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Ma chi sono i moderni atei?


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Intervista al filosofo Roberto Timossi, autore di un saggio che analizza la storia filosofica dell'ateismo

E' sempre più presente nel mondo contemporaneo il fenomeno della "non credenza" e anche tra i cosiddetti "fedeli" - quale che sia la tradizione religiosa - si diffondono comportamenti tipici dell'ateismo pratico. L’ateismo si presenta come l’elemento unificante di culture e concezioni filosofiche spesso profondamente diverse tra loro ed è riuscito a insinuarsi in alcune teologie, come quelle della morte di Dio.

Ad occuparsi di una analisi dell'evoluzione storica dell'ateismo ci ha pensato Roberto Timossi, filosofo e membro del comitato scientifico di SISRI (Scuola Internazionale Superiore per la Ricerca Interdisciplinare), che nel suo saggio "Nel Segno del Nulla. Critica all'ateismo moderno" (Lindau), analizza il pensiero dei principali negatori dell’esistenza di Dio e della religione (da D’Holbach a Feuerbach, da Nietzsche a Heidegger, da Sartre a Foucault, da Meslier a Proudhon, da Stirner a Marx, da Bloch ad Adorno, da Sade a Freud, da Schopenhauer a Leopardi e Camus, da Russell a Carnap e Ayer), dedicando un’attenzione particolare ai cosiddetti atei «scientifici» e agli atei moderni, perché negli ultimi decenni si è diffusa una nuova forma di ateismo che vede come protagonisti molti celebri uomini di scienza, quali Steven Weinberg, Richard Dawkins e Stephen Hawking.

Aleteia gli ha posto qualche domanda

Secondo gli studi dell'antropologia si può definire l'umanità come composta dall' Homo Religiosus, indicandone una caratteristica fondativa del processo di ominizzazione e di inculturazione. Tuttavia oggi un miliardo di persone si possono definire come "atee", circa una su sette. Come mai?

Timossi: la dizione Homo religiosus appartiene alla fenomenologia della religione. Quest’ultima si è soffermata sulla categoria del “sacro” e né ha fatto l’elemento fondativo di ogni atteggiamento religioso. Oggi tuttavia si tende giustamente a considerare la religiosità e le religioni fenomeni assai più complessi, quindi non sempre riducibili al rapporto tra sacro e profano. Del resto la società moderna, sorta dalla rivoluzione scientifica e tecnologica, ma soprattutto basata su uno stile di vita individualistico, consumistico e spesso edonistico, sta progressivamente abbandonando l’idea tradizionale di sacralità e si caratterizza invece per una estesa “desacralizzazione”. In questo scenario, la cultura e i comportamenti dei singoli individui conservano spesso l’adesione formale ad alcuni rituali religiosi (da noi andare a messa, battezzare i figli e accostarli alla prima comunione, riti funebri in Chiesa, etc.), ma nell’esistenza quotidiana o nella mentalità dominante si pensa e agisce etsi deus non daretur (come se Dio non ci fosse). È quello che si definisce “ateismo pratico” ed è la forma di non credenza oggettiva più diffusa in Occidente. L’ateismo pratico è l’humus su cui germoglia e prospera l’ateismo propriamente detto o teorico, ovvero quel modo di essere atei esplicito, consapevole e sostenuto da argomentazioni.


L'ateismo sembra essere appannaggio della civiltà occidentale. In nessun'altra cultura infatti è stato scritto così tanto per negare Dio, quanto nella filosofia e in certi circoli del pensiero scientifico. Come lo spiega?

Timossi:  I motivi della prevalente presenza dell’ateismo in Occidente sono molteplici, ma è quello più significativo è sicuramente di ordine culturale. È infatti tipico della cultura occidentale il ricorso al logos e con esso al pensiero critico e al dubbio scettico, che stanno sempre alla radice di ogni forma di ateismo teorico. Nell’antica Grecia il pensiero critico inizia col mettere in discussione l’esistenza degli dei, mentre all’epoca dell’avvento del cristianesimo si oppone al monoteismo di origine giudaica, per poi rimanere sotto traccia per tutto il Medioevo. La ripresa in epoca rinascimentale e soprattutto illuministica di un uso critico della ragione svincolato dalla fede, accompagnato non di rado da venature ideologiche anticristiane, ha condotto al quadro attuale, nel quale anche la scienza viene spesso strumentalizzata contro il teismo e le religioni, specie da uno scientismo che incomincia a presentarsi come prodotto culturale di massa. Ma il pensiero critico di per sé non implica e non conduce all’ateismo, così come non lo implica per forza il progresso scientifico. Spetta ai credenti intellettualmente preparati l’onere di dimostrare e sostenere apertamente questo dato di fatto, comunque certamente con un impegno ben maggiore di quello che purtroppo si nota ai giorni nostri.


