Corso di Religione

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Come affrontare con i bambini e i ragazzi l’emergenza terrorismo

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“La violenza è l’ultimo rifugio dell’incompetente” (Isaac Asimov)di Daniele Novara, pedagogista, direttore del CPP, daniele.novara@cppp.it ©http://www.cppp.it/

La tensione resta costante. TV e giornali non parlano di altro. La paura è palpabile e i luoghi di aggregazione si assottigliano sempre più nel numero di presenze. In un certo senso i terroristi hanno già ottenuto il loro scopo, ossia creare panico e incertezze. Ma i danni peggiori potremmo crearli noi stessi con i nostri figli.

Si tratta di fare le mosse giuste piuttosto che lasciarsi prendere dall’ansia di dire a tutti i costi qualcosa, come se le parole potessero placare il nostro bisogno di controllare la situazione mentre viceversa rischiano di trasmettere ulteriore panico.

Nelle mie attività da sempre mi occupo del rapporto fra bambini, guerre, catastrofi e quant’altro, anche lavorando direttamente sui territori degli eventi critici (ex Jugoslavia, Corleone, Kosovo).

Cosa possono fare genitori, insegnanti ed educatori in genere?

1. Meglio cambiare canale

Anzitutto evitare di terrorizzare i bambini col terrorismo! Sembra un gioco di parole ma in realtà può succedere proprio questo. In due modi. Il primo modo è quello di esporre inutilmente i più piccoli alla brutalità e alla crudezza delle immagini peggiori che i media di tutto il mondo continuano a trasmettere. Esposizione sostenuta dalla discutibile idea che “non bisogna cambiare canale” quasi che evitare le immagini più terrificanti ai bambini sarebbe una specie di resa al nemico. L’altro modo è quello di affrontare coi bambini contenuti a loro inaccessibili.

Come fa un bambino di 6 anni a distinguere fra Stato islamico e religione islamica? Le loro capacità cognitive, ancora impregnate di pensiero concretistico e anche magico, non sono in grado di operare questa distinzione creando nei piccoli una confusione che genera ulteriore timore. Quando lavoravo alla Fondazione Fossoli di Carpi che gestisce il museo del deportato e le visite al campo di concentramento (dove passò anche Primo Levi), le visite scolastiche erano previste a partire dalla prima media e in casi particolari dalla quinta elementare.

Nessuno del Comitato Scientifico si sarebbe sognato di aprirle ai bambini più piccoli. Spaventare i bambini con argomenti fuori dalla loro portata ottiene l’effetto opposto di quello che si vuole aggiungere. Per i più piccoli è pertanto sufficiente, a fronte delle loro domande, un atteggiamento adulto, calmo e rassicurante, senza indulgere nei particolari macabri.

2. Ci si identifica con l’uno non con il molteplice

La psicologia sociale nei suoi studi sull’empatia, da sempre riconosce che la comprensione di un evento drammatico in età evolutiva avviene a partire dalla narrazione di una vicenda umana singola. Viceversa l’enfasi sui numeri delle vittime, sui danni complessivi, sulle immagini della catastrofe e quant’altro del genere creano una profonda sensazione di impotenza e distrazione, quasi che l’evento fosse qualcosa di estraneo.

Ad esempio nel caso di Parigi può essere molto interessante e vitale ricostruire la vita della ragazza italiana uccisa dai terroristi. Si attiva così, a partire dai 10 anni, una resistenza critica ed emotiva che rafforza gli anticorpi contro la violenza e la guerra.

La foto di un bambino, due grandi occhi spauriti, raccontano più di tante bombe, sparatorie, orrori sanguinolenti e consente ai ragazzi di sviluppare non solo una solidarietà attiva ma anche una vera e propria cultura della non violenza che riconosca il diritto di ogni individuo alla vita e alla felicità.

Si tratta di creare lo stimolo giusto che porti a una interiorizzazione personale. Non ha senso pretendere le risposte scolastiche di fronte a certe tragedie. Ognuno vive e racconta le sue personali emozioni. Questo consente di decontrarre i blocchi e le ansie che inevitabilmente si generano.

