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Quale Turchia bussa alle porte dell'Europa ?

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Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan chiede “al mondo intero rispetto” per i risultati delle elezioni, che consentono la formazione di un governo monocolore. di Stefano Magni 03-11-2015 lanuovabq.it

“Perché non rispettano la volontà della Nazione? Non hanno dimostrato rispetto sin dal giorno in cui la Nazione ha eletto Erdogan presidente con il 52% dei voti. E’ questo il vostro senso della democrazia?”.

Il suo partito islamico, l’Akp, ha ora conquistato il 49,3% dei voti, la maggioranza assoluta, nelle elezioni parlamentari anticipate. Ha una maggioranza assoluta. Non ha, tuttavia, quella maggioranza qualificata che avrebbe permesso a Erdogan di varare la riforma costituzionale in senso presidenziale.

A rovinargli la festa, ancora una volta, sono stati i curdi e turchi di sinistra filo-curdi dell’Hdp, che col 10,4% dei voti sono di nuovo entrati in Parlamento, conquistando 59 seggi. Sono meno degli 80 che si erano aggiudicati nelle scorse elezioni di giugno. Ma sono abbastanza per sottrarre all’Akp quei 15 posti che sarebbero bastati per varare senza problemi la riforma costituzionale.

Erdogan chiede “rispetto”, perché mai come questa volta, almeno dai tempi della prima vittoria di Erdogan, le elezioni sono state precedute da un periodo di tensione. I morti degli attentati di Suruc e Ankara, in particolar modo, pesano ancora nella memoria degli elettori. La giornata dello spoglio e del conteggio è stata caratterizzata da nuove violenze e nuove paure.

Un’esplosione (la cui natura non è accertata), nella città a maggioranza curda di Nusaybin, ha causato una ventina di feriti e ha fatto anche da detonatore a nuove proteste e scontri con la polizia, presto dilagate anche a Diyarbakir e in tutta la regione dell’Anatolia meridionale. I curdi, anche se entrati in parlamento, ritengono che la vittoria dell’Akp sia avvenuta soprattutto a loro spese.

Ma Erdogan chiede “rispetto” anche e soprattutto per motivi politici. E quando lo dice, pensa soprattutto all’Unione Europea, con cui ha avviato un nuovo round di negoziati. La sua ambizione di entrare nell’Unione non è mai stata del tutto accantonata, nemmeno alla luce della politica “neo-ottomana” (maggiormente volta a conquistare l’egemonia nel Medio Oriente) dei suoi governi. La trattativa con la Commissione presieduta da Jean Claude Juncker, è ripresa in quest’ultimo mese, grazie alla grande ondata di emigranti nei Balcani.

La Turchia è la stazione di partenza di quasi tutti loro. “Attualmente in Turchia ci sono circa due milioni e mezzo di rifugiati – dichiarava Erdogan all’inizio di ottobre - abbiamo speso 7,8 miliardi di dollari e abbiamo ricevuto dalla comunità internazionale appena 417 milioni di dollari. In Europa invece ci sono 250.000 rifugiati e migranti.

Le richieste di Ankara sono chiare: aiuti economici, liberalizzazione dei visti di ingresso per i cittadini turchi. Non dichiaratamente, viene anche posta sul tavolo la ripresa dei negoziati per l’ingresso nell’Ue. Attualmente, visto il livello della crisi della grande immigrazione, il presidente turco si trova nella posizione di forza e può dettare le sue condizioni.

Alla fine, la cancelliera tedesca Angela Merkel, ancora prima del voto, aveva offerto una prima apertura concreta: “Vogliamo riaprire il capitolo 17 (politiche monetarie ed economiche) per riavviare la candidatura della Turchia”, ha dichiarato il 18 ottobre. Quanto agli accordi raggiunti con la Commissione Ue: 3 miliardi di euro elargiti per aiutare Ankara nel controllo delle frontiere e un’accelerazione sulla liberalizzazione dei visti di ingresso.

Queste sono le richieste turche all’Europa e la riconferma del governo guidato da Davutoglu, darà loro una base ancora più solida.

Ma che Turchia è quella che sta tornando a bussare alle porte d’Europa?