Che differenza c'è tra l'ateismo filosofico e quello di scienziati come Dawkins o di Oddifreddi e Veronesi?

Timossi:  l’ateismo filosofico è sostanzialmente di tipo antropologico, ovvero fondato su un’idea di uomo come essere autosufficiente e autoreferenziale, fino al punto di sostituirsi a Dio (è ad esempio quello che accade in Feuerbach). In breve, per esaltare la centralità dell’essere umano si postula la non esistenza di un Essere onnipotente, perché la sua sola presenza rappresenterebbe un fattore limitante per la libertà umana. Nel caso dell’ateismo scientista o scientifico sono i risultati della scienza moderna a costituire il pretesto naturalistico per negare Dio come ipotesi non necessaria o addirittura contraddittoria rispetto alle conoscenze scientifiche. Si ricorre in particolare alla biologia e alla teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie per affermare l’assoluta marginalità dell’Homo sapiens nel contesto degli esseri viventi. L’espressione più nota di questo ateismo di matrice biologica è quella di Richard Dawkins, che già con il suo saggio Il gene egoista aveva sostenuto l’accidentalità di tutte le forme viventi (quindi anche dell’uomo) rispetto all’unico scopo del Dna di riprodurre se stesso, senza curarsi minimamente delle specie che in questo processo selettivo vengono favorite oppure sacrificate. Non manca tuttavia un tipo di ateismo fondato sulla cosmologia e che da ultimo con Stephen Hawking ha assunto con vigore la veste del Multiverso (esistendo infiniti universi, ce ne sarà almeno uno in cui spontaneamente prima o poi potrà prosperare la vita intelligente). L’elemento che accomuna entrambe queste due forme di ateismo è il rifiuto della trascendenza e quindi di ogni teoria dualistica spirito-materia: c’è un solo mondo reale ed è quello del materialismo.


Il problema dell'ateismo è insormontabile per il credente? Come possono dialogare coloro che hanno fede con coloro che non ce l'hanno?

Timossi:  Specifichiamo intanto che qui con il termine “dialogo” si intende un confronto sincero tra atei e credenti, dove l’uno si dimostra aperto alle ragioni dell’altro senza la pretesa di sovrastarlo ad ogni costo e senza irrigidirsi nel pregiudizio. Si tratta insomma di esaminare con onestà intellettuale le argomentazioni di chi non la pensa come noi e di valorizzare innanzitutto i possibili punti di convergenza, pur non nascondendo i dati del dissenso. Il credente deve avere il buon senso di non preoccuparsi delle resistenze e delle intemperanze degli atei, bensì cercare di condurre il discorso sul problema comune a tutti gli uomini: quello del conferimento di senso alla propria vita e a quella altrui. Su questo terreno si dimostrerà facilmente che l’ateo non ha una risposta convincente e alla fine gli rimane soltanto la misera prospettiva del non-senso ossia del nulla.


La moderna etica pubblica, specialmente la bioetica, ha una tendenza libertaria che non concepisce alcun limite per l'uomo. Conquistato un traguardo tecnico esso va applicato senza dubbio, e ormai il principio di cautela è - nei fatti - difeso per lo più dalla Chiesa e dai credenti. L'umanesimo da chi è "rappresentato"?

Timossi:  Il paradigma egemone nell’etica pubblica o socio-politica contemporanea presuppone indubbiamente un’impostazione atea, che nel migliore dei casi assume l’aspetto dell’ateismo metodico, vale a dire di un’esclusione preliminare di Dio e della religione dalle norme che regolano la convivenza tra gli uomini; e ciò a prescindere dal fatto che il singolo individuo nel privato sia un credente piuttosto che un ateo. Si attua insomma una sorta di separazione di principio tra la parte pubblica e la parte privata dell’esistenza delle persone, che non è semplice da concepire e soprattutto da gestire nel quotidiano senza correre il rischio di dissociazioni interiori. L’umanesimo autentico è in tal senso rappresentato da chi coglie nel profondo la vera natura umana, che consiste in primo luogo nell’ammettere i nostri limiti e quindi anche nell’autolimitarci in materie come quelle della bioetica.

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