3. L’azione libera dalla paura

L’eccesso di parole non aiuta a recuperare la forza per darsi risposte e costruire alternative. Agire qualcosa anche simbolicamente consente di trovare un senso, di scaricare la tensione.
Agire qualcosa assieme agli altri permette di sentire la condivisione del dolore, la volontà comune di essere comunità, di restare uniti per proteggersi e costruire qualcosa assieme che liberi dalla paura.

Manifestare nelle piazze, realizzare marce o cortei per la pace e contro la violenza, scrivere lettere comuni di solidarietà alle vittime, realizzare assieme un murales o qualche altra opera pubblica, accendere candele, danno ai ragazzi la consapevolezza che non si è soli, che con i compagni si può creare una forza comune.

Importante al proposito il coinvolgimento dei ragazzi musulmani. Sono tanti nelle scuole italiane. Possono essere una vera risorsa per capire quello che sta succedendo, per mettere a fuoco che non si tratta di una guerra di religione ma di terrorismo, di violenza pura e semplice, di brutalità vera e propria. Ogni iniziativa andrebbe realizzata anche con loro. Battere il terrorismo è un interesse comune.

4. Imparare a litigare bene come antidoto alla violenza

Appare indubbio che il terrorismo nutre il delirio di chi pensa di risolvere i conflitti con gli altri eliminando gli altri. Da 30 anni personalmente e con lo staff del CPP facciamo ricerche ed esperienze sul valore del saper gestire bene i conflitti per imparare a vivere senza subire o infliggere violenze.

Per i bambini il metodo Litigare Bene da me creato risulta molto efficace e si sta diffondendo nelle famiglie e nelle scuole. Rafforza l’autostima e favorisce la capacità di stare e comunicare con gli altri anche in presenza di contrasti relazionali.
Imparare a litigare bene in età evolutiva rappresenta un’iniezione di fiducia e speranza per tutto il resto della vita.

IL METODO
"LITIGARE BENE"
Premessa al metodo Litigare Bene

La pedagogia nel corso degli ultimi due secoli ha fatto indubbiamente degli enormi passi avanti. La prima rivoluzione viene compiuta nel periodo dell'Illuminismo da Jean Jaques Rousseau,ponendo al centro dell'attenzione educativa il bambino piuttosto che le necessità e i bisogni dell'adulto.

Un'ulteriore rivoluzione avviene agli inizi del '900, definito incautamente “il secolo dei bambini”, quando la pedagogia attiva interviene direttamente sui processi metodologici offrendo una quantità di tecniche, strumenti e approcci che riforniscono scuole e centri educativi per un tempo davvero prolungato.

È l'epoca di Dewey, della Montessori, di Cousinet, ossia di una quantità rilevante di pedagogisti che spazzano via rapidamente le vecchie forme arcaiche offrendo nuove modalità di intendere l'apprendimento. Di fatto però tutto questo movimento non riesce a intaccare le consuetudini legate alla gestione tradizionale dei litigi tra i bambini.

Gli interventi al proposito ruotano sempre sulla stessa domanda:
“chi ha cominciato?” “chi è stato?” “chi ha iniziato?” “chi ha torto, chi ha ragione?”, ossia procedure legate alla ricerca del colpevole.

Anche nell'ambito delle pedagogie cosiddette progressiste è stata mantenuta l'idea che un gruppo ben funzionante non presenta litigiosità ma piuttosto un profilo altamente cooperativo e sociometricamente adeguato. In questo modo si è creato un tabù pedagogico di difficile rimozione perché il profilo scolastico finisce col fare da sostegno alle pratiche familiari tradizionali.

L'istituzione educativa non riesce a smorzare l'ansia genitoriale già abbondantemente elevata su questo versante. vissuti degli insegnanti la fanno spesso da padrone.
Prevalgono le paure: che i bambini si facciano male, che non si sentano difesi, che domini l'ingiustizia dei più forti, che si sentano trascurati dalle insegnanti.

