un minuetto che in pratica si risolve in un ammonimento di Washington a Mosca, cauto nella forma ma molto chiaro nella sostanza. Gli Stati Uniti di Barack Obama insomma non abbassano la guardia, non rinunciano alla loro speranza di far cadere Bashar al Assad anche se ci tentano senza riuscirci ormai da quattro anni. E in quattro anni non hanno conseguito altro risultato se non quello di devastare la Siria e di destabilizzare il Medio Oriente.

A questo punto occorrerebbe avere il coraggio di ammettere che il tentativo è fallito, e che la permanenza di Assad al potere è se non altro il meglio del peggio. Per far finire la guerra che porta cadaveri di bambini siriani sulle spiagge delle isole greche e migliaia di famiglie siriane all’assalto di treni ungheresi diretti in Germania occorre innanzitutto rinunciare a far cadere Assad. Bisogna mirare a una stabilizzazione della Siria (e quindi anche del Nord Iraq) che parta dal presupposto che, seppur variamente condizionato, Assad resti dove è.

Un primo e relativamente non clamoroso passo in questo senso sarebbe l’annullamento delle sanzioni contro il governo di Damasco che, come sempre accade in casi del genere, pesano innanzitutto sulle spalle del popolo e non del regime politico che così si vorrebbe colpire. Le sanzioni sono davvero l’ipocrisia nell’ipocrisia: a causa di esse tutto quel che resta dell’economia siriana viene ogni giorno sempre più disarticolato e distrutto.

Ridotti alla fame dalle sanzioni, prima ancora che dalla guerra, i siriani che lo possono tentano l’esodo dal loro Paese. Molti muoiono nel tentativo ma quelli che, spogliati di ogni loro risparmio da passatori senza scrupoli, dopo sacrifici inenarrabili riescono ad arrivare in Germania vengono (per qualche giorno) accolti a braccia aperte. E tutto questo tra gli squilli di tromba di un circo mediatico televisivo che non vede un palmo oltre ciò che i governi gli rifilano ogni giorno. E va bene sempre tutto, anche se è il contrario di quanto gli rifilavano il giorno prima.

Tra i maggiori Stati membri dell’Unione Europea, l’Italia è quello che più di tutti ha interesse a una soluzione pacifica e fruttuosa delle due crisi aperte nella regione euro-mediterranea, ossia quella della Siria e quella dell’Ucraina.

E’ chiaro non possiamo muoverci prescindendo dai vincoli che ci derivano dalle nostre alleanze e dall’appartenenza all’Unione Europea, però il nostro governo potrebbe pur sempre fare delle proposte ad alta voce. Per muovere le acque già basterebbe proporre l’annullamento delle sanzioni contro la Siria, e lanciare l’idea di una soluzione del problema delle aree russofone dell’Ucraina orientale sul modello dello statuto speciale internazionalmente garantito dall’Alto Adige SüdTirol.

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