La grave campagna di repressione della libertà di stampa che ha preceduto queste elezioni, le infiltrazioni dell’Isis, le stragi, la repressione del dissenso dopo le manifestazioni di Ghezi Park, la guerriglia con i curdi (più di 2000 morti in tre mesi), gli arresti di massa di ufficiali e giornalisti dopo un presunto tentativo di golpe (lo “scandalo Ergenekon”), le lotte interne alla magistratura, la sempre più manifesta volontà di Erdogan di accentrare il potere nelle sue mani… tutto questo e molto altro ancora potrebbe diventare un nostro problema comune europeo.

Oltre al fatto che l’Ue finirebbe per confinare con alcune delle aree più pericolose del mondo: Siria, Iraq e Iran, con il relativo problema di milioni di profughi in movimento. Poi è anche lecito chiedersi: quale Europa avremmo se la Turchia dovesse mai accedervi? Non si tratta solo di una questione religiosa. L’ingresso turco nell’Ue cambierebbe l’identità stessa dell’Europa unita.

La Turchia fa già parte della Nato, che è una mera struttura militare, ma non senza problemi: l’unico conflitto nell’Europa meridionale scoppiato nel corso della lunga Guerra Fredda, è stato provocato proprio dalla Turchia, con l’invasione di Cipro. Attualmente Cipro è uno Stato membro dell’Ue a cui manca tutta la costa settentrionale: ancora occupata dai turchi, costituitasi a Stato autonomo mai riconosciuto dalla comunità internazionale.

Andando indietro nella storia, vediamo che la Turchia, guida dell’Impero Ottomano, ha sempre avuto un piede in Europa, dal XV Secolo in avanti. Ma sempre nel ruolo di invasore, mai di partner. Le battaglie di Lepanto (1571) e Vienna (1683) sono fondamentali momenti di unità cristiana nella storia moderna e anche delle tappe del processo di costruzione dell’identità europea.

Entrambe sono state combattute per respingere un’aggressione ottomana. In tempi molto più recenti, il genocidio degli armeni (per mano degli ottomani) del 1915, è un altro capitolo fondamentale della memoria europea, il primo crimine di massa del Novecento. In Turchia è vietato anche solo ricordarlo: è reato scriverne.

La Grecia spende più di ogni altro membro europeo della Nato per le sue forze armate: per difendersi da un’eventuale aggressione dalla Turchia, non da altra provenienza. Anche la Grecia ha subito il trauma della pulizia etnica: circa 200mila morti sulla costa egea dell’Anatolia, per mano dei nazionalisti turchi, negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale.

Al tempo stesso, la Turchia disloca la sua armata più potente e modernamente equipaggiata proprio sulla costa egea, per far fronte alla Grecia. Fra i due paesi si è creata la paradossale situazione di una guerra fredda interna alla Nato. I governi e poi la presidenza del “neo-ottomano” Erdogan non hanno contribuito a ridurre sensibilmente la tensione. Contrariamente ad altre conflittualità storiche intra-europee (come quella fra Germania e Francia o la pluri-secolare lotta fra Francia e Inghilterra), quella fra la Turchia e i suoi vicini mediterranei non è solo storica, ma ancora viva e latente.

Sul piano culturale, il cardinale Joseph Ratzinger, ai tempi in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, così si espresse in un'intervista rilasciata al quotidiano francese Le Figaro, il 12 agosto 2004: “Nella storia, la Turchia ha sempre rappresentato un continente diverso in permanente contrasto con l'Europa.

Sarebbe un errore rendere uguali i due continenti, significherebbe una perdita di ricchezza, la scomparsa della cultura in favore dei benefici in campo economico. La Turchia, che si considera uno Stato laico, ma fondato sull’islam, potrebbe tentare di dar vita a un continente culturale con alcuni paesi arabi vicini e divenire così la protagonista di una cultura che possieda la propria identità, ma che sia in comunione con i grandi valori umanisti che noi tutti dovremmo riconoscere.

Questa idea non si oppone a forme di associazione e di collaborazione stretta e amichevole con l’Europa e permetterebbe il sorgere di una forza comune che si opponga a qualsiasi forma di fondamentalismo”. Una volta asceso al soglio pontificio, Benedetto XVI non cambiò sostanzialmente idea. Nella visita a Istanbul, nel 2006, ribadì che “La Turchia è un ponte tra Asia ed Europa”. Non un’esclusione, dunque, ma un’opportunità di contatto e dialogo fra i due mondi. Nella loro diversità, non nell’inclusione sotto un unico ombrello politico.

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