Infine quella più recente: che i genitori dei bambini non solo protestino ma si facciano una pessima opinione degli insegnanti stessi.questa paura ha motivazioni scarsamente scientifiche. Sono in realtà processi di colpevolizzazione che provengono in genere dall'infanzia stessa delle maestre o delle educatrici. Essendosi impiantate in un periodo infantile di cui non c'è una vera e propria memoria consapevole, proseguono senza la possibilità di una sana rielaborazione.

Prospettiva e ricerca

Nel 2010 Daniele Novara, nell'ambito delle attività CPP, formalizza il metodo maieutico Litigare Bene sul quale viene impostata una verifica scientifica.

La ricerca condotta da Daniele Novara e Caterina di Chio nelle scuole di Torino rappresenta pertanto un passaggio storico fondamentale nella storia della pedagogia non solo italiana, perché per la prima volta possiamo riscontrare scientificamente la validità di un approccio che decolpevolizza i bambini, sia della prima che della seconda infanzia, da una visione negativa delle loro interazioni problematiche, dando agli stessi la possibilità di provarci e di collocare l'oppositività e i contrasti reciproci nell'ambito dei necessari processi di autoregolazione relazionale, di comprensione di sé stessi e degli altri, di miglioramento della capacità di vedere i problemi e i conflitti da vari punti di vista, sviluppando un'alfabetizzazione emotiva che lascia sperare che le nuove generazioni potranno finalmente liberarsi dei miti più deleteri della violenza, della guerra e della crudeltà.

Presentazione dei risultati della prima ricerca pedagogica sui litigi dei bambini e delle bambine tra i 3 e i 10 anni

La ricerca pedagogica si è svolta tra dicembre 2011 a maggio 2012 presso alcune scuole di Torino (I.C. King di Grugliasco e Scuola Parri e Perenpruner di Torino), coinvolgendo 190 bambini della Scuola Primaria e 275 alunni della Scuola dell’Infanzia.

Cosa abbiamo fatto? In una prima fase abbiamo registrato e analizzato i meccanismi di litigio fra i bambini e i comportamenti spontanei delle insegnanti nella loro gestione educativa. Quindi abbiamo proposto il metodo alle insegnanti delle classi coinvolte e, dopo una breve formazione, alcune di esse hanno aderito al metodo applicandolo per circa due mesi.

La registrazione successiva all’utilizzo della nuova metodologia ha dimostrato:

1. I bambini si accordano spontaneamente il triplo di volte in più, quanto l’insegnante applica il metodo maieutico rispetto a quando l’adulto interviene a correggere il comportamento infantile. Tali dati coincidono sia nella Scuola dell’Infanzia che nella Scuola Primaria e nel Grafico 1 e 2 presentiamo i dati ante e post sperimentazione relativi alla Scuola Primaria.





2. Sia prima della sperimentazione, che dopo, quando l’insegnante non interviene i bambini spesso risolvono il litigio da soli. Prima della sperimentazione i bambini della Scuola dell’Infanzia adottano la rinuncia attiva nel 60% dei casi e trovano un accordo spontaneo nel 33%. Dopo la sperimentazione metodologica, i bambini risolvono la contrarietà nel 32% dei casi attraverso l’accordo spontaneo e nel 57% dei casi attraverso la rinuncia attiva.
Si vedano i Grafici 3 e 4 relativi alla Scuola dell’infanzia.





Viceversa, se l’adulto interviene in modo correttivo tutto si blocca e, nel 92% dei casi, il litigio resta congelato senza alcuna evoluzione (sospensione del litigio e accordo imposto), come si vede dal Grafico 5.



3. Rispetto alla diminuzione dei litigi, quando è adottato il metodo si registra questo: la remissione (diminuzione dei litigi) è maggiore nella Primaria (6-10 anni) piuttosto che nella Scuola d’Infanzia. Ciò a riprova della naturalezza con cui i bambini litigano nel periodo 3-6 anni senza complicazione alcuna. Nella scuola Primaria si registra poi una diminuzione dei litigi osservati del 47,7% .

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